Osservazioni preliminari  e qualche anticipazione 
Negli istituti religiosi la  Regola segna il momento in cui il carisma originario viene in qualche modo  “cristallizzato”, “formulato”, “plasmato”, affinché le generazioni successive  possano essere garantite nella loro viva partecipazione allo stesso carisma. 
Di solito un Fondatore  mette per iscritto la Regola del suo Istituto, quando si rende conto che  l’esperienza originaria si è dilatata, coinvolgendo collaboratori e discepoli, e  che è giunto il momento di fissare le intenzioni originarie della propria  opera, segretamente dettate dallo Spirito Santo.
Anche a questo riguardo, la  situazione carmelitana è anomala: quella che in seguito verrà approvata dai  Pontefici come Regola è, all’inizio, una semplice “norma di vita”  scritta, tra il 1206 e il 1214, da Alberto degli Avogadro, Patriarca di  Gerusalemme. E Alberto, a sua volta, si basa, nello scriverla, su un progetto (“propositum”)  indicatogli dagli stessi eremiti. 
Al termine della nostra analisi  vedremo che tale “anomalia” corrisponde perfettamente all’altra anomalia  di cui abbiamo già parlato: come, infatti, le origini del carisma carmelitano  devono essere rintracciate più in un Luogo che in un Fondatore (anche se  vengono subito personalizzate in due archetipi: Elia e Maria), e come tali  origini consistono in una possente risalita verso l’Origine stessa  dell’Alleanza (in tutte le sue declinazioni: da quella cosmica, a quella  vetero-testamentaria, a quella cristiana), così la Regola carmelitana non  farà altro che organizzare, nella maniera più semplice, un discorso strutturato  e normativo sul «grande e universale comandamento» che chiede alla  creatura la massima intimità, possibile su questa terra, col suo Dio.
Vedremo che, anche in questo  caso, i carmelitani si troveranno ad ereditare –in maniera personalizzata  ed esigente– il compito originario di ogni monaco (e in ultima analisi: di ogni  cristiano), senza mai potersi rassegnare all’inevitabile decadenza che esso  sempre subisce: chiamati dunque a costruire una storia in continua, paziente,  inesorabile risalita verso l’Origine. 
Dicendo ciò, abbiamo in qualche  modo anticipato le conclusioni cui ci ha condotto lo studio stesso della  Regola, in modo che l’analisi che proponiamo risulti in qualche modo già  ambientata. 
Brevi cenni storici 
La Regola Carmelitana giunge al termine di un’evoluzione –durata circa mezzo secolo– che si conclude  con l’approvazione data dal Pontefice Innocenzo IV nel 1247. In tal evoluzione  si possono distinguere tre fasi.
Le riepiloghiamo qui, anche se  alcune notizie le abbiamo già apprese ricordando la «storia poetica e  spirituale» dell’Ordine nei primi tre secoli della sua vita. 
1)      All’inizio c’è un “vissuto”: verso la fine del secolo XII,  all’epoca della Terza Crociata (1189-1192) condotta dal Barbarossa, alcuni  pellegrini-penitenti di origine latina (“conversi”) si raccolgono sul  Monte Carmelo, presso la fonte notoriamente detta “di Elia”, per condurvi  vita eremitica. 
In quegli anni il Carmelo è uno dei pochi luoghi della  Terra Santa in cui è ancora possibile realizzare una tal esperienza, perché la  Montagna è protetta dai fortilizi militari del Regno Latino.
Abbiamo testimonianze certe della presenza di tali  eremiti a partire dal secolo XIII. 
Il racconto più celebre è quello di Giacomo da Vitry (Jacobus  a Vitriaco), vescovo di Acri (Tolemaide) dal 1216 al 1228, il quale ha  lasciato scritto nella sua Historia Orientalis:
«... Da ogni nazione che è sotto il cielo arrivavano  nella Terra Santa pellegrini votati a Dio, e uomini religiosi attratti dal  profumo di questi luoghi santi e venerabili... Inoltre certi santi uomini  –rinunciando al mondo, accesi dal fervore della vita religiosa–sceglievano i  luoghi più adatti in cui abitare, secondo le preferenze e i desideri di  ciascuno. Alcuni, attratti dall’esempio del Signore, sceglievano quella  solitudine tanto desiderabile che si chiama ‘Quarantena’, lì dove il Signore  Gesù digiunò per quaranta giorni dopo il suo battesimo... Altri invece, a  imitazione del santo anacoreta, il profeta Elia, preferivano condurre vita  eremitica sul Monte Carmelo... vicino alla fonte detta appunto ‘di Elia’... e  qui in piccole celle simili ad alveari, come api del Signore, accumulavano il  miele divino della dolcezza spirituale...» (cc. 51 e 52).
In seguito, i documenti ufficiali dell’Ordine si  riferiranno sempre, come a dei progenitori, a questi pellegrini “in sancta  solitudine conversati”[1]. 
2)      Col tempo, questo “vissuto” giunse ad esprimersi come “propositum”,  cioè come “progetto serio” di sequela di Cristo: gli eremiti del Carmelo,  infatti, chiesero al Patriarca di Gerusalemme, Alberto degli Avogadro –che  ricopriva anche le funzioni di Legato Pontificio– di volere stendere per loro  una “Norma di vita”, basata appunto sul progetto che essi avevano, in  qualche maniera, concordato. Sappiamo anzi che essi avevano già cominciato a  riconoscere l’autorevolezza di un certo fratello B. (Brocardo?) che li  rappresentava tutti.
La “Norma di vita” (“vitae Formula”) che essi  chiedevano non era ancora una Regola, nel senso pieno e giuridico del  termine, ma era già “più di un propositum”, e aveva lo scopo di  raccogliere gli eremiti in un solo “collegium”, ecclesialmente  riconosciuto e sottoposto a un preciso ordinamento giuridico. 
3)      In seguito, quando il Concilio Ecumenico Lateranense IV (1215) proibì la  fondazione di nuovi Ordini religiosi, gli eremiti cominciarono a richiedere  lettere e bolle pontificie di approvazione, mirate a sottolineare che  l’esistenza del gruppo antecedeva la proibizione conciliare. 
Intanto i “carmelitani” dovettero affrontare nel  1238 un traumatico “passaggio in Europa”, e i relativi problemi di adattamento.  Finalmente, nel 1247, si giunse ad ottenere da papa Innocenzo IV una vera e  propria “Regula confirmata et bullata”, la quale riconosceva i “fratelli del Carmelo” come vero e proprio Ordine religioso. Nel contempo,  l’originale struttura eremitica, senza essere rinnegata, veniva comunque  adattata e aperta anche a una certa “forma di vita apostolica”, simile a  quella allora in uso tra i “mendicanti”.
Le più significative modifiche apportate da Innocenzo IV  alla originale “norma albertina” furono:
-          l’elencazione esplicita dei tre voti monastici (“tria substantialia”),
-          la concessione di poter abitare anche nelle città,
-          la prescrizione della recita delle “ore canoniche”,
-          la prescrizione della mensa comune.
Altri piccoli ritocchi andavano ugualmente nella direzione  di accentuare gli elementi cenobitici.
 Ai fini del nostro studio noi  consideriamo, per ora, la Regola Carmelitana come un tutt’uno che trae la  sua struttura essenziale dalla “norma” albertina, e trova la sua  compiutezza nella formulazione definitiva approvata da Innocenzo IV. 
Le distinzioni non ci sembrano  rilevanti per quanto attiene l’interpretazione di fondo del documento.
 «Lettura» dello schema
 A - A1  ® Al saluto iniziale [c. 1]  segue un breve Prologo [c. 2] a cui corrisponderà alla fine un Epilogo [c. 21]. Ambedue (prologo ed epilogo) trattengono, per così dire, nel loro  abbraccio cristologico l’intera normativa, ma insieme la mantengono aperta  alla Persona stessa del Signore Gesù: la “norma di vita” è così  innestata nel grande e universale progetto cristiano della “obbedienza  che è fede” (“obsequium Christi”) e nell’attesa del “ritorno del Signore” (“reditus/redditus”).
B – B1  ®   Il discorso sulla  obbedienza –posto a modo di “grande inclusione” [cc. 3 e 19-20]– definisce  l’abbraccio esistenziale in cui gli eremiti accettano di lasciarsi  ecclesialmente custodire: tutte le disposizioni sono infatti contenute tra la  norma iniziale che assegna un Priore al quale si deve promettere obbedienza  [c.3] e la norma conclusiva che da un lato chiede al Priore di prestare  un umile servizio evangelico alla maniera di Gesù  [c. 19] e dall’altro chiede  ai frati di “onorare il Priore pensando Cristo che lo ha messo alla loro testa”  [c. 20].
 C® Il rimanente corpo della Regola ha quindi, come suo cuore, il “Grande  Precetto” che chiede agli eremiti la preghiera incessante, die ac nocte [cc. 8 e 9]. Attorno tale “Grande Precetto” si collocano, poi, con un ritmo  ternario:
Da notare ancora che queste strutture –le prime tre  preparatorie, e le altre destinate a far crescere e custodire l’attuazione del  “grande precetto” della incessante preghiera– sono disposte in modo che  la celebrazione Eucaristica si trovi collocata esattamente al centro di tutto lo  schema[2].
 Verso una  rinnovata interpretazione 
Per circa sette secoli tutti i  commentatori della Regola carmelitana hanno  considerato come suo cuore e  suo fulcro il precetto della “preghiera continua”, di cui si parla al c. 8: «Rimanga ciascuno nella sua cella, meditando giorno e notte la Legge del Signore  e vegliando in preghiere» [3].
Questo stesso precetto  fondamentale veniva poi –secondo le diverse epoche e le diverse sensibilità–  interpretato o sulla base della originaria vocazione eremitica (tema dell’eremitismo  interiore), o in paragone con i grandi archetipi della vicenda  carmelitana (Elia e Maria), o in base alle esigenze ascetiche e spirituali di  una così impegnativa vocazione, o insistendo sulle normative giuridiche-morali  cui il carmelitano deve attenersi, o precisando i delicati rapporti che devono  intercorrere tra le indicazioni contemplative e quelle apostoliche (anch’esse  presenti nel testo originario), o approfondendo l’humus biblico in cui la Regola è radicata. 
Negli ultimi decenni sono state  proposte nuove riletture che tendono a convergere verso una nuova percezione del carisma carmelitano[4].
Elementi nuovi da considerare  ai fini di un’interpretazione più approfondita sarebbero:
-          il linguaggio medievale “latino-crociato” in cui il testo è  composto, che evoca la centralità di Cristo, considerato allora dai pellegrini  che si recavano a Gerusalemme come “Signore del luogo” al quale offrire  la propria “milizia spirituale” (tema dell’obsequium e del servitium);
-          il primato della Parola che deve intimamente plasmare sia la  comunità che la persona;
-          la centralità dell’Eucaristia come vertice della vita fraterna. 
Centro e cuore della Regola sarebbero pertanto i paragrafi 8-13, che l’autore avrebbe composto con l’intento  di attualizzare, per gli eremiti del Carmelo, la vita della “primitiva  comunità di Gerusalemme”, ideale che in quegli anni avrebbe nuovamente  pervaso la coscienza della cristianità. 
Senza nulla togliere  all’interesse che meritano alcune nuove suggestioni, le quali offrono utili  integrazioni, a me sembra che non si possa e non si debba ridurre tutto agli  aspetti e ai valori comunitari. 
Il senso ovvio dei testi va  rispettato per evitare di cadere –con una manipolazione forzata– nella  genericità e di ritrovarsi così in mano soltanto delle indicazioni buone e  necessarie per qualunque forma di vita cristiana. Ritorneremo sull’argomento,  quando analizzeremo i testi relativi. 
Anche noi, tuttavia, pensiamo  che l’interpretazione della Regola debba essere rinnovata –in base alla  nuova sensibilità ecclesiale che è certo un segno dei nostri tempi–,  ma lo  schema esposto già ci dice che è possibile farlo basandosi ancora sulla  centralità (per tanti secoli intuita e insegnata) del precetto della «preghiera continua». 
D’altronde sarebbe impossibile  negare che questa centralità (anche se più o meno vissuta, secondo le  diverse epoche e le varie vicende comunitarie e personali) ha comunque  strutturato la coscienza e la stessa subcoscienza dei carmelitani d’ogni tempo. 
Crediamo anzi (e pensiamo si  possa dimostrarlo) che tutta la complessa vicenda del Carmelo, nei secoli, ruoti  attorno alla sfida e alla provocazione –accolta dai carmelitani–  di volersi addossare in proprio un tale “precetto (umanamente) impossibile” che ha travagliato da sempre la coscienza di tutta la  cristianità. 
E crediamo altresì che l’interpretazione che qui proponiamo sia esigita non solo da una tradizione assolutamente  concorde, ma dalla stessa struttura che la Regola presenta, se la si  considera senza pregiudizi.. 
«Lettura»  dello schema 
A - A1  ® Al saluto iniziale [c. 1]  segue un breve Prologo [c. 2] a cui corrisponderà alla fine un Epilogo [c. 21]. Ambedue (prologo ed epilogo) trattengono, per così dire, nel loro  abbraccio cristologico l’intera normativa, ma insieme la mantengono aperta  alla Persona stessa del Signore Gesù: la “norma di vita” è così  innestata nel grande e universale progetto cristiano della “obbedienza  che è fede” (“obsequium Christi”) e nell’attesa del “ritorno del Signore” (“reditus/redditus”). 
B – B1  ®   Il discorso sulla  obbedienza –posto a modo di “grande inclusione” [cc. 3 e 19-20]– definisce  l’abbraccio esistenziale in cui gli eremiti accettano di lasciarsi  ecclesialmente custodire: tutte le disposizioni sono infatti contenute tra la  norma iniziale che assegna un Priore al quale si deve promettere obbedienza  [c.3] e la norma conclusiva che da un lato chiede al Priore di prestare  un umile servizio evangelico alla maniera di Gesù  [c. 19] e dall’altro chiede  ai frati di “onorare il Priore pensando Cristo che lo ha messo alla loro testa”  [c. 20]. 
C® Il rimanente corpo della Regola ha quindi, come suo cuore, il “Grande  Precetto” che chiede agli eremiti la preghiera incessante, die ac nocte [cc. 8 e 9]. Attorno tale “Grande Precetto” si collocano, poi, con un ritmo  ternario:
Da notare ancora che queste strutture –le prime tre  preparatorie, e le altre destinate a far crescere e custodire l’attuazione del  “grande precetto” della incessante preghiera– sono disposte in modo che  la celebrazione Eucaristica si trovi collocata esattamente al centro di tutto lo  schema[5]. 
Verso una  rinnovata interpretazione 
Per circa sette secoli tutti i  commentatori della Regola carmelitana hanno  considerato come suo cuore e  suo fulcro il precetto della “preghiera continua”, di cui si parla al c. 8: «Rimanga ciascuno nella sua cella, meditando giorno e notte la Legge del Signore  e vegliando in preghiere» [6].
Questo stesso precetto  fondamentale veniva poi –secondo le diverse epoche e le diverse sensibilità–  interpretato o sulla base della originaria vocazione eremitica (tema dell’eremitismo  interiore), o in paragone con i grandi archetipi della vicenda  carmelitana (Elia e Maria), o in base alle esigenze ascetiche e spirituali di  una così impegnativa vocazione, o insistendo sulle normative giuridiche-morali  cui il carmelitano deve attenersi, o precisando i delicati rapporti che devono  intercorrere tra le indicazioni contemplative e quelle apostoliche (anch’esse  presenti nel testo originario), o approfondendo l’humus biblico in cui la Regola è radicata.
Negli ultimi decenni sono state  proposte nuove riletture che tendono a convergere verso una nuova percezione del carisma carmelitano[7].
Elementi nuovi da considerare  ai fini di un’interpretazione più approfondita sarebbero:
-          il linguaggio medievale “latino-crociato” in cui il testo è  composto, che evoca la centralità di Cristo, considerato allora dai pellegrini  che si recavano a Gerusalemme come “Signore del luogo” al quale offrire  la propria “milizia spirituale” (tema dell’obsequium e del servitium);
-          il primato della Parola che deve intimamente plasmare sia la  comunità che la persona;
-          la centralità dell’Eucaristia come vertice della vita fraterna. 
Centro e cuore della Regola sarebbero pertanto i paragrafi 8-13, che l’autore avrebbe composto con l’intento  di attualizzare, per gli eremiti del
 Carmelo, la vita della “primitiva  comunità di Gerusalemme”, ideale che in quegli anni avrebbe nuovamente  pervaso la coscienza della cristianità. 
Senza nulla togliere  all’interesse che meritano alcune nuove suggestioni, le quali offrono utili  integrazioni, a me sembra che non si possa e non si debba ridurre tutto agli  aspetti e ai valori comunitari. 
Il senso ovvio dei testi va  rispettato per evitare di cadere –con una manipolazione forzata– nella  genericità e di ritrovarsi così in mano soltanto delle indicazioni buone e  necessarie per qualunque forma di vita cristiana. Ritorneremo sull’argomento,  quando analizzeremo i testi relativi. 
Anche noi, tuttavia, pensiamo  che l’interpretazione della Regola debba essere rinnovata –in base alla  nuova sensibilità ecclesiale che è certo un segno dei nostri tempi–,  ma lo  schema esposto già ci dice che è possibile farlo basandosi ancora sulla  centralità (per tanti secoli intuita e insegnata) del precetto della «preghiera continua». 
D’altronde sarebbe impossibile  negare che questa centralità (anche se più o meno vissuta, secondo le  diverse epoche e le varie vicende comunitarie e personali) ha comunque  strutturato la coscienza e la stessa subcoscienza dei carmelitani d’ogni tempo. 
Crediamo anzi (e pensiamo si  possa dimostrarlo) che tutta la complessa vicenda del Carmelo, nei secoli, ruoti  attorno alla sfida e alla provocazione –accolta dai carmelitani–  di volersi addossare in proprio un tale “precetto (umanamente) impossibile” che ha travagliato da sempre la coscienza di tutta la  cristianità. 
E crediamo altresì che l’interpretazione che qui proponiamo sia esigita non solo da una tradizione assolutamente  concorde, ma dalla stessa struttura che la Regola presenta, se la si  considera senza pregiudizi.. 
« [1] Alberto, chiamato per grazia  di Dio ad essere Patriarca della Chiesa di Gerusalemme, ai diletti figli in  Cristo B. e agli altri eremiti che dimorano sotto la sua obbedienza sul Monte  Carmelo, presso la Fonte, salute nel Signore e benedizione dello Spirito Santo». 
– «[21] Vi abbiamo scritto  brevemente queste cose allo scopo di stabilire la forma della vostra maniera di  vivere. Se qualcuno poi vorrà dare di più, il Signore stesso al suo ritorno [“cum redierit”] lo  ricompenserà [“reddet ei”]. Tuttavia si usi quella discrezione che è  maestra di ogni virtù».  
Occorre anzitutto osservare che Prologo ed Epilogo hanno una duplice evidente funzione: da un  versante essi racchiudono ed abbracciano il testo della Regola,  dall’altro versante lo aprono e lo mettono in relazione con l’intera vicenda  cristiana: ambedue infatti indicano Cristo come Signore della  Chiesa e della Storia, a cui tutti i cristiani debbono guardare, per mettersi  alla sua sequela in questa vita e per attenderLo, quando Egli  ritornerà alla fine dei tempi. 
L’«obsequium Christi» [c. 2a]
A chi comincia a leggere il  testo della Regola balza subito agli occhi la scelta insistente e  ripetuta di una terminologia senza limiti: “chiunque…, in qualsiasi stato di  vita…, quale che sia la forma scelta…”. 
Questa prima semplice  osservazione impone già una certa critica su molte riflessioni che si sono fatte  circa l’“obsequium Christi” da essa esigito. 
A stretto rigore di termini, il  tema dell’“obsequium Christi”, di cui qui si parla, è fuori della Regola, perché è più ampio. 
O meglio: la Regola intende porsi come un’applicazione particolare (e particolarmente esigente)  dell’obsequium chiesto a tutti i cristiani.  
Ed è subito, già a questo  punto, che si mostra quanto possa rivelarsi distraente un troppo veloce  ricorso alla «mentalità medievale» e al «linguaggio latino-crociato». 
Si sostiene cioè che, in base a  tale “mentalità” gli eremiti avrebbero percepito la loro vocazione alla maniera “feudale”: lottare (spiritualmente) per la liberazione della Terra Santa,  “patrimonio del Signore Gesù”, e per la edificazione della Santa  Gerusalemme. 
Pur senza negare la possibile  esistenza di tali echi e di tali coloriture, non si deve mai dimenticare che  l’originale lingua bibico-patristica rappresenta, in ogni epoca  cristiana, quel particolare «dialetto comune», immediatamente percepito e  comprensibile, che ha sempre permesso ai cristiani di ogni epoca di parlare lo  stesso sostanziale linguaggio e di intendersi sulle questioni essenziali della  loro comune fede, nonostante le abissali differenze di razza, cultura,  mentalità, situazione storica e ambientale. 
Se c’è un’evidenza  accuratamente sottolineata da Alberto di Gerusalemme è proprio l’universalità  del suo rimando.
Lo sguardo del Patriarca non  potrebbe essere più ampio: egli sta di fatto pensando a tutti i cristiani, senza  distinzione alcuna, e ricorda che su tutti incombe la somma e beatificante  regola di «vivere nell’ossequio di Cristo e prestargli fedele servizio». 
Per comprenderne dunque  l’attuazione specifica che il Patriarca di Gerusalemme vuol proporre agli  eremiti del Carmelo, è necessario anzitutto conoscere ciò che appartiene alla  natura stessa dell’esperienza cristiana. 
Bisogna anzitutto osservare che  il tema dell’«obsequium Christi» non è affatto secondario o accessorio  nel pensiero neotestamentario, anzi esso esprime l’avvenimento stesso della  fede.
L’espressione è tratta infatti  dalla Seconda Lettera ai Corinti ed è una formulazione che occorre  accuratamente esaminare. 
Scrive dunque l’apostolo Paolo: 
«In realtà, noi viviamo  secondo la carne, ma non militiamo secondo la carne. Infatti le armi della  nostra battaglia non sono carnali, ma ricevono da Dio la potenza di abbattere  fortezze, distruggendo i ragionamenti cavillosi e ogni baluardo che si leva  contro la conoscenza di Dio e rendendo ogni intelligenza soggetta all’obbedienza  di Cristo (“in captivitatem redigentes omnem intellectum in obsequium  Christi”). Perciò siamo pronti a punire qualsiasi disobbedienza, non  appena la vostra obbedienza sarà perfetta» (2 Cor 10,5), 
Il contesto paolino, come si  vede, si accorda perfettamente al contesto della Regola che sta per  parlare esplicitamente del “combattimento interiore” e dell’armatura spirituale  che gli eremiti dovranno ingaggiare (cfr. c. 16), così come si accorda a quel  contesto vagamente “feudale” e “crociato” che si vuol riconoscere  sullo sfondo culturale e sociale del tempo in cui il nostro documento è stato  composto. Ma è evidentemente il contesto biblico a prevalere. 
Ciò che l’Apostolo vuol  insegnare è interamente giocato sulla contrapposizione di due parole greche:  hypakoè (che in latino diventa a volte “obsequium” e a volte “oboedientia” )[8] e parakoè (che in latino diventa: “inoboedientia” ). 
Si tratta di un tema generale su cui egli insiste  frequentemente, soprattutto quando parla della propria missione apostolica.
«Abbiamo ricevuto la grazia  e l’apostolato in vista della obbedienza (“eis hypakoèn”) della fede di  tutte le genti» –scrive Paolo all’inizio della Lettera ai Romani (1,5). E conclude la stessa lettera insistendo ancora: «Questo è il mio vanto  in Gesù Cristo... Non oserei parlare se non di ciò che Cristo ha operato per mio  mezzo, per condurre i pagani alla obbedienza (“eis hypakoèn”) in parole e  opere» (15,18). 
L’espressione è tecnica, tanto  che il verbo greco hypakùo traduce abitualmente l’ebraico “Shêma”  (“Ascolta!” -cfr. Dt 6,4-8), verbo sacro per eccellenza, che esorta  all’obbedienza incondizionata alla Alleanza. 
Hypakoè (obbedienza,  ossequio) identifica dunque l’atteggiamento riverente e attivo di chi “accoglie  la Parola di Dio attraverso l’udito e la traduce in pratica”, mentre parakoè (disobbedienza, mancanza di ossequio) è detta la posizione arrogante di chi “ode  male” o “finge di udire” perché “non vuole trarre da ciò che ascolta quelle  conseguenze pratiche per le quali la percezione uditiva diventa un vero e  proprio ascoltare”  [9]. 
Nel Nuovo Testamento hypakoè  “indica sempre la doverosa attenzione al messaggio evangelico”: a volte si  esplicita che si tratta di “obbedienza a Cristo” (2 Cor 5,10), o “al  suo sangue” (1 Pt 1,2) o di “obbedienza alla verità” (1 Pt 1,22); o  di “obbedienza al Vangelo” (Rom 10,16; 2 Ts 1,8). 
Altre volte si parla in maniera  nuda di una “obbedienza” (hypakoè) nella quale si esprime  la condizione stessa del credente[10],  tanto che i cristiani possono essere persino definiti così: “figli  dell’obbedienza (hypakoès)” (1 Pt 1,14).
I fedeli di Roma, ad esempio,  sono giustamente famosi dovunque per la loro “obbedienza” (hypakoè)  (cfr. 16,19). 
Sullo sfondo di una tale  terminologia sta il fatto che anche la missione e il sacrificio di Cristo sono  stati anzitutto hypakoè, obbedienza, al Padre[11]. 
Perciò al radicale obbedire (hypakuein)  di Cristo –“fatto obbediente (hypèkoòs) fino alla morte” (Fil 2,8)– fa  riscontro l’obbedire (hypakuein) della comunità (Fil 2,12). 
Quando dunque si parla di  quella “obbedienza della fede”, a cui tutte le genti sono ormai  irrevocabilmente chiamate –formula che apre e chiude la grande lettera dogmatica Ai Romani (cfr. 1,5 e 16,26)– si tratta di un cosiddetto “genitivo  epesegetico” che può essere reso o parlando di quella “obbedienza che è fede” o parlando di quella ”fede che è obbedienza”[12]. 
Torniamo ora a quell’obsequium  Christi di cui parla la Regola Carmelitana considerandolo come dovere  primario e universale dei cristiani, secondo l’insegnamento di 2 Cor 5,10. 
L’Apostolo si sentiva impegnato  allora in una grande lotta: doveva usare le armi di Dio per condurre tutte le  genti alla obbedienza della fede, “distruggendo i ragionamenti cavillosi e  ogni baluardo innalzato contro la vera conoscenza di Dio” e “piegando  ogni intelligenza all’ossequio (obbedienza) di Cristo”. 
Egli doveva perfino annunciare  il castigo di tutte le disobbedienze del mondo, ma per farlo doveva poter  mostrare anzitutto “la perfetta obbedienza dei credenti”. 
Ed è questo che egli chiedeva  alla sua comunità: di collaborare con un’obbedienza perfetta, al grande  combattimento missionario che egli doveva ingaggiare con tutte le genti.
Anche il Patriarca di  Gerusalemme è impegnato nella stessa lotta[13],  e chiede perciò agli eremiti che si sono a lui rivolti di volersi più  generosamente impegnare nella battaglia della fede, votandosi alla suprema  obbedienza dovuta a Cristo e alla sua Parola. 
«Servire a Lui, con cuore  puro e buona  coscienza» [c. 2b] 
Anche la seconda citazione  biblica, a cui l’autore della Regola si riferisce nel Prologo, per  completare il suo pensiero, ha un humus “militaresco”.
Infatti l’espressione “servire a Lui fedelmente con cuore puro e buona coscienza” riprende il  testo di 1 Timoteo 1,5:
«Ti ho raccomandato di  invitare certuni a non insegnare dottrine diverse, e a non badare più a favole e  a genealogie interminabili, che servono più a vane discussioni che al disegno  divino manifestato nella fede. Il fine di questo richiamo però è la carità che  sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera».
Sono espressioni che vengono  riprese ancora, poco dopo, quando l’Apostolo raccomanda a Timoteo di «combattere la buona battaglia, con fede e buona coscienza, poiché alcuni  l’hanno ripudiata, facendo naufragio nella fede» (1 Tim 1, 19-20). 
La predicazione e l’accoglienza  della vera fede sono la grande preoccupazione soggiacente, ed è un compito che  esige lotta e resistenza, ma esige ancor più che siano pure le radici del cuore  e della coscienza. 
A tale purezza e rettitudine  verso la Parola, –affinché sia davvero possibile l’ascolto più radicale e  assoluto (in ciò consiste l’eremitismo)– Alberto impegna dunque i suoi eremiti.  E anche ad essi consegnerà –come vedremo– la necessaria armatura. 
Per i monaci, inoltre, questa  purezza, era considerata il fine immediato della loro militanza monastica.
Già Cassiano aveva insegnato ai  primi monaci: «Il fine ultimo della nostra professione  è, come dici  tu, il regno di Dio. Ma il fine immediato è la purità del cuore, senza cui non  si può raggiungere il fine ultimo. Mettiamo allora ogni impegno per ottenere la  purità di cuore. Se i nostri pensieri dovessero mai allontanarsene, riportiamo  subito su di essa la nostra attenzione»[14]. 
Il Prologo della  Regola Carmelitana ha, perciò, la funzione di inserire tutte le successive  prescrizioni (in pratica: l’intera “norma di vita”) all’interno di quel compito  cristiano primordiale che è «l’obbedienza della fede»: l’obsequium  Christi a cui si piega con gioia ogni intelligenza credente. 
Ancor più: la «norma»  che il Patriarca sta per donare agli eremiti del Carmelo si presenta essa stessa  come un caso particolare (e particolarmente serio) di questa “grande  Obbedienza”. 
Lo si vede dal fatto che  l’obbedienza al Priore sta per essere chiesta ripetutamente, quasi ad  abbracciare tutto il dettato, come “una grande inclusione” e, ancor più, dal  fatto che il comando di “meditare giorno e notte la Legge del Signore” sta per essere posto come cardine di tutta la Regola. 
Il “ritorno” (“reditus-redditus”)  dell’Epilogo [c. 21] 
Come dunque il Prologo  ha ricordato che non c’è altra legge superiore a quella dell’obsequium Cristi e del servizio fedele a Lui prestato con tutto il cuore, così l’Epilogo vorrà ricordare –prima di con-chiudere la Norma– che il cuore deve restare  sempre proteso all’incontro col Signore che viene. 
Le prescrizioni contenute nella “norma di vita” (“conversationis vestrae formulam statuentes”), dunque,  non impediscono la ricerca del di-più, motivato proprio dal fatto che si  attende il ritorno di un Signore munifico che non si lascerà sopravanzare in  generosità. 
C’è nell’epilogo un  chiaro riferimento alla parabola del Buon Samaritano (cfr. Lc 10,35) il quale  appunto promise all’albergatore di ritornare e di ripagare tutto ciò che costui  avrebbe “speso in più”, in cure che avrebbe prestato al ferito, nella sua  locanda. 
La Regola allora si chiude evocando sullo  sfondo l’immagine di Cristo Buon Samaritano dell’umanità ferita (immagine molto  amata dagli antichi Padri)  [15]. 
 Ma è comunque nuova e  stimolante –anche se appena accennata[16]–  l’immagine di quel primo «eremo carmelitano» che fa quasi pensare  all’ostello della parabola: ciascuno fratello infatti è stato portato in quella  casa dal Signore Gesù per esservi guarito, e ciascuno deve ospitare l’altro  senza lesinare sul prezzo delle cure, dato che il Signore ritornerà.
Purché il tutto accada in una  casa saggiamente governata da quella “discrezione” senza cui non c’è né  cura del presente né attesa del futuro.
 Il “reditus” (ritorno)  del Signore (“ipse Dominus cum redierit...”) diventa così anche  esperienza del “redditus” (ricompensa) da Lui promesso (“...reddet  ei”). 
Il gioco di parole è  intenzionale dato che –nella lingua latina,[17]–,  le due parole (reditus e redditus) finiscono per indicare la stessa cosa:  il “ritorno”, inteso sia come nuova venuta (del Signore), sia come “resa”, “rientro di un bene”[18]. 
Ed Egli stesso si rivelerà come  l’ineffabile ricompensa della nostra operosa obbedienza. 
Anche il tema del “reditus  Domini” e quello del “redditus Domini” già annunziano temi che  diverranno, nei secoli, sempre più tipici della spiritualità carmelitana[19]. 
Un’ultima annotazione possiamo  ancora fare: l’autore conclude la Regola dicendo ai monaci d’aver voluto  stabilire la «formula conversationis [vestrae]».
L’espressione era inevitabilmente destinata a  richiamare loro –sempre a scopo conclusivo– l’insegnamento di S. Paolo che ai  Filippesi diceva: «Conversatio nostra in coelis est » (3,20).  Significativamente, le moderne versioni traducono così l’espressione biblica: «La nostra patria è nei cieli». 
Alberto ricordava discretamente, a quegli esuli e  pellegrini occidentali, che cercando il Carmelo, avevano soltanto voluto  incamminarsi verso la Patria celeste, e che la «forma di vita» (“conversatio”)  doveva sempre tendere all’ultima sacra “conversatio celeste”[20]. 
B-B1:  Tra promessa e compimento (Il grande abbraccio dell’Obbedienza). 
Abbiamo appena visto che  Prologo ed Epilogo rappresentano in qualche modo una “inclusione  cristologica” dentro cui è incastonata la «Norma di vita»; e abbiamo osservato  anche che si tratta di un “castone” più prezioso ancora della gemma,  perché consiste in quella «obbedienza che è la fede» («obsequium») e in  quella «attesa del Signore» di cui si sostanzia la speranza di tutti i  credenti. 
Ma in qualche modo –proprio  perché aperti sull’universale “norma cristiana”– prologo ed epilogo  restano estranei alla Regola: la abbracciano, per così dire, dall’esterno  della sua struttura.
Esiste perciò, in maniera  consequenziale, un’altra “grande inclusione” destinata direttamente a contenere  ed esplicitare la “norma di vita”, applicando al caso particolare degli  eremiti l’ossequio e l’attesa dovuti a Cristo. 
Si tratta dell’inclusione costituita dai capitoli 3 e 19-20 del testo albertino, che qui riproponiamo: 
«[3] In primo  luogo stabiliamo questo  [illud in primis  statuimus]: che abbiate uno di voi come Priore, il quale venga eletto a tale  ufficio o per consenso unanime, di tutti, oppure della parte maggiore e più  matura: a costui ciascuno prometta obbedienza, e si impegni poi ad osservare  l’obbedienza promessa con la verità delle opere, insieme alla castità e alla  rinuncia alla proprietà».
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«[19] Tu poi, fratello B., e  chiunque dopo di te sarà costituito Priore, dovrete sempre avere in mente, e  praticare nelle opere, quello che il Signore dice nel Vangelo: “Chi vorrà essere  il più grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vorrà essere il primo tra di  voi, sarà vostro schiavo”».<                                                                                                                                                   
«[20] E anche voi,  fratelli, onorate umilmente il vostro Priore, pensando –piuttosto che a lui– a  Cristo che lo ha messo alla vostra testa e che dice ai responsabili delle  Chiese: “Chi ascolta voi ascolta me e chi disprezza voi disprezza me”. In modo  da non essere giudicati per averlo disprezzato, ma da meritare il premio della  vita eterna per la vostra obbedienza». 
Che l’obbedienza sia concepita  come la questione capitale –dal punto di vista più teologico che giuridico– è  evidente da molteplici indizi.
L’incipit è solenne: l’«illud  in primis statuimus» indica che tutta la precedente riflessione, in tutta la  sua ampiezza[21],  trova ora lo sbocco concreto e diventa operativa.
Addirittura l’autore non teme  di sanzionare questa prima norma evocando l’avvertimento biblico di 1 Gv  3,18: «Figlioli, non amiamo solo a parole e con le chiacchiere, ma nei fatti  e nella verità». 
L’obbedienza richiesta e  promessa dev’essere accuratamente provata con la verità dei fatti. 
Anche tale sottolineatura non è  soltanto morale, ma cristologica.
Si sa come, già negli scritti  dell’evangelista Giovanni, il termine “verità” tenda a identificare la Persona  stessa di Gesù che si rivela, di modo che “fare la verità”, “operare nella  verità” finisce per indicare cristianamente la fattiva adesione amorosa alla  Sua persona.
L’antica “veritas operis”  (verità dell’opera) nota anche ai pagani –con cui si indica sia l’oggettiva  consistenza dell’azione, sia l’atteggiamento etico di chi dimostra con i fatti  la verità delle proprie disposizioni– diventa cristianamente l’“opus  Veritatis” (l’opera della Verità): l’opera che nasce dalla Verità  personalmente incontrata e amata in Cristo, un’opera che è assieme dono e  compito.
Non che provare la verità della  propria promessa con le opere perda di valore. Il legislatore lo chiede infatti. 
Ma il compiere le opere rimanda  sempre –dal punto di vista cristiano– oltre la promessa fatta, rimanda alla  Persona a cui la promessa è ultimamente rivolta.  
Il fondamento cristologico  della prima norma della Regola [c. 3] non è tuttavia così evidente (se  non per il fatto che essa nasce evidentemente dal comandamento supremo di vivere “in obsequio Iesu Christi”). 
Esso risalta però, con tutta  chiarezza, nella ripresa conclusiva, quando, sia il Priore che i Frati –pur  diversamente coinvolti nel dramma dell’obbedienza– vengono esplicitamente e  ugualmente assoggettati a Cristo Signore.
Il Priore deve avere la mente  pervasa dal comando evangelico che non ammette altro primato che quello del  servizio prestato alla maniera di Gesù –e anche questa persuasione deve  incarnarsi nelle opere– mentre i fratelli devono “onorare umilmente” nel  Priore quel Cristo che “lo ha messo alla loro testa” e che vuole essere  personalmente “ascoltato e non disprezzato” nella persona stessa di chi  esercita l’autorità nella sua Chiesa. 
La “grande obbedienza” che  tutti devono al Signore Gesù s’incarna dunque nell’intero gruppo di eremiti  carmelitani chiamato a diventare un polo obbediente a Cristo proprio  attraverso la reciprocità che si instaura tra il Priore e i fratelli.
-          Il Priore vivrà la sua funzione autorevole obbedientemente:  senza che alcuno possa sminuirla o “disonorarla”, ma rendendola egli  stesso –nei pensieri e nelle opere– un servizio dovuto a Dio.
-          I fratelli vivranno la loro sottomissione al Priore obbedientemente: senza distogliersi dal riferimento immediato alla Persona di Cristo (“Christum  potius cogitantes”), ma pure senza negare alla persona del Priore l’onore  dovuto a Gesù stesso che in lui sceglie di farsi ascoltare e venerare. 
Il Priore dunque si conforma  obbedientemente a Cristo–Servo (il che nulla deve togliere alla sua  autorevolezza), e i fratelli obbedientemente lo riconoscono. 
Solo se questo polo  obbediente (costituito dal priore e dai fratelli, come da due metà di un  unico frutto) si comporrà armonicamente –nella perfetta adesione delle due  parti, ma anche nella pienezza della forma destinata a ciascuna parte– la “grande obbedienza” accadrà e da essa dipenderà il destino dei fratelli.
Infatti, lo “iudicium de  contemptu”[22] o la “merces vitae aeternae” –condanna in giudizio per aver  disprezzato (Cristo) o premio della vita eterna– dipenderanno, da allora in poi,  per quegli eremiti, dalla stretta “obbedienza” che essi liberamente  chiedono e accolgono dalle mani del patriarca Alberto.  
Voler sminuire questa forte  relazione verticale (in direzione di Cristo Signore) in nome di una  fraternità scoperta come “nuovo valore”[23] significherebbe non comprendere la struttura portante della Regola che,  al contrario, intende proprio innestare decisamente la vita dei primi eremiti  carmelitani nel tessuto della grande obbedienza cristiana, in cui  consiste la Fede (“obsequium Christi”), offrendo opportune e totalizzanti  mediazioni ecclesiali. 
La questione del Priore, e  dell’obbedienza a lui dovuta, descrive la prima di queste mediazioni, ma  l’autore non ha alcuna intenzione di addolcirla simbolicamente. 
Si può dire anzi che egli  ricerchi una certa voluta durezza che traspare nel linguaggio cui ricorre tutte  le volte che deve parlarne: 
-          l’avere un Priore è la questione primaria («Illud in primis statuimus...»); 
-          «tutto deve procedere secondo il suo libero volere e le sue disposizioni»  («de arbitrio[24] et dispositione ipsius cuncta procedant»); 
-          tutto deve passare per le sue mani («omnia... distribuantur unicuique  per manum Prioris»); 
-          bisogna sempre attenersi alle sue decisioni e avere la sua licenza («sicut  per dispositionem Prioris...», «nec liceat... nisi de licentia Prioris...»). 
-          E infine tutti i fratelli devono onorarlo umilmente («humiliter»)  guardando non alla sua persona, ma a Cristo che lo ha posto a loro capo («Christum  potius cogitantes qui posuit illum super capita vestra»)[25] e che considera come rivolti a Sé l’attenzione obbediente o il disprezzo, che  ricevono i suoi ministri. 
Da tutto ciò dipende, poi, il “giudizio finale” a cui i fratelli saranno sottoposti da Dio («iudicium  de contemptu» o «aeternae vitae mercedem»). 
Certo la Regola chiede  anche ripetutamente che il Priore agisca con l’assenso degli altri frati,  o almeno «della parte più matura», ma ha di mira più l’aiuto che i  fratelli devono prestare al loro Superiore, che la limitazione dell’autorità. 
L’assenso o il  consenso dei fratelli è un aspetto di quell’abbraccio ecclesiale  (caratteristico di ogni comunità religiosa, come lo fu della primitiva comunità  cristiana) teso a impedire che l’autorità degradi in autoritarismo, e che  l’obbedienza si corrompa nell’irresponsabilità.
 Anche prestare o negare il  proprio assenso è una maniera di obbedire, come lo è (per il superiore)  chiedere il contributo dei fratelli e valorizzarlo nella decisione da prendere. 
Ma la concezione dell’autorità  resta «forte», perché tende inesorabilmente allo scopo del garantire la  più totale e generosa obbedienza a Cristo. E che questa visione forte fosse ben nota, anche nel tempo in cui la vita religiosa si esprimeva in forme  nuove, secondo l’ideale della fraternità, è ben dimostrato da certi  documenti coevi.
Dei frati francescani Tommaso  da Celano scriveva: «L’obbedienza non aveva ancora finito di parlare che già  i frati erano corsi ad obbedire». L’idea del frate “obbediente come un  cadavere” è già presente negli insegnamenti di S. Francesco. 
E il “Maestro delle Vele” non temerà di raffigurare, nella Basilica del Santo di Assisi, questa  allegoria: l’Obbedienza, in vesti femminili, pone un giogo sul collo del  fraticello, mentre col dito sulle labbra gli chiede di tacere, accettando in  silenzio il peso del comando.
Come si vede, pur in clima di fraternità mendicante, non si era per nulla lontani dal linguaggio della  nostra Regola che sceglie la dura formula «Cristo ha imposto [il  Priore] sulle vostre teste»[26]. 
Ma ogni durezza era riscattata  da un’antichissima tradizione spirituale, risalente già alla Scrittura e agli  antichi Padri, che nell’obbedienza vedeva non solo una necessità ascetica, ma la  ricostruzione del mondo paradisiaco: la possibilità di tessere nuovamente  –assieme al Figlio di Dio crocifisso– quel dialogo col Padre malamente  interrotto alle origini.
Che le cose stiano così risulta  non solo dalla nuda analisi dei testi, ma anche dall’intenzione che traspare da  tutta la composizione. 
Finora abbiamo visto:
-          che l’obbedienza della fede, dovuta a Cristo, descrive per così  dire il tessuto generale dell’intera Regola Carmelitana, la cui trama si  esprime appunto in un composito intreccio di mediazioni;
-          che la mediazione più generale, destinata a custodire la vita dell’intera  comunità e dei singoli eremiti, è appunto l’obbedienza a un Priore,  “pensato e onorato” con lo sguardo rivolto a Cristo che lo costituisce. 
Dobbiamo  ora giungere al cuore della questione: il motivo per cui la vita viene così  custodita è che essa dovrà, a sua volta, scorrere tutta intera nella  obbedienza a un “Grande Precetto”: quello della “preghiera continua”. 
C: Il «Grande Precetto» della Regola
«[8] Ciascuno rimanga nella propria  cella, o in prossimità di essa, giorno e notte meditando la Legge del Signore e  vegliando in preghiere, a meno che non si sia occupati in altre giuste  incombenze». 
Parliamo di “grande  precetto” per introdurre correlativamente il tema della “grande  obbedienza” che la Regola ha di mira.
L’obsequium Christi,  chiesto agli eremiti, dovrà avere, infatti, questa precisa connotazione  vocazionale: obbedire al comando evangelico circa la “preghiera ininterrotta”. 
Si tratta di un precetto  totalizzante, di un comando radicale, di una Parola esclusiva e sostanziale che  chiede di essere accolta: la formulazione è talmente onnicomprensiva (“die ac  nocte”) che antecede qualsiasi successiva –opportuna o necessaria–  limitazione. Il testo originario della Regola deve prudentemente  aggiungere la chiosa «nisi aliis iustis occasionibus occupentur» («a meno  che i fratelli non si trovino occupati in altre giuste incombenze»), ma la norma  resta in qualche modo indipendente dalle inevitabili e limitanti contingenze  della vita. 
Ai fratelli eremiti viene  comunque assegnato un compito che, per sua natura, non ammette interruzioni.,  proprio perché si tratta della grande sfida che ha travagliato continuamente il  cristianesimo: il comando di Gesù di “pregare sempre”. 
Non si comprende nulla della  Regola Carmelitana, né delle successive vicende dell’Ordine nei secoli, se  non si comprende questa radice drammatica: che l’Ordine si è sempre sentito  vocazionalmente legato a questa “impossibile sfida” contenuta nella sua Regola. 
Si tratta di una sfida che ha travagliato prima  l’intero monachesimo –per non dire: l’intero cristianesimo– ma da cui quegli  antichi eremiti carmelitani, e poi i loro successori, si sono sempre sentiti  provocati, perfino quando le circostanze della vita non sembravano (e forse non  erano più) adeguate a raccoglierla. 
Ritorneremo con più decisione  su questo argomento, dopo aver analizzato più a fondo il senso del precetto. 
I riferimenti biblici 
Iniziamo dai riferimenti  biblici di cui il “Grande Precetto” si sostanzia. 
1.      «Meditare giorno e notte nella Legge del Signore» 
E’ un’espressione che si  ritrova quasi identica all’inizio di due libri biblici significativi: quello di Giosuè e quello dei Salmi. 
-          Libro di Giosuè: «Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa  Legge, anzi mediterai su di essa giorno e notte, perché tu cerchi di agire  secondo quanto vi è scritto, perché allora tu porterai a buon fine le tue  imprese e avrai successo...» (1,8).
E’ importante osservare il  contesto in cui questo comando si inserisce: il popolo eletto è finalmente  giunto in vista della terra promessa e, sotto la guida di Giosuè, deve  finalmente iniziare la grande lotta di conquista.
Al condottiero Giosuè –e per  suo mezzo all’intero popolo– Dio pone una sola condizione per garantire il suo  aiuto divino: un’assoluta fedeltà alla Legge.
Gli ripete dunque quello che ha  già detto a Mosè: «Non deviare da essa né a destra né a sinistra!» (Dt 5,32;  29,8).
Affinché questa “rettitudine” sia possibile il libro della Legge deve restare sempre davanti  agli occhi e sulle labbra: oggetto di una ininterrotta meditazione[27]. 
In prospettiva c’è il premio  della “terra” che dev’essere conquistata e assegnata come “sacra  eredità”[28]. 
-          Salmo: «Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi / non  indugia sulla via dei peccatori / e non siede in compagnia degli stolti; / ma si  compiace della Legge del Signore, / e medita la sua Legge giorno e notte» (1,2).
Il valore di questa citazione  sta nel fatto che il Salmo 1 deve essere considerato come la prefazione di tutto  il Salterio, consistente nella descrizione delle “due vie” che si aprono  davanti all’uomo: o la compagnia degli stolti e degli empi, che conduce a  rovina, o la solitudine di colui che “sta sempre col Signore”  familiarizzandosi con la sua Parola e cercando la felicità da Lui promessa ai  suoi eletti.
Sono parole che non soltanto  descrivono esattamente –nella sua radicalità– la vicenda vocazionale degli  eremiti del Carmelo (che erano appunto “conversi” o “poenitentes”), ma  anche la loro quotidiana pratica di vita: essendo appunto il Salterio (che  quelle parole introducono), lo strumento che assicura la meditazione  dell’eremita, e gli permette di colloquiare con Dio: di “compiacersi della  sua Legge” e di “meditare giorno e notte”.  
2.      «Vegliare in preghiere giorno e notte» 
«Die ac nocte in lege Domini  meditantes et in orationibus vigilantes». 
L’espressione è congegnata in modo che anche il «vegliare in preghiere» sembra dover accadere «notte e giorno».
Viene in mente il consiglio di Cassiano ai suoi  monaci (che J. Soreth ripeterà poi commentando la Regola Carmelitana):  «Lascia che il sonno ti vinca mentre mediti [il versetto: “Il nostro aiuto è  nel nome del Signore”] così che, formato da questo esercizio incessante, tu  possa cantarlo perfino mentre dormi»[29].
A. Ballestrero la spiegherà così: «L’incessante “vigilia in orationibus” non può non diventare la  traduzione di profondi desideri che sorgendo dal centro dell’anima, dilagano in  tutta la vita e gradatamente la trasfigurano: non più un semplice vivere  terreno, ma la trepida attesa dell’amorosa presenza di Colui che, nascosto,  nutre ed alimenta la perenne “vigilia d’Amore”»[30].             
L’espressione è tratta dalla  Prima Lettera di Pietro, ma risente anche della Lettera agli Efesini  di Paolo (cc. 5-6). Osserviamo le fonti bibliche: 
-          Prima Lettera di Pietro: «Poiché Cristo soffrì nella carne...,  armatevi degli stessi sentimenti di lui... Basta col tempo trascorso nel  soddisfare le passioni del paganesimo vivendo nelle dissolutezze, nelle crapule,  nei bagordi, nelle ubriachezza... La fine di tutte le cose è vicina. Siate  dunque prudenti e vigilanti per le preghiere» (4,7).
Il testo originale parla più precisamente di quella  sobrietà nel bere che garantisce la vigilanza. Contro di essa sta  quell’ubriachezza sfrenata e licenziosa, disposta a ogni vizio, a cui segue un  ottuso torpore che impedisce la vita dello Spirito nell’uomo. 
-          Anche l’Apostolo Paolo insegna: «Non ubriacatevi di vino che porta  alla sfrenatezza, ma siate ricolmi di Spirito, intrattenendovi a vicenda con  salmi, inni e cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il  vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome  del Signore Gesù Cristo» (Ef 5,18).
Tema ripreso, poco più avanti,  con insistenza nella stessa Lettera: «Prendete anche l’elmo della salvezza e  la spada dello Spirito che è la Parola di Dio. Pregando continuamente in spirito  con ogni sorta di preghiere e suppliche, e vigilando a questo scopo con ogni  perseveranza e preghiera per tutti i santi...» (6,17-18). 
Che Alberto di Gerusalemme  abbia sotto gli occhi anche questi testi di S. Paolo, che oppongono la  freschezza orante dell’uomo colmo di Spirito Santo allo stolto torpore di colui  che è divenuto preda delle proprie dissolutezze, è provato dal fatto che egli  sta per citare e commentare lungamente proprio il capitolo 6 della Lettera  agli Efesini, per proporre agli eremiti la “armatura spirituale” di cui  devono lasciarsi rivestire. 
Spesso nel Nuovo Testamento  vengono confrontati questi due gruppi di termini: 
-          da un lato: ubriachezza, lussuria, sonno, tenebre, sconfitta; 
-          dall’altro: sobrietà, veglia, preghiera, lotta vittoriosa, luminosità e  gioia spirituale. 
Il tutto rimanda ancora all’«attesa  del ritorno del Signore», considerata componente essenziale dell’intera vita  cristiana, che nelle veglie oranti trova la sua più acuta manifestazione.
 Ma non bisogna tuttavia  dimenticare che gli eremiti sono considerati in una categoria a parte (come i  primi apostoli il giorno di Pentecoste): essi sono infatti –come diceva S.  Macario– «uomini ebbri di Dio»[31]. 
Ma ecco ciò che più importa: il  testo classico della Scrittura, in cui vanno poi a convergere assieme tutte le  indicazioni fin qui date, è indubbiamente il capitolo conclusivo della Prima  Lettera ai Tessalonicesi:
«Ma voi fratelli non siete  nelle tenebre... siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della  notte né delle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e  siamo sobri. Quelli che dormono infatti dormono di notte, e quelli che si  ubriacano si ubriacano di notte. Noi invece che siamo del giorno dobbiamo essere  sobri, rivestiti della corazza della fede e della carità, e avendo come elmo la  speranza della salvezza» (1 Ts 5,4-8). 
Ed è a questo punto che  troviamo la formula-cardine di tutta la questione:
«Siate sempre lieti, pregate senza interruzione, in ogni cosa rendete grazie. Questa è la volontà  di Dio in Gesù Cristo verso di voi» (1 Ts 5,16-17). 
Materialmente questa citazione  di S. Paolo non si trova nella Regola Carmelitana (dove è invece  riportata la formula salmodica, più monastica, del “meditare giorno e notte”),  ma basta conoscere almeno un po’ la storia della spiritualità per sapere che le  due formule si equivalgono nel contenuto.
La formulazione paolina ha in  più il tono impellente e definitivo del Nuovo Testamento ed è addirittura  rivolta a tutti i cristiani. Essa fa dunque meglio percepire quale sia la “questione capitale”. 
Il comando paolino ed  evangelico della «preghiera incessante» travagliò da subito la coscienza  di tutti i cristiani, e venne messo a tema con particolare assolutezza da tutti  coloro che si sentirono via via chiamati, nel corso dei secoli, a una speciale  sequela di Cristo, e dunque anche a una più radicale obbedienza.
In particolare, era cosa  assolutamente ovvia che questo fosse il “grande precetto” per chiunque  sceglieva la vita monastica in genere, ed eremitica in specie.
Per Alberto di Gerusalemme e  gli eremiti del Carmelo era pleonastico ricordarlo formalmente: ma tutto il  linguaggio della Regola (lo vedremo soprattutto nei capitoli 16,17,18,  dedicati esplicitamente a riassumere la dottrina spirituale dell’eremitismo)  appartiene al grande dibattito circa la «preghiera incessante»[32]. 
3.      La recita dei Salmi e dei Pater 
Nonostante che il comando di  meditare e pregare si estenda «al giorno e alla notte» –e intenda, come  vedremo tra breve, prescrivere la preghiera incessante– la Regola non tralascia di precisare come distribuire la recita dei Salmi lungo le  ore del giorno e della notte “secondo le prescrizioni dei Santi Padri e  l’approvata consuetudine della Chiesa”. 
Inoltre insegna come tale  recita possa essere sostituita –da chi non sa leggere– con quella di un congruo  numero di «Pater noster».[33] 
In realtà la ripetizione, a  cadenze prestabilite e frequenti, dei Salmi e dei Pater non viene qui  considerata come comando –oltre il quale ci sarebbe soltanto un libero  sovrabbondare– ma come intelaiatura necessaria, di base, per supportare, con un  necessario ancoraggio biblico l’adempimento del “grande precetto” che la Regola intende più propriamente prescrivere. 
Il grande precetto della «preghiera  incessante» 
Anzitutto una giusta  precisazione.
Volendo noi parlare del comando  della «preghiera incessante», perché ne parliamo come del “grande  precetto”, dando quasi l’impressione di voler usurpare una terminologia che  riguarda invece la Carità? 
Che il più grande comandamento  della Nuova Legge sia quello di “amare Dio con tutto il cuore, tutta l’anima e  tutte le forze” nessun cristiano ha mai potuto metterlo in dubbio. 
Ma i cristiani furono subito di  una consequenzialità sconcertante[34]. 
«La misura di amare Dio –commentò  Origene– è quella di amarLo senza misura»[35]. 
Ma se questo è vero, allora  occorre amarlo sempre, ad ogni istante di vita. 
E che altro è la preghiera se  non la ricerca di togliere ogni impaccio a questo amore? se non l’innalzarsi  impetuoso verso un rapporto sempre più totale e amoroso con Lui?.
Così emerse subito  violentemente nella coscienza cristiana il dovere di obbedire al comando di «pregare senza interruzione» che San Paolo aveva ricordato con tante formule[36],  e che trovava riscontro nell’insegnamento esplicito di Gesù: «Disse loro una  parabola sulla necessità di pregare sempre senza stancarsi...» (Lc 18,1). 
A questo punto nasceva però il  problema di come conciliare questo “comandamento dell’Amore” –divenuto  comandamento di “pregare incessantemente”– con gli altri precetti della  vita cristiana: quello dell’amore del prossimo, in primo luogo; ma anche quelli  legati ai doveri del proprio stato. 
E c’era in ogni caso il  problema di come conciliare la “preghiera continua” con le mille esigenze  –spesso inevitabili– della vita[37].
La soluzione si incanalava  evidentemente su due strade: una per i semplici cristiani e per i responsabili  delle chiese, che dovevano fare i conti con la complessità della loro vita e dei  loro doveri, l’altra per i monaci che ricevevano appunto la vocazione di  staccarsi da tutto per attendere “soli, a Dio solo”. 
Per i monaci, il problema  –chiaro nei termini vocazionali– si poneva solo in termini psicologici e  sperimentali: si trattava anzitutto di come poter riempire di preghiera tutti  gli spazi e i tempi interiori; in secondo luogo si trattava di imparare a  pregare anche durante i tempi e gli spazi che si dovevano comunque  concedere ad altre necessarie attività (fisiche, manuali), e perfino durante il sonno.
Su questa strada i monaci  svilupparono una tale conoscenza del cuore e della mente, e di tutti i  meccanismi dell’io (anche dell’inconscio), e di tutte le tecniche di dominio del  proprio corpo –e perfino del mondo materiale– da fare impallidire i nostri più  moderni esperti, dando origine a quella corrente spirituale detta, in maniera  generale: Esicasmo[38]. 
Ma è sull’altra strada –quella  per così dire laicale– che la questione ricevette le sue più acute  delucidazioni, proprio perché le più geniali menti cristiane (da Origene a  Basilio, ad Agostino di Ippona, a Tommaso d’Aquino) si preoccuparono di  insegnare a tutti i cristiani la possibilità di obbedire a quel totalizzante  precetto circa la preghiera.
Accadde così una interazione  che dev’essere attentamente osservata, anche ai fini della comprensione della  Regola Carmelitana e della evoluzione storica dell’Ordine. 
Fu la dottrina generale che i  Padri della Chiesa elaborarono per tutti a fare da quadro di riferimento, nel  senso che ai monaci venne lasciato quel di-più che era ottimale secondo le diverse vocazioni e situazioni comunitarie e personali, con  possibilità continua di rivedere la questione secondo l’evolversi della  loro situazione esistenziale.
Accadde cioè qualcosa di simile  a ciò che traspare dalle indicazioni che Paolo dà alla donna vedova nella sua  Prima Lettera a Timoteo (testo che anticamente veniva molto citato a mo’ di  esempio): «La donna veramente[39] vedova, rimasta sola, ha riposto la speranza in Dio e si consacra alla orazione  e alla preghiera giorno e notte» (5,5).
E’ un’altra delle poche  citazioni bibliche in cui si parla di “pregare giorno e notte” –tema  affine a quello della preghiera continua– e il suo scopo è evidente: per  la donna rimasta vedova, la cessazione dei doveri e delle preoccupazioni legate  alla famiglia deve necessariamente produrre una maggiore invasione di  preghiera che tende ad avvolgere l’intera esistenza (“giorno e notte”).
E’ esattamente ciò che i monaci  sceglieranno di fare: non in base a una coniugalità mancata, ma in seguito a una  “verginità” liberamente e appositamente scelta. 
I monaci dunque (a partire  dagli eremiti che erano, per definizione, i più votati all’hésychia)  erano chiamati a questo: a una preghiera “ininterrotta”; non però alla  maniera di tutti i cristiani (facendo cioè diventare preghiera la vita),  ma alla maniera loro propria: facendo diventare vita la preghiera.  
Evidentemente –per certi  aspetti o certe evoluzioni (là dove le necessità della vita o i doveri della  carità apostolica tendevano a imporsi)– anche i monaci finivano per rientrare  nell’alveo comune. 
1.      L’alveo comune: la vita come preghiera incessante 
C’è un antico testo attribuito  ad Origene che ha il vantaggio di commentare proprio la formula scelta nella  Regola Carmelitana. 
«“Il giusto si compiace  nella legge del Signore, e medita sulla sua Legge notte e giorno” (Sal 1,2).  Medita giorno e notte la legge del Signore non colui che si impadronisce con la  memoria delle parole della legge, senza compierne le opere da essa comandate, ma  colui che ha preso l’abitudine di ruminare quelle parole in modo da giungere  alle opere corrispondenti, fin quando –attraverso l’esercizio continuo delle  opere conformi alla Legge –egli diventa docile nel compiere tutto ciò che si  addice a una vita perfetta secondo la Legge. E’ in questa maniera che gli sarà  possibile “meditare la Legge di Dio giorno e notte”. Un simile uomo, sia  che mangi o che beva o qualsiasi cosa faccia, fa tutto–come dice il divino  Apostolo– a gloria di Dio. Perfino durante il sonno che egli prende per  necessità, la sua attenzione (a Dio) influisce ancora, e influenza perfino i  suoi sogni. E’ così che si risolve il problema posto dal comando dell’Apostolo: “Pregate senza interruzione”. Come si può pregare quando si dorme, o quando  ci si occupa dei doveri verso il prossimo, o quando ci si deve occupare dei  bisogni del proprio corpo? Sì, su questa questione noi affermiamo: l’uomo  perfetto grida verso Dio, gli chiede di accordargli i doni migliori, agendo  sempre in conformità con la Legge»[40]. 
Lo stesso insegnerà Afraate  (uno dei più grandi rappresentanti della spiritualità siriaca), il quale  tuttavia si premurerà di aggiungere: «Ho scritto che fare la volontà di Dio è  preghiera, e mi sembra esatto. Ma ciò non vuol dire che tu debba rilassarti  nella preghiera e cedere alla pigrizia! Nostro Signore ha detto: Pregate senza  stancarvi. Applicati dunque alla veglia, caccia via la sonnolenza e la  pesantezza. Sta’ vigilante notte e giorno, e non scoraggiarti»[42]. 
E S. Agostino di Ippona  convincerà allo stesso modo l’Occidente, con la sua Lettera a Proba[43], che gli atti di preghiera non possono essere ininterrotti, ma può essere  ininterrotta la causa che produce questi atti, cioè l’amore.
Dottrina così ripresa da S.  Tommaso d’Aquino: «La causa della preghiera è il desiderio della carità (“desiderium  charitatis”). E’ da questo desiderio che deve venire la preghiera. Tale  desiderio in noi deve essere continuo sia attualmente che virtualmente. Infatti  la forza di questo desiderio resta in tutto ciò che noi facciamo per Amore:  dobbiamo fare tutto a gloria di Dio... E’ in questo che la preghiera deve essere  continua. Ed è per questo che S. Agostino dice nella sua Lettera a Proba  (c. IX): “E’ nella fede, nella speranza e nella carità che noi preghiamo di  un perpetuo desiderio”»[44]. 
Fu comunque il grande Basilio a dare le  formulazioni più precise e coerenti. 
La preghiera è essenzialmente  domanda. «Ma non dobbiamo limitare le nostre domande a ciò che diciamo con la  bocca... la preghiera avrà il suo pieno senso a partire dal proposito della  nostra anima, a partire dalle nostre azioni virtuose che si distendono su tutta  la vita. “Sia che mangiate, sia che beviate, tutto fate a gloria di Dio” (1  Cor 10,31). Sei seduto a tavola? Prega. Portando il pane alla bocca, rendi  grazie a Colui che te l’ha dato. Bevi del vino per rinvigorire il tuo corpo  indebolito? Ricordati di Colui che te ne ha fatto dono per rallegrare il tuo  cuore e dar conforto alla tua debolezza. Ti è passato il bisogno di mangiare?  Fa’ che non ti passi il bisogno del tuo Benefattore. Quando indossi il tuo  abito, ringrazia Colui che te lo ha donato. Quando ti avvolgi nel mantello,  accresci il tuo amore per quel Dio che ti ha provveduto di vesti appropriate sia  per l’estate che per l’inverno... Finisce il giorno? Ringrazia Colui che ti ha  dato il sole per illuminare il tuo lavoro diurno, e ti ha dato il fuoco per  rischiarare la notte... Così tu pregherai senza interruzione, non in parole, ma  unendoti a Dio con tutta la condotta della tua vita. In tal modo essa sarà una  preghiera continua e incessante»[45]. 
Si tratta insomma della  preghiera continua intesa come «continuo ricordo di Dio». L’amico di  Basilio, Gregorio di Nazianzo, diceva con una formula splendida: «Bisogna  ricordarsi di Dio più spesso di quanto non si abbia bisogno di respirare»[46]. 
Deve trattarsi evidentemente di  un ricordo efficace che spinge all’opera buona e la accompagna. Così la  vita intera diventa preghiera, soprattutto quando l’uomo –sempre più maturo e  sempre più figlio– impara ad obbedire a tutte e tre le parti dell’insegnamento  paolino: «Siate lieti nel Signore; pregate incessantemente; ringraziate Dio  (“fate eucaristia”) di ogni cosa» (1 Ts 5,17). 
S. Giovanni Crisostomo  insegnava ai suoi fedeli che la preghiera è continua quando dà luce e sapore a  tutta l’esistenza: 
«La preghiera, o dialogo con  Dio, è un bene sommo. E’ infatti una comunione intima con Dio. Come gli occhi  del corpo, vedendo la luce, sono rischiarati, così anche l’anima che è tesa  verso Dio viene illuminata dal bene ineffabile della preghiera. Dev’essere,  però, una preghiera non fatta per abitudine, ma che proceda dal cuore. Non deve  essere circoscritta a determinati tempi e ore, ma fiorire continuamente, notte e  giorno. Non dobbiamo, infatti, innalzare il nostro animo a Dio solamente quando  attendiamo, con tutto lo spirito alla preghiera. Occorre che, anche quando siamo  occupati in altre faccende –sia nella cura dei poveri, sia nelle altre attività,  magari impreziosite dalla generosità verso il prossimo– abbiamo il desiderio e  il ricordo di Dio, perché insaporito dall’amore divino come da sale, tutto  diventi cibo gustosissimo al Signore dell’universo. Possiamo godere pienamente  di questo vantaggio, anzi goderne per tutta la vita, se a questo tipo di  preghiera dedichiamo il più possibile del nostro tempo»[47]. 
2.      L’alveo monastico: la preghiera incessante come vita 
Aver richiamato questo insegnamento-base, comune  tra gli antichi Padri, valido per ogni cristiano, ha una importanza che non ci  stancheremo di ricordare.
E’ perché l’intera vita  cristiana può diventare preghiera, che alcuni possono tentare (per grazia  di Dio) una strada ancora più vertiginosa: fare della preghiera la loro vita.
Ma siccome questo tentativo non  potrà mai essere compiuto (ma soltanto ottimale)[48],  la via comune (vita come preghiera) interverrà sempre a riequilibrare –la  dove sarà necessario– il tentativo più vertiginoso.
Questo tentativo venne dunque  chiamato fin dall’inizio del monachesimo: hésychia. 
S. Macario precisava: «Il  monaco è detto monaco per questo motivo: giorno e notte si intrattiene con Dio,  e non pensa ad altro che alle cose di Dio»[49].
Ai fini della nostra analisi  circa la Regola carmelitana, vale la pena sottolineare alcuni punti: 
a)      In tutta la tradizione cristiana antica, hésychia[50] ed eremitismo (o anacorési) sono praticamente sinonimi;  descrivono la stessa scelta esistenziale: la ricerca della solitudine e della  quiete esteriore ed interiore per dedicarsi esclusivamente al rapporto con Dio,  nella ininterrotta preghiera. 
Che Alberto di Gerusalemme, dovendo scrivere una “norma  di vita” per gli eremiti carmelitani, pensi e si esprima in termini “esicastici” non è un’opinione, ma è per noi una certezza, almeno tanto  quanto era per lui una necessità. L’esicasmo è sempre stato, in ogni epoca e  fino ai nostri giorni, il linguaggio proprio e la spiritualità propria dell’eremitismo.  Ciò è d’altra parte documentabile, come vedremo, a partire dal testo stesso  della Regola[51]. 
b)      L’hésychia –ricerca ed esperienza spirituale propria dei monaci in  genere e degli eremiti in specie– consisteva di questi elementi:
-          La «quiete (hésychia) esteriore» che esige: la lontananza dal  mondo e dai contatti con altri uomini, la “permanenza nella propria cella” e il  silenzio pressoché totale;
-          La «quiete interiore» che si ottiene liberandosi da tutte le  «sollecitudini del mondo», e dagli attaccamenti ad esso; imparando  la vigilanza (“nepsis”) che comincia come sobrietà nel cibo e nelle  bevande, come abitudine alla veglia, e diventa prima custodia del cuore,  liberazione da fantasie e pensieri malvagi e importuni, lotta contro gli assalti  di Satana, e quindi attenzione costante a Dio. 
-          E infine: la preghiera ininterrotta. L’hésychia prepara il clima adatto a tale preghiera, e da tale preghiera essa viene  continuamente generata. E’ la preghiera intesa come compito a cui dedicare  l’intera esistenza, ma secondo la sottolineatura “monastica” di cui  stiamo parlando: che sia cioè la preghiera stessa a diventare  “vita” impregnando di sé i giorni e le notti, gli spazi esteriori ed interiori  dell’orante.
Dunque: non si tratta solo –come è invece chiesto a tutti  gli altri cristiani– di riempire la vita con alcuni momenti espliciti di  preghiera e con opere buone accompagnate dal “ricordo di Dio”, fino a che  la vita diventi tutta preghiera. Si tratta più precisamente ed esplicitamente di  una preghiera i cui atti tendono ad aumentare sempre più fino a sommergere, nei  limiti del possibile, l’esistenza. Si tende in conclusione alla più perfetta e  attuale unione con Dio, possibile in questa vita. 
I maestri più  esigenti al riguardo erano stati  Cassiano e Giovanni Climaco, e vale la  pena accennare brevemente alla loro dottrina. 
Cassiano, dopo aver  vissuto a lungo tra i monaci dell’Egitto, si trasferì a Marsiglia dove fondò  l’abbazia di S. Vittore, divenendo promotore e padre del monachesimo  occidentale. Ha dunque una particolare importanza perché è lui che eredita tutta  la riflessione spirituale dell’oriente e la trasferisce in occidente. Ecco  alcuni dei suoi testi più celebri: 
«Fine unico del  monaco e perfezione del cuore consistono in questo: tendere con perseveranza a  una preghiera continua ininterrotta e –per quanto lo consente la fragilità  umana– raggiungere l’immutabile tranquillità dello spirito e una stabile  purezza»[52]. 
«In che cosa  consiste la preghiera perfetta, e come deve essere per essere incessante?
Ciò avverrà quando  sarà perfettamente esaudita la preghiera che il Salvatore ha fatto al Padre suo  per i discepoli: “Padre, che l’amore con il quale mi hai amato sia in essi, e  che essi siano in noi. Che siano una cosa sola. Come tu, o Padre, sei in me e io  in te, anch’essi siano una cosa sola in noi”. Questa preghiera del Salvatore,  che non può non essere esaudita, sarà realizzata in noi quando l’amore perfetto  con cui Dio ci ha amato per primo sarà collocato nel fondo del nostro cuore, sì  che noi l’amiamo come Egli ci ama. Ciò potrà accadere solo quando tutto ciò che  noi amiamo, tutto ciò che noi desideriamo, tutto ciò che noi cerchiamo, tutto  ciò che noi ci auguriamo, tutto ciò che pensiamo, tutto ciò che vediamo, tutto  ciò che diciamo, tutto ciò che speriamo non sarà altro che Dio; quando l’unità  del Padre col Figlio e del Figlio col Padre si effonderà nel nostro spirito e  nel nostro cuore. Cioè: quando l’amore che noi abbiamo per Lui sarà continuo e  inseparabile come quello che Egli ha per noi... E’ questo lo scopo che si deve  proporre un eremita (...). Lo scopo di ogni perfezione è che l’uomo,  spogliandosi giorno dopo giorno di tutto ciò che ha di carnale e di terreno, si  innalzi sempre più verso le cose spirituali, fino a che tutte le sue opere,  tutti i suoi pensieri, tutti i movimenti del suo cuore non divengano altro che  una sola e ininterrotta preghiera»[53]. 
Giovanni Climaco è invece un  autore del VII secolo che nel medioevo conobbe una straordinaria fortuna. Egli  dedica alla questione dell’hésychia il XXVII grado della sua Scala  Paradisi in cui tratta «Della sacra hésychia del corpo e della mente».  
Egli mostra di conoscere tutte  le possibili motivazioni che possono spingere l’uomo alla ricerca della  solitudine (comprese quelle più meschine e “malate”) ma sa che ne esiste una  splendida e altissima: la motivazione di coloro che «impazziti d’amore per  Dio, e trovando in questo amore delizie e dolcezze ineffabili, sposano per così  dire questa sacra solitudine». 
Secondo una sua definizione,  l’amante dell’hésychia è «uno spirito valoroso e inflessibile, che monta  insonne la guardia, alla porta del proprio cuore...»[54]. 
Per Giovanni Climaco si tratta  di una «perpetua adorazione in presenza di Dio: che il ricordo di Gesù si  unisca al tuo respiro, e allora conoscerai l’utilità dell’hésychia»[55].
 «L’esicasta è colui che può  dire, con la Sposa del Cantico dei Cantici: “Io dormo ma il mio cuore  veglia”»[56].
In breve: l’esicasta è un uomo «fatto preghiera» per vocazione. 
3.      Prime conclusioni 
 A questo punto non è così  difficile accorgersi di come tutta la Regola che Alberto propone agli  eremiti carmelitani sia una tessitura dei più antichi e profondi temi  dell’esicasmo, anche se nel nostro Legislatore opera l’evidente persuasione che  l’Hésychia sia possibile ad ogni vero spirituale, e che anzi, alcuni  elementi cenobitici, servono ad equilibrare opportunamente quell’antico e  totalizzante ideale. 
Si sente già avvenuta la  riflessione del grande Basilio[57],  e già consolidata la lunga esperienza del cenobitismo occidentale, che lo spinge  a far custodire tutto il programma interiore dell’esicasmo dall’obbedienza e da  alcune essenziali strutture di vita comune. 
Tuttavia, nonostante le spinte  in senso cenobitico, Alberto non intese affatto snaturare quella rinascente  esperienza eremitica. 
Per salvarne il nucleo  essenziale, doveva però mettere al centro della Regola, in maniera quasi  assoluta, il precetto della “ininterrotta preghiera” (e del “restare  sempre nella propria cella”) e corredarlo con la più antica e tradizionale  dottrina circa il silenzio (la “cellula portativa[58]”), la “nepsis” (sobrietà-vigilanza per la preghiera), e la “militia” (combattimento spirituale).
E’ ciò che il Patriarca fece  con ammirabile equilibrio[59]. 
Ma che cosa imponeva  esattamente il precetto della Regola di «meditare giorno e notte nella  Legge del Signore e vegliare nelle orazioni»? 
L’espressione «Meditare  notte e giorno la Legge del Signore» era ricorrente nella spiritualità  cristiana, per indicare una dedizione instancabile allo studio della Scrittura e  alla preghiera.
Possiamo, ad esempio,  ricordare quel che Possidio scrive nella sua Vita di S. Agostino: «Ricevuta  la grazia (del Battesimo) deliberò, con altri concittadini ed amici suoi, datisi  parimenti al servizio di Dio, di tornare in Africa, alla propria casa e alla  propria campagna. Qui giunto, vi dimorò circa tre anni; rinunziò ai suoi beni...  e viveva per Dio, nei digiuni, nelle preghiere, e nelle opere buone, meditando  giorno e notte nella Legge del Signore» (3,1-29). Lo stesso Agostino  nel De Trinitate confessava: «Medito nella Legge del Signore, se non  giorno e notte, almeno tutte le particelle di tempo che posso e scrivo le mie  meditazioni perché la dimenticanza non le cancelli»[60].  
Piuttosto fu la parola «meditare» che col tempo ricevette un significato sempre più pregnante e  onnicomprensivo.
Gli esperti medievalisti  spiegano che –al tempo in cui la nostra Regola venne scritta–meditare significava «leggere un testo con tutto il proprio essere» (J. Leclercq). 
Si partiva da un testo sacro,  soprattutto dai Salmi[61]:  le parole venivano pronunciate in modo che le labbra le assaporassero, le  orecchie le udissero obbedientemente, la memoria le trattenesse gelosamente, il  cuore le amasse, l’intelligenza le comprendesse, la volontà decidesse di  metterle in pratica.
Tutto l’essere era dunque teso  ad esercitare una «memoria totale»: ai lunghi tempi esplicitamente  dedicati a tale meditatio, si aggiungeva inoltre la costante ripetizione  dei versetti più significativi a modo di giaculatorie che potevano accompagnare  qualsiasi altra necessaria attività e perdurare anche nell’attesa del sonno, e  perfino introdursi profondamente in esso.
Le espressioni della Scrittura,  in tal modo, finivano per imprimersi nella memoria al punto tale che esse pian  piano sostituivano le espressioni profane e comuni, e costituivano un vero e  proprio nuovo linguaggio[62].
La Regola alluderà anche  a questo, quando esorterà gli eremiti dicendo: «Che la Parola di Dio dimori  abbondantemente nella vostra bocca e nei vostri cuori. E tutto quello che dovete  fare, fatelo nella Parola del Signore» [c.16]. 
Venivano così a intrecciarsi  due movimenti che poi fluivano ininterrottamente l’uno nell’altro: all’inizio  c’era l’obbedienza dell’io che si inclinava sempre più alla «meditatio» con tutte le sue capacità fisiche e psichiche, fino a renderla simile al  respiro; poi era il cuore –il centro più profondo dell’io– a lasciare  scaturire da sé la preghiera che lo inabitava. 
Da tutto ciò che abbiam detto  ci pare di poter tranquillamente concludere che il comando di «Meditare  giorno e notte nella Legge del Signore e vegliare in preghiere», appare  veramente come l’unico cuore della Regola Carmelitana, non perché  si vogliano escludere altre vitali pulsazioni, ma semplicemente perché la  Regola prevede che tale esperienza abbracci e accompagni, letteralmente e  realisticamente, tutto il tempo e tutte le attività dell’eremita. 
c1:  Tre  «strutture materiali», dispositive  
Si tratta di strutture destinate a preparare lo “spazio vitale” in cui gli eremiti possano vivere la loro ininterrotta  preghiera. Esse infatti precedono[63] il “grande Precetto”: 
«[5] Inoltre, nel luogo in cui  avrete scelto di abitare[64],  ognuno di voi abbia una singola cella separata, in base all’assegnazione delle  celle disposta dal Priore, con l’assenso degli altri frati o della parte più  matura di essi.
[6] Bisogna però che mangiate  assieme ciò che vi sarà dato, ascoltando qualche brano della Sacra Scrittura, in  un refettorio comune, purché lo si possa fare agevolmente.
[7] a) Non sia permesso a nessun  fratello di mutare il posto che gli è stato assegnato, o di scambiarlo con un  altro fratello, se non con il permesso del Priore in carica.
b) La cella del Priore sia presso  l’ingresso [dell’eremo] affinché egli possa accogliere per primo coloro che  dovessero giungervi.
c) E tutto ciò che dovrà essere  fatto[65] lo si faccia secondo il libero volere di lui, e la sua decisione». 
Le tre disposizioni riguardano,  come si vede, lo spazio esteriore dell’eremo.
Esso diventa ora uno spazio  sacro: è la “terra promessa” che un nuovo Giosuè distribuisce agli eletti[66] perché possano finalmente osservare, in santa tranquillità e letizia, la Legge  di Dio. 
Nel sec. XV –spiegando proprio  questo passo della Regola– il Priore Generale J. Soreth– si esprimerà  appunto così: «La cella è terra santa e luogo santo, dove il Signore e il suo  servo si parlano nel segreto, come l’amico fa con l’amico».
Più ancora (come accade nella  Scrittura), la terra santa si personalizzerà nel «grembo santo», nella «sposa fedele», nel «Tempio inabitato», con evocazioni tipicamente  neotestamentarie e mariane: 
«La cella riscalda il figlio  della grazia come frutto del suo seno, lo nutre, lo abbraccia e lo conduce alla  pienezza della perfezione, rendendolo degno dell’intimità con Dio… [Nella cella]  l’anima fedele si unisce frequentemente al Dio vivo, come la Sposa si accompagna  allo Sposo. Le cose celesti si uniscono alle terrene e le umane alle divine. Per  il servo di Dio, la cella  è come il Tempio del Signore…»[67]. 
L’avere “una cella  assegnata” –e il non poter cambiare posto, se non con una nuova  assegnazione– risponde evidentemente anche a criteri pratici, disciplinari, ma  nulla è senza significato spirituale, là dove si tratta della più totale  spoliazione per disporsi all’unione orante con Dio.
Allo stesso modo, il fatto che  la cella del Priore sia collocata “all’ingresso” dell’eremo evoca  l’immagine evangelica di Cristo “porta dell’ovile”.  
Più precisamente però viene qui  ripresa la norma della più celebre Regola di Pacomio: «Se qualcuno si  avvicina alla porta del monastero, volendo rinunciare al mondo ed essere  aggregato al numero dei fratelli, non abbia la libertà di entrare. Prima si  avvisi il Priore del monastero…». E’ lui che deve ammettere eventuali visitatori  e nuovi fratelli, in modo che l’accoglienza sia un abbraccio paterno e un  paterno discernimento. 
Di fatto le tre disposizioni ne  introducono una più universale ancora: una formula onnicomprensiva che mira ad  abbracciare tutte le altre eventuali questioni che dovessero sorgere: «E in  seguito tutto ciò che dovrà essere fatto (quae agenda sunt cuncta…) lo si  faccia secondo il libero volere di lui, e la sua decisione» [c.7c].
Vedremo tra poco che Alberto  ripeterà, quasi alla lettera, la formula «quaecumque agenda sunt», ma per insegnare che «tutto dev’essere fatto nella parola del Signore»  [c.16].
L’accostamento ricorda ancora  una volta che «la volontà del Priore» ha ormai a che fare con «la parola di  Cristo»: ad ambedue è dovuta la stessa obbedienza.  
Se ora si guarda attentamente  alla maniera in cui la Norma è congegnata, ci si accorge che le prime tre  disposizioni servono tutte a preparare, a difendere e a riempire di significato  propriamente teologico il verbo “maneant”, con cui si apre, subito dopo,  la formulazione del grande Precetto: «Maneant singuli in cellulis suis...», con l’aggiunta di quel «die ac nocte» che –così com’è collocato– potrebbe  riferirsi non solo al dovere di “meditare” (“die ac nocte meditantes”),  ma anche all’obbligo di non lasciare mai la propria cella (“... in cellulis  suis die ac nocte”)[68]. 
Abbiamo già visto come il tema  della hésychia (“quiete” che la cella deve garantire) venne da  subito finalizzato al raggiungimento di quella divina unità che Gesù  offrì ai discepoli nell’ultima sera della sua vita: «Come tu, o Padre, sei in  me e io in te, così siano anch’essi in noi una cosa sola» (Gv 17,21). 
L’esicasta –diceva Giovanni  Climaco– è stimolato e confortato dalla preghiera con cui Gesù ha chiesto al  Padre di accoglierci “nella loro unità”. 
Questa preghiera è il motivo e  la giustificazione della sua esistenza, il suo ideale di vita. 
Ma essa è preparata dalla  fortissima insistenza con cui Gesù ha chiesto ripetutamente ai discepoli di “rimanere in lui”. 
A nessun eremita poteva perciò  sfuggire il ruolo che il verbo “rimanere” ha negli ultimi discorsi di  Gesù[69],  e che continua ad avere negli scritti in cui l’Apostolo ci parla della Carità di  Dio nella quale occorre sapere “restare”[70].
Secondo S. Cesario di Arles il  motivo per cui il monaco doveva restare nella sua cella era quello di “implorare con continue preghiere la visita del Figlio di Dio”[71],  e quindi di non mancare all’appuntamento. 
E gli studiosi dicono che tutta  l’antica letteratura monastica è attraversata da questo consiglio, così diffuso  che non si sa nemmeno più a chi attribuirlo: «Resta seduto nella tua cella, e  la cella ti insegnerà ogni cosa». 
Il tema del “rimanere”  nella propria cella era perciò carico di evocazioni spirituali e di contenuti  pedagogici.
«Come i pesci muoiono se  restano fuori dall’acqua, così i monaci che si attardano fuori della cella»,  diceva il grande Antonio, patriarca del monachesimo[72]. 
La formulazione di Alberto sta  tra l’antico noto aforisma di S. Pier Damiani che insegnava: «L’abitudine di  stare nella propria cella fa sì che essa diventi dolce per il monaco, mentre  l’inquieto vagare gliela rende odiosa» («Consuetudo facit monacho cellulam  dulcem, vagatio facit horribilem»)[73], e la serena ammonizione che più tardi darà l’Imitazione di Cristo: «La  cella continuamente abitata diventa sempre più dolce»[74]. 
Per tre volte, in pochissime  righe, ritorna il termine “singuli” che sottolinea la scelta  profondamente eremitica[75],  rispetto al quale la cella –nonostante le apparenze– sta da correttivo: perché è  la cella a indicare e fissare il luogo dell’appuntamento con Dio, il luogo  dell’incontro inevitabile, il luogo del rapporto unitivo. 
Senza la cella e la sua “mistica sponsale” –di cui già parlava Giovanni Climaco– la solitudine è  ripiegamento malato su se stessi, che genera la tristezza e la incapacità di  radicarsi, di “restare”. 
L’ Ignea Sagitta spiega:
«Lo Spirito Santo, lui che  sa quel che conviene a ciascuno, avrebbe ispirato senza motivo la nostra Regola,  là dove dice che ciascuno di noi deve avere la sua celletta separata? Non parla  di celle vicine, ma separate le une dalle altre, affinché lo Sposo celeste e la  sua Sposa –l’anima contemplativa– possano qui colloquiare nella pace di un  intimo dialogo»[76]. 
Ciò che invece si oppone al “rimanere nella propria cella” non è evidentemente l’insorgenza di  particolari necessità, ma più precisamente l’acedia, il «taedium  cordis».
Il monaco che “vaga” triste e ozioso è anzitutto un monaco annoiato del suo Dio, e che dunque consuma  nel cuore –come diceva Macario il Grande– «adulterio nei riguardi di Lui»[77].
La cella altro non è –nella  tradizione esicasta, soprattutto eremitica– se non il riflesso esterno della  cella del cuore: se quella esterna e vuota e abbandonata, ciò significa che  quella interna è invasa e devastata. 
Perciò i commentatori  carmelitani insisteranno: «Cerca di avere una cella esteriore e una  interiore; l’esteriore è la casa nella quale abita la tua persona, l’interiore è  nella tua coscienza nella quale deve abitare Dio bene addentro ai tuoi  sentimenti… Ama dunque la tua cella interiore e ama quella esteriore: onorale  tutte e due!»[78]. 
c2: Tre strutture comunitarie
Sono strutture di sostegno ecclesiale per l’osservanza del “grande Precetto”:
«[10] Nessun fratello dica di  possedere qualcosa di proprio, ma tutto sia in comune tra voi, e ciò di cui  ognuno ha bisogno –tenendo conto dell’età e delle necessità dei singoli– verrà  distribuito a ciascuno per mano del Priore, vale a dire per mezzo del fratello a  cui egli avrà dato l’incarico.
[11] Se ne avrete necessità, vi sarà  lecito tenere asini o muli, come anche qualche allevamento di animali o  volatili.
[12] L’oratorio sia costruito in  mezzo alle celle –se si può farlo agevolmente– e qui, alla mattina di ogni  giorno, dovrete radunarvi per partecipare alla solenne celebrazione della S.  Messa, se si può farlo comodamente.
[13] La domenica, o in altro giorno  se è necessario, vi riunirete assieme per trattare della osservanza Regolare  [“custodia Ordinis”] e della salute spirituale delle vostre anime. In  tale occasione saranno corrette con carità le trasgressioni e le colpe che si  fossero eventualmente riscontrate in qualche fratello». 
Esse descrivono la cosiddetta «cella del  cuore», in parallelo con le prime tre norme dedicate alla cella  materialmente intesa. 
Gli studiosi fanno osservare che Alberto  conosceva con tutta probabilità l’opera di Ugo de Fouilloy, molto diffusa allora  tra i Canonici Regolari (e intitolata appunto De claustro animae[86])  secondo cui la cella del cuore la si edifica e la si custodisce con gli  stessi elementi citati nella nostra Regola: il combattimento spirituale,  il lavoro e il silenzio[87]. 
«[14] Il digiuno lo osserverete ogni  giorno, eccetto la domenica, dalla festa dell’Esaltazione della santa Croce fino  alla domenica di Pasqua, a meno che la infermità o la debolezza fisica, o  qualche altra giusta causa, non consigli di tralasciare il digiuno, perché la  necessità non ha legge».
«[15] Vi asterrete dal mangiar  carne, a meno che non dobbiate prenderla come rimedio in caso di infermità o  debolezza. E poiché, in caso di viaggi, vi accadrà spesso di dover chiedere  ospitalità, per non essere di aggravio ai vostri ospiti, potrete mangiare cibi  preparati con carne. Anche viaggiando per mare vi sarà lecito cibarvi di carne». 
Il digiuno e l’astinenza delle carni sono, da  sempre, mezzi ascetici ben noti a chiunque voglia vincere il dominio ingiusto  che il corpo esercita sulla anima, e la materia esercita sullo spirito.
Sono sempre stati raccomandati e praticati,  anche al di fuori della tradizione ebraico-cristiana. 
La Chiesa ha tenuto tali pratiche in grande  conto e le ha raccomandate soprattutto ai monaci.
Il canone IV del Concilio di Calcedonia  insegnava: «I monaci devono aver caro il raccoglimento (“quietem diligere”, amare cioè l’hésychia) e attendere solo al digiuno e alla preghiera…»[88].   
Oggi c’è chi vuol vedere in queste pratiche  antiche una concezione dualista dell’uomo, e un certo disprezzo della materia. 
In realtà si tratta di realismo, nei  riguardi della corruzione a cui l’intera creazione è stata ormai assoggettata. 
Chiunque si voglia accostare a Dio esperimenta  subito quanto la materia tenda a dominare malamente l’io corporeo-spirituale e  ad alterare il miracoloso equilibrio con cui il Creatore aveva immaginato, al  principio, la sua creatura. 
Più ancora: quando l’uomo cerca di accostarsi un  po’ più intimamente al suo Dio, vede subito illuminata la propria originale  (anche se non totale) corruzione, a partire dal primo peccato.
Ed è ben vero che tale corruzione è ormai  radicata soprattutto nello spirito, ma è il corpo a mantenere l’uomo legato alla  corruzione dell’intero cosmo, ed è attraverso la materia che lo spirito viene  sempre nuovamente aggredito. 
Col digiuno e l’astinenza perciò l’uomo orante  da un lato esperimenta umilmente la propria debolezza davanti a Dio e,  dall’altro, prende posizione contro la corruzione della materia: non per un  istinto di disprezzo, ma per riconquistarla a una originaria purezza. 
E’ vero tuttavia che anche queste pratiche  ascetiche possono, alla lunga, rivoltarsi contro l’uomo. 
Cassiano già spiegava saggiamente ai suoi monaci  che «i digiuni eccessivi fanno male tanto quanto la ghiottoneria»[89]. 
Ma è necessario scendere ancor più in  profondità. 
Nella Regola Carmelitana, digiuno e  astinenza sono anzitutto un metodo per accompagnare Gesù nel suo cammino verso  la Croce e per disporsi alla festa della Resurrezione.
La norma, infatti, sottolinea subito una  particolare visione del tempo: l’anno eremitico, per così dire, è  diviso in due parti più o meno uguali, e al centro c’è la Pasqua. 
I sei mesi (circa) che la precedono sono per gli  eremiti una lunga quaresima, tempo del digiuno e dell’attesa dello Sposo,  secondo il ritmo previsto dal Vangelo: «Possono forse gli invitati a nozze  digiunare mentre lo Sposo è con loro? Verranno però i giorni quando lo Sposo  sarà loro tolto, e allora digiuneranno» (Mt 9, 15). 
Digiunando e facendo penitenza, l’eremita  obbedisce, anche temporalmente e fisicamente, al comando evangelico di «seguire il Maestro portando la propria Croce» per poter alla fine «risorgere con Lui» e vivere come con-risorti. 
Già S. Giovanni Damasceno aveva detto che il  motivo per cui l’asceta mortifica i suoi sensi sta in questo: disporre il corpo  affinché l’anima credente possa «vedere il Risorto sfolgorante»[90]. 
La Regola è in questa pura linea patristica. 
D’altra parte si noterà che la data d’inizio del  “grande digiuno” è anch’essa segnata da una festa gloriosa: «l’Esaltazione della S. Croce» e ciò deve ricordare all’eremita che la  croce cristiana è ormai in ogni tempo gloriosa e va abbracciata con  animo lieto.
E se la Pasqua annuale era un vertice isolato  nello scorrere dei mesi, ad ogni settimana ritornava, anche per l’eremita, la  festa domenicale a concedere l’interruzione del digiuno e il ricordo della sua  quotidiana finalità. 
Una finalità che, come abbiam visto, consiste  nella adesione totale a Cristo Signore. 
Di S. Francesco –che viveva proprio in quegli  anni in cui gli eremiti carmelitani ricevevano la loro Regola– si  raccontava che egli era come la vedova povera del Vangelo: «Aveva solo due  spiccioli, il corpo e l’anima, e li offriva a Cristo in ogni istante: il corpo  con il rigore del digiuno e l’anima con l’ardore della carità».
D’altra parte ogni eremita sarebbe stato pronto  a sottoscrivere quello che lo stesso Santo di Assisi insegnava allora:  
«Nessuno si deve vantare di ciò che può fare  anche un peccatore: questi può digiunare, pregare, piangere, e macerare la  propria carne. Una cosa sola è a lui impossibile: essere fedele al Signore. Ecco  dunque di che cosa dobbiamo gloriarci: di dar Gloria al Signore e di attribuire  a lui ogni bene, dopo che lo abbiamo servito fedelmente»[91].
Il significato più profondo del digiuno sta  dunque nella «trasmutazione» del cibo: si passa dal cibo fisico a quello  spirituale, dal pane terreno al vero pane (la Parola di Dio, l’Eucaristia). 
Il digiuno è, per così dire, il risvolto  ascetico del mistero della transustanziazione. 
Anche l’astenersi dalle carni era prescritto non  tanto per povertà, quanto perché nella «carne» era visto lo «spessore» della  corporeità, e “astenersene” significava riconoscere uno spessore ancora più  grande alla “Parola di Dio” che si è fatta nostro cibo: era un segno di fede e  di obbedienza, anche fisica, alla “Parola”.
E che gli scopi «spirituali» della norma  fossero quelli decisivi lo si vede da un particolare che affiora ripetutamente:  il legislatore non la urge mai in maniera rigida, severa, materiale –come se si  trattasse di sfuggire a una contaminazione– ma ne chiede l’osservanza  dolcemente, anticipando egli stesso tutti i casi in cui la norma potrebbe essere  di aggravio, e dovrà quindi essere disattesa. 
Armatura e  combattimento spirituali 
L’eremita orante, che digiuna lungamente e si  astiene sempre dal cibo «più carnale»[92],  non dimentica comunque mai che la sua battaglia è soprattutto spirituale. Già il  verbo askéo –da cui il tradizionale termine Ascesi– indicava “l’esercitarsi alla guerra”. Ed è l’armatura necessaria che ora viene  descritta: 
«[16] Poiché la vita dell’uomo sulla  terra è una prova, e coloro che vogliono piamente vivere in Cristo subiscono  persecuzione, e anche il diavolo, vostro avversario, si aggira come leone  ruggente, cercando chi divorare, mettete ogni sollecitudine nel rivestirvi  dell’armatura di Dio, in modo da poter resistere alle insidie del nemico. I  fianchi devono essere cinti col cingolo della castità; il petto deve essere  difeso da santi pensieri, perché sta scritto: il pensiero santo ti custodirà.  Deve essere indossata poi la corazza della giustizia, per amare il Signore Dio  vostro con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze, e il vostro  prossimo come voi stessi. Bisogna imbracciare, in ogni circostanza, lo scudo  della fede, nel quale possiate far spegnere tutte le frecce infuocate del  maligno: senza la fede, infatti, è impossibile piacere a Dio.
Anche l’elmo della salvezza va messo  sul vostro capo, in modo che possiate sperare la salvezza dall’unico Salvatore  che salva il suo popolo dai peccati. Infine la spada dello Spirito, che è la  Parola di Dio, dimori con abbondanza nella vostra bocca e nei vostri cuori. E  tutto ciò che dovrete fare fatelo nella Parola del Signore». 
Anzitutto si tratta di ben identificare i  protagonisti della lotta che viene annunciata.
Essa è già radicata nella vita stessa, nella sua  qualità –ormai inevitabile– di prova rischiosa.
Ma ancor più, la lotta si scatenerà come  persecuzione inevitabile «a causa di Cristo e della sequela» e come  avversità del demonio che si aggira ferocemente in cerca di prede umane.
Ed ecco il primo avvertimento: a combattere  devono essere persone innamorate di Cristo: “qui pie volunt vivere in Christo:  coloro che vogliono vivere in Cristo con attaccamento filiale”.
Non ci sono propriamente nemici e non c’è  persecuzione, se prima non c’è questa «pietas» che lega  indissolubilmente i discepoli al loro Signore, ed è questo attaccamento  che subisce aggressione e che, quindi, si arma per difendersi dai  persecutori e da Satana. 
Poiché si tratta della lotta che gli eremiti  dovranno sostenere nella loro solitudine, non possiamo non ricordare che le «tentazioni nel deserto» sono diventate un tema classico per la gioia di  artisti e psicanalisti, ma gli antichi Padri sapevano, con molto realismo, quale  fosse la loro origine. 
Al contrario di chi immagina che, nel deserto,  sia la «privazione delle forme» a produrre dei mostri spaventosi, i Padri  ritenevano invece che fosse il chiasso del mondo (l’abbondanza delle forme) ad  occultare i demoni che vagano per città e coscienze, e a farli prosperare tra la  svagata incoscienza degli uomini. 
Nel deserto, invece, il demonio è costretto a  venire allo scoperto ed è combattuto a viso aperto; nella «città» si mimetizza e  vince. 
Alberto descrive la lotta dal punto di vista  delle armi che occorre indossare per vincerla, offrendo una sua libera raccolta  di citazioni e reminiscenze bibliche. 
Il testo base a cui si egli rifà è comunque  quello di Efesini 6,11-17: 
«Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter  resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro  creature fatte di carne e di sangue, ma contro i Principati e le Potestà, contro  i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano  le regioni celesti. Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere  nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State  dunque ben fermi: cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della  giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo  della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede con il quale potrete  spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della  salvezza e la spada dello Spirito che è la parola di Dio». 
E’ bene sottolineare subito le differenze: nella Regola di Alberto si parla del «cingolo della castità», non di quello  della «verità»; si aggiunge la «maglia di ferro dei santi pensieri»; si omette  l’accenno ai calzari (lo zelo per la predicazione evangelica), e si precisa il  richiamo alla “spada della Parola”, spiegando che essa deve dimorare  abbondantemente nella bocca e nel cuore, per penetrare  poi in tutte le azioni  della vita.
Sono differenze di facile spiegazione: il testo  paolino (che riguarda l’intera vita cristiana vista in prospettiva di lotta  escatologica) subisce le modifiche necessarie per adattarlo alla situazione e  alla spiritualità eremitico-monastica. 
Abbiamo dunque: 
-          ai fianchi il cingolo (“balteo”) della castità; 
-          sul cuore la maglia di ferro dei santi pensieri,  
-          sulle spalle e sul petto la corazza della giustizia, 
-          al braccio lo scudo della fede, 
-          sul capo l’elmo della salvezza, 
-          e, come arma di combattimento, la spada della Parola di Dio. 
Ma c’è ancora una osservazione da fare: il testo  con cui S. Paolo ha descritto l’armatura e la lotta del cristiano non è, di per  sé, il primo punto di riferimento. E’ certamente interessante ricordare che S.  Paolo, quando scriveva agli Efesini, viveva materialmente legato ad un soldato  romano, di cui continuava ad osservare l’armatura. 
Ma già nella Scrittura era possibile trovare la  descrizione di Dio che scende in campo come un guerriero vittorioso a difesa del  suo popolo. 
Scriveva Isaia annunciando il Messia venturo: «Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia / cintura dei suoi fianchi la fedeltà» (Is 11,5); «Dio si è rivestito di giustizia come di una corazza / e sul  suo capo ha posto l’elmo della salvezza…» (Is 59,17). E il libro della  Sapienza annunciava: «Egli prenderà per armatura la sua gelosia…/ Indosserà  la giustizia come corazza / e si metterà come elmo un giudizio infallibile /  prenderà come scudo una santità inoppugnabile…» (Sap 5, 17a). 
La reminiscenza delle stesse immagini, o di  altre simili, serviva a non far dimenticare che l’uomo combatte in nome di un  Dio che per primo è venuto vittoriosamente in suo soccorso. 
Ma vediamo più da vicino la descrizione che ne  fa il Patriarca di Gerusalemme: 
-          Il «cingolo della castità» richiama evidentemente l’antica  persuasione che la prima lotta del monaco sia contro il demone della lussuria:  «i lombi» possono anche essere l’immagine degli strati profondi del nostro  essere –come qualcuno ama sostenere– ma sono anzitutto realisticamente il luogo  dove ferve fisicamente la pulsione sessuale.  Nei “Detti dei Padri del  deserto”[93], che esemplificano la vita e le esperienze dei primi eremiti e monaci  cristiani, i racconti di tali tentazioni –e cedimenti e vittorie– sono pieni di  realismo e di suggerimenti che descrivono le protezioni e le difese con cui  bisogna «cingersi» nella lotta. Tra tutte le indicazioni ne emerge una  sostanziale: la tentazione accade attraverso la produzione di immagini e forme  allettanti –apparentemente vitali, ma in realtà corrotte– prodotte  congiuntamente dal corpo, dalla fantasia, dalla memoria. Il deserto sembra  all’inizio favorire un loro soprassalto e incremento, ma ciò deriva in realtà  dal taglio radicale operato. Ma non bisogna confondere questo fenomeno di  reazione –che chiede appunto una armatura e una lotta– con quello di un deserto  che non è più tale perché volutamente popolato di immagini e forme sempre nuove,  e sempre più sottilmente accarezzate. Su ciò bisognerebbe oggi molto riflettere  e discernere. 
-          La «maglia di ferro»  con cui l’antico guerriero difendeva il  petto e il cuore è invece costituita dai «santi pensieri»: la persuasione  è quella che si ritrova già nei Vangeli: «è dal cuore dell’uomo che provengono i  pensieri malvagi… che rendono immondo l’uomo» (cfr. Mt 15,19)[94].  Il cuore è la sede dei pensieri coltivati e divenuti intenzioni: se queste sono  cattive tutto l’uomo diventa impuro e malvagio; se sono buone e sante tutto  l’uomo trova custodia e salvezza. E’ interessante osservare che la citazione  positiva offerta dalla Regola (“il pensiero santo ti custodirà”) è  quasi impossibile trovarla nella Scrittura, ma se ne trovano invece molte che  indicano la rovina provocata dai pensieri malvagi[95],  e tali pensieri sono sempre difformi dal pensiero di Dio. Non solo, ma sono  pensieri che pretendono competere con quelli di Dio e accusare Dio di  ingiustizia. Il «pensiero santo» è insomma quello che nasce nel cuore dell’uomo  per prossimità, sintonia, conoscenza e amore delle «sanctae cogitationes» («santi disegni») che Dio ha nei riguardi delle sue creature e del suo popolo.
A mio parere, l’indicazione del Legislatore (che  ha aggiunto, di suo, questa componente dell’armatura) non riguarda ancora la «purezza del cuore e dei comportamenti» –una estensione cioè di  quella castità di cui ha appena parlato– ma riguarda la “difesa  vocazionale”: l’eremita deve mantenere il proprio cuore (i propri pensieri e i  propri progetti) nell’ambito dei pensieri e dei progetti di quel Dio che lo ha  chiamato in solitudine, per vivere in intimità orante con Lui. Si tratta della  «affezione vocazionale» del cuore proteso ad amare e coltivare pensieri e  intenzioni corrispondenti alla chiamata di Dio.
In particolare, poiché si tratta di vocazione  eremitica, i «santi pensieri» sono quelli che mantengono il monaco  nell’atteggiamento contemplativo (cioè: quei pensieri che costituiscono  anch’essi una «cella isolata» dove accade il dialogo amoroso), mentre «i pensieri malvagi» sono raffigurazioni, suggestioni, divagazioni  ragionamenti che impregnano l’anima e la distraggono dal suo amoroso dialogo con  Dio. 
-          La «corazza della giustizia» va poi indossata per difendere  l’intera parte superiore del corpo. La citazione esplicita del duplice  Comandamento dell’Amore ci dà la chiave per comprendere di quale giustizia si stia parlando. Non si tratta –come qualcuno pensa– della «disposizione a  dare a ciascuno il suo», cioè della giustizia intesa come virtù che  spinge a dare a Dio e al prossimo l’amore loro dovuto. L’autore è completamente  immerso nella mentalità biblica che vede la giustizia di Dio (anch’Egli, come  abbiamo visto, indossa questa corazza) e quella dell’uomo come adesione assoluta  alla Alleanza sponsale: Dio è giusto perché è indissolubilmente fedele alla  carità che ci ha giurato; l’uomo è giusto se a tale carità risponde con fedele  dedizione. Avvolto di carità verso Dio e verso il prossimo, l’eremita è tutto  difeso e tutto raccolto. Altrove S. Paolo parlerà anche esplicitamente della «corazza della fede e della carità» (1 Ts 5,8). 
-          Lo «scudo della fede» deve essere continuamente a portata di mano  dell’eremita: esso, una volta imbracciato, copre tutta la persona e la difende  dalle «frecce di fuoco» scagliate dal nemico. Sembra quasi che la fede debba  essere una barriera destinata a proteggere la carità del monaco e il suo ardore,  dal fuoco diabolico continuamente scagliato da lontano contro di lui.  Solo se protetto da una fede inattaccabile, l’eremita «piace a Dio», anche se il  demonio lo bersaglia con le sue frecce insidiose e divoranti. E’ interessante  ricordare che proprio in quegli stessi anni in cui scriveva Alberto, un monaco  del Monte Athos insegnava ai suoi discepoli: «Lanciate le frecce della fede  contro il Malvagio in modo da vincerlo. Esse sono digiuno, veglie, preghiere,  lacrime, penitenza, umiltà, ubbidienza…»[96].  
-          L’  «elmo della salvezza» deve poi proteggere il capo. La citazione biblica (che chiede di sperare «in un  unico Salvatore») ci aiuta a capire il significato di tale indicazione: poiché  c’è un solo Salvatore, solo da Lui può giungere la salvezza e solo in Lui  bisogna sperare. Occorre perciò guardare attentamente nella Sua direzione,  bisogna aspettarlo e bisogna –come dice altrove la Scrittura– “alzare il  capo perché la nostra salvezza è vicina”. Il capo che si erge con fierezza é  la parte più esposta del corpo, ma se si erge “aspettando la salvezza”, “in  direzione dell’unico Salvatore che viene”, allora esso è protetto come da un  elmo sicuro[97].  Il legislatore non poteva certo dimenticare un altro testo in cui l’apostolo  Paolo aveva ripreso e approfondito il tema; concludendo la sua Prima Lettera  ai Tessalonicesi –dopo aver descritto tutto un contesto di “vigilanza” e  “sobrietà” (contesto che i monaci e gli eremiti avrebbero poi fatto proprio)  Paolo aveva insegnato: «…Dobbiamo essere sobri, rivestiti con la corazza della  fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza». Ma veglie e  sobrietà avevano uno scopo direttamente cristologico: «Poiché Dio non ci ha  destinati alla collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signore  nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi perché sia che vegliamo sia che  dormiamo, viviamo insieme con Lui» (1 Ts 5,7-10). 
La struttura teologale portante è stata così  descritta, e l’uomo nuovo è garantito nella sua vita. Ma che cosa deve accadere  a questa «nuova e casta creatura», chiamata da Dio, la quale nel deserto vive  solo di «carità, fede e speranza»? 
-          L’ultima arma, decisiva per la sua lotta, è la «spada spirituale della  Parola di Dio». Essa dovrà essere abbondantemente nel cuore e nella bocca  dell’eremita. La prima immediata impressione del lettore –la difficoltà a  immaginare una spada impugnata dalla bocca e dal cuore– dev’essere  confermata: la spada di cui si parla non è un’arma che deve essere brandita  verso il prossimo (nella predicazione, nella correzione, o simili)[98],  ma è esattamente la Parola di Dio pronunciata e meditata dall’eremita orante (e  che perciò «dimora abbondantemente nel cuore e nelle labbra») che  in tal modo diventa per lui una spada che scende nell’intimo. Infatti è  questo il senso dell’unico altro testo biblico in cui la Parola viene paragonata  a una spada: «la Parola di Cristo è viva, efficace più tagliente di ogni spada a  doppio taglio, e penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito,  delle giunture e delle midolla, e scruta i pensieri e i sentimenti del cuore» (Ebr  4, 10). E si tratta significativamente di una citazione che si conclude  descrivendo la creatura tutta scoperta agli occhi e al giudizio di Dio: «Non vi  è creatura che possa nascondersi davanti a Lui, ma tutto è nudo e scoperto agli  occhi suoi e a Lui dobbiamo rendere conto» (Ebr 4,13). 
Alberto non insiste su questo: lascia che la  reminiscenza (chiaramente evocata dal richiamo alla «spada dello Spirito»)  faccia da sé il suo corso, ed esplicita invece la citazione di Col 4,16: «La  parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente… E tutto quello che fate in  parole e in opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo  di Lui grazie a Dio padre» (Ef 4,16-17). Alberto si limita a riprodurla  indicando ancora una volta l’ideale eremitico che sta descrivendo: il monaco  arricchisce la sua bocca e il suo cuore con la Parola di Dio, questa penetra in  lui come una spada che gli scruta le viscere[99],  ma gli concede poi la grazia di fare tutto «in verbo Domini: nel nome del  Signore Gesù». 
Così Alberto ha finito di adattare per i  carmelitani la citazione di S. Paolo sull’armatura e la lotta del cristiano. E  non ci sorprendiamo scoprendo che tale citazione dell’Apostolo (Ef 6,11-17) si  apre appunto sul “grande Precetto” che dice: «Pregate incessantemente» (Ef  6,18). 
Lavoro e silenzio 
«[17] Dovete avere qualche lavoro da  fare, affinché il diavolo vi trovi sempre occupati, e non trovi, a motivo del  vostro ozio, un qualche adito per entrare nelle vostre anime. In ciò avete sia  l’insegnamento che l’esempio dell’Apostolo Paolo, nella cui bocca parlava  Cristo: Dio lo ha posto e lo ha dato come predicatore e dottore delle genti,  nella fede e nella verità, e seguendolo non potrete sbagliare. “Nel lavoro e  nella fatica –egli dice– abbiamo vissuto tra voi, lavorando notte e giorno, per  non essere di aggravio a nessuno di voi. Non che non ne avessimo il diritto, ma  per darvi noi stessi come esempio da imitare. Infatti, quando eravamo presso di  voi, questo vi ripetevamo: che se qualcuno non vuol lavorare, non mangi. Abbiamo  infatti sentito dire che alcuni tra voi vagano inquieti senza far nulla.  Scongiuriamo ed esortiamo questi tali, nel nome del Signore Gesù Cristo, a  mangiare il loro pane lavorando in silenzio”. Questa via è santa e buona,  camminate in essa».
«[18] Raccomanda inoltre l’Apostolo  il silenzio, quando comanda di osservarlo lavorando. Anche il Profeta afferma:  “Il silenzio è il custode della giustizia”, e ancora: “nel silenzio e nella  speranza starà la vostra fortezza”. Perciò stabiliamo che, dalla fine di  Compieta fino a dopo aver recitato l’ora Prima del giorno seguente, osserviate  il silenzio. Nel restante tempo, benché l’osservanza del silenzio non sia  richiesta con altrettanto rigore, bisognerà tuttavia guardarsi con molta  attenzione dal parlar molto, poiché è scritto –e lo insegna anche l’esperienza–  che “quando si parla molto non manca la colpa”, e anche: “chi è sconsiderato nel  parlare, ne sentirà danno”. E inoltre: “Chi parla molto ferisce la sua anima”. E  il Signore dice nel Vangelo: “Di ogni parola oziosa che gli uomini avran detto,  renderanno conto nel giorno del giudizio”. Perciò ciascuno pesi le sue parole e  metta giusti freni alla sua bocca, per non scivolare e cadere a causa della  propria lingua, e la sua caduta sia insanabile e mortale. Ciascuno dunque  custodisca, come dice il profeta, la sua condotta, per non peccare con la  lingua, e si studi di osservare con diligenza e attenzione il silenzio che è  custode della giustizia». 
Lavoro e silenzio sembrerebbero due indicazioni  diverse e distanti tra loro, se non fosse che la parola «silenzio» è posta come  cerniera per ambedue questi capitoletti.
Il c.17 si conclude con la raccomandazione di  «lavorare in silenzio», il c.18 si apre riprendendo ed ampliando la indicazione.  Ancor più importante è sottolineare che il termine greco usato per richiedere  questo caratteristico e sacro silenzio è esattamente hésychia, quello che  identificava anticamente la stessa vita eremitica e il suo progetto. Ma a sua  volta tale quiete (hésychia) nella lingua monastica medievale era detta  anche “otium”, da qui il facile equivoco in cui alcuni avrebbero potuto  perdersi: credere che quiete e lavoro fossero tra loro incompatibili, come già  alcuni cristiani di Tessalonica –al tempo di Paolo– avevano considerato  incompatibile l’attesa del ritorno di Cristo con l’impegno terreno (2 Ts  3,8-12). C’erano stati così in quella Chiesa “alcuni che vagavano inquieti  senza far nulla” e l’Apostolo aveva dovuto portare ad esempio se stesso che  in quella comunità aveva vissuto “nel lavoro e nella fatica lavorando giorno  e notte”, nonostante il già gravoso impegno della predicazione.  
Ciò che anzitutto impressiona è la solennità con  cui il capitolo sul lavoro viene introdotto: viene citato il comandamento  esplicito dell’Apostolo –il quale viene presentato con tutti i titoli di onore  che egli rivendicava[100]–  e le sue parole vengono lungamente riportate, alla lettera. Inoltre la stessa  formula totalizzante già usata per la preghiera “die ac nocte” viene ora  usata –senza temere contraddizioni– a riguardo del lavoro a cui l’Apostolo si è  dedicato “giorno e notte” per essere di esempio. 
Il comando della Regola che abbina il  lavoro al silenzio dipende dunque dal tema soggiacente dell’ «otium  monasticum» che non è affatto “l’ozio del ricco e del potente” o “la  decisione di non lavorare”, o “una fuga dalla dura realtà della condizione  umana”, ma una realtà carica di benessere e perfino di “attività”.  
Le precisazioni riportate sono di J. Leclercq,  il quale spiega: 
«Otium indica un intero ordine di attitudini e di attività, meglio definibile col  termine di esicasmo, mutuato dalla tradizione cristiano-orientale. Questa  parola deve essere intesa realmente e praticamente come riposo della mente (quies  mentis)… Lo spirito che è in stato di riposo si immerge nell’ascesi, si  nutre nella quieta vita del monastero (quies claustralis) e porta al  silenzio interiore, alla pace del cuore e alla serena contemplazione (quies  contemplationis). Il contenuto di questa esperienza è stato spesso descritto  in maniera affascinante da molti che l’hanno vissuta. Essa è attiva, dinamica,  coinvolge tutto e, nello stesso tempo, è una grazia (…). L’otium non deve  [però] essere idealizzato come una felicità immediata, né lo si deve considerare  separato dal labor, l’altra esigenza di ogni vita umana, sia essa laica o  monastica. Un aspetto complesso da trattare e da comprendere è costituito dalla  relazione tra lavoro e ascesi, due realtà entrambi multiformi. La principale  caratteristica del lavoro monastico è l’autodominio, la ricerca della pace  interiore, del superamento di sé»[101]. 
Il monaco infatti è fuggito dalla città dove  dominano gli affari (neg-otia, così chiamati appunto perché impediscono  la tranquillità dell’anima e immergono nell’affanno), ma non per questo egli si  perde in quella otiositas (di cui parla appunto la Regola)  che già S. Benedetto definiva «inimica animae». Questa genera noia,  tedio, accidia, e apre le porte alle suggestioni diaboliche. Nella Regola il precetto del lavoro ha appunto come obiettivo immediato l’impedire a Satana  ogni adito: «che il demonio trovi i monaci sempre occupati».
Il monaco ozioso è disponibile ad ogni  tentazione. Inoltre diventa un peso per la comunità, con la sua pigrizia e col  suo inquieto vagare, e l’ozio toglie dignità perfino al cibo che egli prende  senza averlo pagato col sudore della sua fronte. 
Altra cosa è invece amare quell’otium  monasticum di cui si è parlato, alla cui realizzazione concorre  essenzialmente la silenziosa e quieta applicazione di ciascuno al suo lavoro.
Il lavoro (all’inizio ci si riferiva soprattutto  a quello manuale) educa anche il corpo all’obbedienza –al ritmo dettato  dall’opera e dalla sua compiutezza– e non ostacola, anzi asseconda la  contemplazione. Il lavoro è, per così dire, la preghiera delle mani e dei  muscoli che s’accompagna a quella della bocca e del cuore. Esso deve «occupare»  il corpo dell’eremita, così come la Parola di Dio deve «occupare» la sua  anima: ambedue sono fonte di vera «quiete». 
Anzi, può accadere a volte che sia proprio il  lavoro a dover equilibrare una contemplazione che rischia di  spiritualizzarsi eccessivamente.
«Quando ti sembra che il tuo spirito sia  trascinato verso le vette da una forza invisibile –insegna  Gregorio il Sinaita– non aggiungervi la fede, ma costringiti a lavorare!»[102].
In fondo, è sulla base di una incredibile  saggezza del genere che si spiega come mai la Regola Carmelitana non  trovi alcuna contraddizione –come abbiamo già osservato– nel fatto di comandare «die ac nocte» sia la preghiera che il lavoro. 
Abbiamo così compreso il legame profondo che  Alberto pone tra il lavoro e il silenzio degli eremiti.
Al tema del silenzio è comunque destinato un  altro lungo[103] capitolo tutto racchiuso da una citazione biblica ripetuta due volte, all’inizio  e alla fine: «Il culto della giustizia è il silenzio». L’inclusione è evidentemente voluta e dev’essere pertanto rilevante. Lo vedremo tra  breve. 
«Nel silenzio e nella speranza sta la vostra  forza» è un’altra citazione biblica, messa a fondamento del discorso, il cui  contesto parla di conversione: «Così dice il Signore Jahvé, / il Santo d’Israele  / Se vi convertirete e starete nella quiete / sarete salvi; / nel silenzio e  nella speranza / starà la vostra forza» (Is 30, 15).
In questa formula –così pregnante che gli  studiosi vi vedono «la sintesi del messaggio rivolto dal Profeta ai suoi  contemporanei»– gli eremiti (“conversi”, per vocazione) avevano il  ricordo della loro originale chiamata: quella che li aveva decisi ad abbandonare  il tumulto del mondo, volgendosi esclusivamente a Dio, convertendosi a  Lui solo. 
Le ordinazioni sul silenzio che occorre  osservare (soprattutto nelle ore notturne) sono rafforzate con riflessioni  sapienziali. Il molto parlare –mentre distrae l’eremita da quel Dio a cui egli  si è unicamente rivolto– provoca dissipazione e rovine: peccati, malessere,  ferite nell’anima, oziosità, irresponsabilità, l’essere di scandalo a se stessi,  fino alla rovina mortale.
Col «molto parlare» l’eremita si è  rivolto sconsideratamente e tragicamente alle creature, ha abbandonato «la  quiete contemplativa», non ha «custodito la sua via». In una parola: dimentica  la sua conversione e abbandona la strada che ha intrapreso.
Una particolare attenzione si prestava allora  alla questione delle «parole oziose», proibite da Gesù: parole che  impediscono allo spirito il suo giusto «lavoro», quello che  solo nel  silenzio può accedere.
S. Basilio Magno nelle sue Regole brevi dava questa interpretazione: «In generale, sono parole oziose tutte quelle  che non servono in nulla al fine che ci si è proposti nel servizio di Dio».  E aggiungeva che sono parole che «rattristano lo Spirito Santo»[104]. 
Ora possiamo meglio comprendere quella citazione  di Isaia, ripetuta perché serva da inclusione al capitolo sul silenzio: «Il  silenzio è custode della giustizia».
L’importanza di essa appare solo se viene  collocata nel suo contesto, letto come lo leggevano allora Alberto e gli  eremiti:
«Alla fine sarà effuso su di noi lo Spirito  dall’alto; / e il deserto diventerà un Carmelo / e il Carmelo si cambierà in  selva. / Nella solitudine abiterà il giudizio / e la giustizia dimorerà nel  Carmelo / e l’opera della giustizia sarà la pace, / e il culto della giustizia  sarà il silenzio e la sicurezza per sempre» (Is 32, 15-17).
Di fatto la Regola si è conclusa[105]:  ora lo sguardo di Alberto va sul mistero del Carmelo e sul suo simbolismo  biblico, carico di esigenze e di responsabilità, ed egli lo offre agli eremiti.
Il silenzio adorante –la «quies  contemplativa»– deve essere dunque l’atmosfera propria del Carmelo. Ed essa  custodirà la «giustizia» e ne sarà a sua volta custodita.
L’eremita sa già (dalla descrizione della “santa  armatura”) che la giustizia consiste nell’osservanza del sommo Comandamento  dell’Amore. Se questa giustizia «dimorerà sul Carmelo» –e il silenzio  la custodirà– la santa Montagna sarà «un giardino»: un luogo paradisiaco, la  terra promessa, il monte dell’Alleanza
La Regola (che esprime il «carisma  originario») e il Luogo santo (che è «custode originario» di tale carisma) si  sono idealmente ricongiunti. 
Conclusione  volutamente Mariana 
Che ne è, al termine di questo commento nel  quale non abbiamo quasi mai incontrato il nome di Elia e di Maria, di quella  persuasione incantata, propria delle Leggende Carmelitane, di avere  un’origine lontana che si perde nel Carmelo-Paradiso, dove Elia educò i  primi monaci e Maria li scelse come fratelli e figli? 
Non è meglio restare soltanto al nudo documento  della Regola, e considerare il Patriarca Alberto di Gerusalemme, alla  stregua di Fondatore, come qualcuno suggerisce? 
Certo la Regola è il documento storico  più antico che possediamo, ma non dobbiamo dimenticare che anch’esso presenta  subito quella anomalia che abbiamo già osservato: Alberto non fu  fondatore perché non fu depositario del carisma, né lo condivise con i frati.
Per di più, abbiamo visto che la Regola non fa altro che strutturare, in maniera rapida, quel problema drammatico  dell’orazione ininterrotta che ha sempre travagliato i veri cristiani e i  monaci in particolare: «amare Dio con tutto il cuore, l’anima e le forze,  intrattenendo con Lui un ininterrotto e amoroso dialogo orante». 
E poiché, sul Carmelo quegli eremiti si  trovavano ad essere eredi dello stesso Fondatore del monachesimo (di Elia) e  familiari della purissima creatura che più arse d’amore divino (Maria), si  trovarono anche ad ereditare la più antica e radicale sfida della fede, senza  potere né volere sottrarsi.
Quel «luogo sacro» e quelle «auree  leggende» rappresentarono così per la Regola un terreno di coltura[106] continuamente dissodato e arricchito. 
Tutto ciò che abbiamo descritto sulla «storia  poetica e spirituale» dei Carmelitani, nei primi tre secoli, offrì dunque  alla Regola –scarna nella sua semplicità e nella sua bella nudità–  un’ambientazione vitale, teologica, mistica perfino, come si addiceva a un  Ordine che, nella Chiesa, doveva prendersi cura particolare del culto  contemplativo alla Madre di Dio e di donare a tutti i fedeli una continua  vivente esegesi del Cantico dei Cantici[107]. 
Ma che ne è della persuasione di Giovanni  Baconthorpe di poter leggere la Regola Carmelitana sulla falsariga  della vita di Maria?
«Forse  –ha lasciato scritto il P. Anastasio Ballestrero,  concludendo un suo commento alla Regola– le pagine vibranti del  Doctor Resolutus che commentano la Regola modellandola sulla vita della SS.  Vergine, hanno il dono di una intuizione profonda e sublime»[108]. 
L’aggancio più forte per questa «meditazione  mariana» sulla Regola e sulla natura dell’Ordine Carmelitano, gli  autori l’hanno sempre trovata in quella norma che dice: «La Parola di Dio  dimori nel vostro cuore in tutta la sua ricchezza» [16], addolcendo  maternamente l’immagine originaria della Parola che penetra e ferisce come una  spada. 
Il Priore generale dell’Ordine Beato J. Soreth  spiegava nel secolo XV ai suoi frati: 
«La Regola dice: “La Parola di Dio dimori in tutta la  sua ricchezza sulla vostra bocca (cioè nella predicazione) e nel vostro  cuore (cioè: ruminandola). Proprio come la Beata Vergine Maria, Patrona  dell’Ordine che “serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore”»[109]. 
Torniamo così alla nostra persuasione iniziale. 
I carmelitani hanno amato da sempre –come  immagine descrittiva del proprio «tipo umano»– l’icona della Vergine  dell’Annunciazione che riceve la Parola nel grembo e le obbedisce, con l’anima e  con il corpo. E la hanno sempre trovata perfettamente aderente al “cuore”  della loro Regola.
Forse solo un’altra icona li ha  affascinati di più: quella di Maria che li porta nel grembo come ha portato nel  grembo Gesù.
Ed anche di questo parlava la loro Regola,  quando descriveva l’eremo e la cella come un grembo caldo che doveva formarli  come figli di Dio. 
Perciò ci sembra giusto concludere anche questo  commento ritornando al clima che abbiamo respirato raccontando la primitiva «storia spirituale e poetica» dei Carmelitani.      
E lo facciamo  ascoltando il nostro più grande poeta mariano che parla all’Ordine, usando le  stesse espressioni che Gesù uso per affidare la Santa Vergine al discepolo  prediletto: 
«Guarda tua Madre, o venerabile assemblea del  Carmelo; anche se è la madre di tutti per svariate ragioni, è particolarmente  tua Madre. Quindi amala, venerala come se fosse ovunque presente; da questo  momento prendila nella tua casa, perché un giorno ella possa ricevere te nella  gloria»[110]. 
E di sé, autobiograficamente, il poeta dice quel  che ogni carmelitano vorrebbe poter affermare:
«Tutto ciò che sono, tutto ciò che valgo –lo  confesso di tutto cuore– lo devo a Maria… Fin dai primi giorni della mia  infanzia mi ha ricevuto, benché indegno, nel suo grembo e mi ha portato nella  terra del Carmelo, perché possa abitare tutti i giorni della mia vita  nella  casa di mia Madre. Mi ha coperto col suo manto bianco come la neve; mi ha  nutrito, mi ha irrobustito, mi ha coronato col suo titolo glorioso»[111].
  
Indice
Osservazioni preliminari e qualche  anticipazione……………1          
Brevi cenni  storici……………………………....…………2
Testo della Regola  Carmelitana………………....…............4
Schema grafico della  Regola……………........……………6
«Lettura» dello  schema……………………...……………7
Verso una rinnovata  interpretazione……………………….8
L’«obsequium Christi» [c. 2a]………………………………10
Il “ritorno” (“reditus-redditus”)  dell’Epilogo [c. 21]……….....14
B-B1:   Tra promessa e compimento 
(Il grande abbraccio dell’obbedienza)……………………….16
C: Il «Grande Precetto» della Regola…………………….......20
I riferimenti  biblici………………………………………………........21
1.      «Meditare giorno e notte nella Legge del Signore»….21
2.      «Vegliare in preghiere giorno e notte»………………23
3.      La recita dei Salmi e dei Pater………………………24
Il grande precetto della «preghiera  incessante»……..24
1.      L’alveo comune: la vita come preghiera incessante…..26
2.      L’alveo monastico: la preghiera incessante come vita…28
3.      Prime conclusioni………………………………………31
c1: Tre  «strutture materiali», dispositive…………………33
c2: Tre  strutture comunitarie………………………………  36
Lavoro e silenzio  ………………………………………….47
Conclusione  volutamente Mariana
  [1] Così si esprime la Rubrica prima delle   Costituzioni di Londra del 1281.  
  [2] Si trova infatti al centro delle tre   strutture centrali (c2), quelle “comunitarie” che offrono il sostegno ecclesiale: il sostegno del “corpo di Cristo”.
  [3] Secondo la numerazione in paragrafi abitualmente   adottata dai Carmelitani Scalzi.
  [4] Cfr. soprattutto C. Cicconetti, La Regola del   Carmelo. Origine, Natura, Significato, Roma 1973 e AA.VV., La   Regola del Carmelo oggi (a cura di B. Secondin), Roma 1983. 
  [5] Si trova infatti al centro delle tre   strutture centrali (c2), quelle “comunitarie” che offrono il sostegno ecclesiale: il sostegno del “corpo di Cristo”.
  [6] Secondo la numerazione in paragrafi abitualmente   adottata dai Carmelitani Scalzi.
  [7] Cfr. soprattutto C. Cicconetti, La Regola del   Carmelo. Origine, Natura, Significato, Roma 1973 e AA.VV., La   Regola del Carmelo oggi (a cura di B. Secondin), Roma 1983. 
  [8] Si noti che i due termini latini usati per   tradurre il greco hypakoè, cioè oboedientia, (da   ob-audio) e obsequium (da ob-sequor), si   riferiscono ai due atteggiamenti fisici con cui il discepolo   manifesta il suo attaccamento al Maestro e la sua dipendenza da lui:   ascoltandolo attentamente (“ob-audire”) e camminando sulle sue   orme (“ob-sequi”). Il termine obbedienza è la traduzione   letterale del greco hypakoè.  Ma le due formulazioni (“oboedientia”   – “obsequium”) si equivalgono: la sequela fisica era infatti   anticamente la maniera con cui il discepolo si metteva alla scuola di un   Maestro per ascoltare e apprendere i suoi insegnamenti.   
  [9] Cfr. Kittel, Grande Lessico del Nuovo   Testamento.
  [10] Cfr. Rom 15,18; 2 Cor 7,15.
  [11] Cfr. Rom 5,19; Ebr 5,8.
  [12] Cfr. anche il testo di Atti 6,7: “Grande era la   turba dei sacerdoti che obbediva alla fede” (6,7).
  [13] Alberto morrà il 14 settembre 1214, ucciso,   durante una processione, dal Maestro dell’Ospedale di S. Spirito, da lui   ripreso per condotta immorale.
  [15] S. Agostino   insegnava a percepire dovunque questa santa prossimità di Cristo: «Tutto il genere umano è quell’uomo che giaceva lungo la strada   semivivo, abbandonato dai ladri. Il sacerdote e il levita lo   disprezzarono, ma un samaritano di passaggio gli si accostò per curarlo   e prestargli soccorso. Lontano da noi, immortale e giusto, Egli discese   fino a noi, che siamo mortali e peccatori, per diventare prossimo a noi…    Perciò, fratelli, rallegratevi: dovunque e per tutto il tempo che   starete in questo mondo, “Il Signore è vicino. Non angustiatevi per   nulla» (Disc. 171,5: PL 38, 935).
  [16] Le Regola parla soltanto di eremiti che   liberamente «danno di più» –certamente in fatto di osservanza– e   che il Signore Gesù saprà alla fine ricompensare. Ciò non toglie   che l’immagine evangelica evocata sia quella del Buon Samaritano che   ricompensa il «di-più» speso dall’albergatore per il povero   ferito di cui nessuno si è preso cura.  Offrire tale immagine conclusiva   a degli eremiti ai quali si chiedeva la più profonda meditazione della   parola di Dio, significava certo suggerir loro anche opportune   riflessioni sul «di-più» esigito dalla carità. Perciò riteniamo   legittima la attualizzazione che ne facciamo. Ci piace pensare   che forse si tratta di un lontano anticipo di quella tematica –che i   mistici carmelitani esalteranno– della «contemplazione ecclesiale»:    di quella preghiera contemplativa che sa includere in sé tutte le   preoccupazioni per l’umanità-chiesa dolorante.
  [17] Reditus da redire: ritornare,   e redditus da reddere: restituire.
  [18] L’aspetto superficialmente mercantilistico   dell’immagine è totalmente riscattato dalla persuasione che il Signore   Gesù ha tutto acquistato con il suo stesso sangue (anche le nostre    “opere”) e Egli è divenuto assieme Colui che ci ripaga e Colui col quale   siamo interamente ripagati. 
  [19] Ricordiamo la splendida preghiera di S. Teresa di   Lisieux: «Alla sera di questa vita comparirò davanti a te a mani   vuote, perché non ti chiedo, Signore, di contare le mie opere… Voglio   ricevere dal tuo Amore il possesso eterno di Te stesso. Non voglio altro   trono e altra corona che Te, o mio Amato» (Pr 6).
  [20] Un celebre   carmelitano dei nostri tempi, il p. Bartolomeo M. Xiberta, parlando a   delle contemplative dirà semplicemente: «Lo spirito del Carmelo sta   nella pratica letterale del detto di S. Paolo: “La nostra   conversazione è nei cieli” (Fil 3,20)». 
  [21] Ripensa a tutta l’analisi, appena fatta, sul tema   dell’obsequium Christi.
  [22] Nel linguaggio biblico lo “iudicium de   contemptu” evoca il processo al quale sono sottoposti i trasgressori   dell’Alleanza con Dio.
  [23] C’era stato,   negli scorsi decenni, da parte di alcuni commentatori, un marcato   tentativo di sminuire la portata di questi fondamentali paragrafi della   Regola Carmelitana: il Priore starebbe a indicare “simbolicamente” nient’altro che “la opzione per la vita   comunitaria”, e la obbedienza a Lui dovuta altro non sarebbe che il   simbolo della “fedeltà” di tutti i fratelli a tale opzione. In   seguito altri commentatori si sono espressi con maggior prudenza, ma   continuando comunque a sostenere che il progetto evangelico, sotteso   alla Regola Carmelitana, non è quello Pater-filius –proprio del   monachesimo benedettino– ma quello frater-frater tipico di   un ideale cosiddetto “gerosolimitano” che sarebbe stato molto in   auge in quegli anni di fioritura delle fraternità mendicanti.    
In realtà la “Norma di vita” che il Patriarca Alberto diede agli eremiti segnò   proprio il passaggio da una concezione genericamente fraterna del vivere    –in cui già esisteva un fratello B. al quale si prestava una qualche   obbedienza– a una concezione più marcatamente ministeriale   dell’autorità: il fratello B. diventa allora “Priore”, rivestito   di una autorità analoga a quella propria dei ministri della Chiesa (cfr.   c. 20). Tuttavia chi insiste sulla obbedienza che i fratelli devono ai   fratelli, dice una cosa molto importante: senza un tessuto evangelico di   obbedienze reciproche, infatti, la figura del Priore perde la sua   caratteristica di «Presenza» cristologica, e la sua autorità   rischia –a seconda delle situazioni– di cadere o nel dispotismo o   nella desistenza.
  [24] Si noti che nel linguaggio giuridico del tempo l’arbitrium   indica “un potere personale tenuto interamente nelle proprie mani”.     Questo la Regola riconosce al Priore.
  [25] A volte questa espressione viene indebitamente   semplificata come se l’autore dicesse: «Non bisogna considerare tanto   la persona del priore, quanto la Persona di Cristo che egli rappresenta».    Il testo però dice esattamente: «i fratelli non devono pensare al   Priore, ma a Cristo che lo ha posto alla loro testa». Il riferimento   a Cristo non deve servire per oltrepassare il “segno” del Priore, ma per   ricordare l’origine divina del segno stesso.
  [26] Finora abbiamo tradotto, più delicatamente: «Cristo lo ha messo alla vostra testa». Ma, come si vede, le formule   originali hanno sempre un maggior peso di realismo figurativo. Si noti   d’altra parte che la Regola Carmelitana usa senza ambagi il titolo “Priore” che il francescanesimo invece proibisce proprio per   sottolineare la “fraternità” (cfr. Regola 1221, 6,3),   preoccupazione che gli eremiti evidentemente non hanno espresso nel   loro proposito. Tutto il contesto mostra invece che la concezione   propria di Alberto è quella monastica: obbedienza come “auditio   fidei” (l’«ascolto della fede»).
  [27] Sia gli antichi ebrei che gli antichi eremiti   realizzavano questa “meditazione” a partire da un fisico   tenere “davanti agli occhi e sulle labbra” (con la lettura, la   memorizzazione e la “ruminazione”) il Libro sacro.   Significativamente la BJ, al posto di “medita”, traduce: “mormora. Si trattava di un “borbottare” sottovoce per   facilitare la memorizzazione.
  [28] Anche se non è provato che tra gli eremiti del   Carmelo ci fossero dei crociati che, disgustati, avevano   abbandonato le armi per intraprendere il combattimento spirituale   e una conquista spirituale della “terra promessa” e “santa”,    è indubbio che la situazione del tempo favoriva queste connotazioni. La   “norma di vita” composta da Alberto ha, come vedremo, molti ed   espliciti riferimenti a tale lotta sacra, il cui premio è la conquista   del “Carmelo” (il “giardino dell’alleanza”) (Cfr. nn. 16-17-18).     
  [29] J. Soreth, Expositio paraenetica Regulae,   cap. 18, ed. Parigi 1625.
  [30] L’eremitismo della Regola Carmelitana, in   Ephem Carm., 1 (1948)  p. 254.
  [31] Omelia 18,7.
  [32] Del resto, il capitoletto della Regola in   cui si prescrive di “meditare giorno e notte” ha normalmente   questo titolo redazionale: «De iugi oratione». Lo stesso accade   nei Commenti.
  [33] La questione della recita delle “ore   canoniche”, alla maniera dei chierici, verrà posta solo in seguito,   dalle modifiche che saranno apportate da Papa Innocenzo IV.
  [34] Ed è al contrario triste, oltre che gravemente   significativo, che i cristiani della nostra epoca parlino facilmente del   comandamento della Carità senza nemmeno percepire quanto   radicalmente vi sia implicata la questione della preghiera.
  [35] «Est autem ordo et mensura charitatis   huiusmodi, verbi grazia: “Deum diligere” nullus modus, nulla mensura   est, nisi haec sola: ut totum exhibeas quantum habes»  (In Cant.,   III): «Puoi osservare il comando di amare Dio secondo una sola misura e   una sola maniera: esprimere tutto l’amore che hai».
  [36] Quella di 1 Ts 5,17 è la più breve e assoluta, ma   si possono citare ancora sia l’esempio dato dall’Apostolo (1 Ts 1,2: «Ringraziamo sempre Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre   preghiere, continuamente memori di voi davanti a Dio»; 2,12:    «noi ringraziamo Dio continuamente»; Rom 1,10: «Io   mi ricordo sempre di voi nelle preghiere, chiedendo sempre   nelle mie preghiere»; Fil 1,3-4: «Ringrazio il mio Dio...   Pregando sempre con gioia per voi, in ogni mia preghiera...»;   Col 1,3: «Noi rendiamo continuamente grazie a Dio, Padre...),   sia altre pregnanti formulazioni (Rom 12,12: «Siate   perseveranti nella preghiera...»; Ef 6,18: «Pregate   incessantemente, con ogni sorta di preghiere...»; Ef   5,18: «...Rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio   Padre, nel nome del Signore Gesù Cristo»). 
  [37] E’ interessante osservare come è attorno a questo   appassionante problema che viene avviato nel cristianesimo il dibattito   su una miriade di questioni che saranno poi affrontate in maniera   analitica, e alle quali si daranno svariare soluzioni: eremitismo e/o   cenobitismo; vita attiva e/o vita contemplativa; preghiera e/o lavoro   manuale; metodi e/o tecniche di preghiera ecc.
  [38] Con questa parola non intendiamo riferirci a quel   «metodo di preghiera, basato sulla invocazione indefinitamente   ripetuta del nome di Gesù, la cui forma è stata codificata negli   ambienti monastici del Monte Athos, nei secoli XIII e XIV, dove ha preso   a volte l’aspetto di una tecnica psicosomatica per la preghiera», ma   al suo «senso primario, proprio e tradizionale (secondo cui   l’Esicasmo) è in realtà un sistema particolare di spiritualità   talmente antica che coincide con le origini stesse del monachesimo   orientale, dato che si trova già nettamente attestato negli   Apoftegmi e nelle Vite dei Padri del deserto ed è raccomandato   da numerosi autori dell’epoca patristica». «L’esicasmo antico si   presenta come una dottrina che abbraccia tutto il complesso della vita   eremitica cristiana, nei suoi rapporti esteriori e interiori e nel suo   progetto fondamentale di unirsi a Dio per mezzo della contemplazione»   (P. Adnès, Hésycasme, in  Dictionnaire de Spiritualité,   VII, 382-399).
  [39] Dal contesto si intende: una donna rimasta senza   marito e senza figli. 
  [40] PG 12,1088 A B.
  [41] De oratione,  XII.
  [42] Demonstrationes IV,16.
  [43]  PL 33, 493-507. Notissima è anche questa   bella espressione del Santo di Ippona: «Il tuo desiderio è sempre   davanti a Lui, e se continuo è il tuo desiderio, continua è anche la tua   preghiera» (In Ps 38,14).
  [47] Hom. VI De oratione: PG 64,   462-466. 
  [48] Si conosce l’esistenza di una setta di “euchiti”    o messaliani, condannati poi come eretici, che col miraggio di una   preghiera mentale ininterrotta rifiutavano ogni lavoro e la stessa   pratica sacramentale, e cercavano di raggiungere una identificazione con   Dio. 
  [49] Cfr. P. Evergetinos, Synagoge, I, p. 75 b,   ss.
  [50] Per tutte le questioni qui ricordate cfr. I.   Hausherr, Hésichasme et prière, (Orientalia Christiana Analecta)   176, Roma 1966.
  [51] La distanza di tempo non deve farci dimenticare   la prospettiva propria di Alberto di Gerusalemme: agli inizi del secolo   XIII la vita monastica è quasi interamente cenobitica, ed essa ha   assorbito, ormai da alcuni secoli, anche la sostanza dell’antico   esicasmo, un tempo quasi esclusivamente eremitico. Ora trovando in   Palestina quei “nuovi eremiti”, Alberto deve, per così dire,   rintracciare per loro –a partire dall’esperienza monastica   cenobitica che è stata anche la sua– gli elementi essenziali dell’antico   ed originario esicasmo.
  [56] PG 88, 1100a.
  [57] Nel passato alcuni autori hanno affermato la   dipendenza della Norma vitae data da Alberto dalla Regula   Basilii, giungendo fino ad affermare che questa sarebbe stata la   prima Regola professata dagli eremiti. E’ una persuasione significativa,   anche escludendo una dipendenza esplicita.
  [58] Cioè: il silenzio permette all’eremita di restare   nella propria cella interiore (come se la portasse sempre con sé) anche   quando deve uscire dalla cella visibile per motivi di carità o di   opportunità. 
  [59] Nell’ottimo lavoro di C. Cicconetti, La Regola   del Carmelo. Origine - Natura - Significato, c’è il capitolo III   della Parte II in cui l’autore rintraccia certi testi paralleli o affini   al nostro, in altre fonti legislative. Ma la preoccupazione dell’autore   si limita al problema se si debba o no riconoscere una qualche   dipendenza da “fonti” a cui il Patriarca Alberto avrebbe attinto.   La risposta è giustamente negativa, ma l’ottica è parziale. Il fatto è   che tutti i testi attingono alla comune fonte dell’antico esicasmo.   Ed è interessante osservare come Albero ne ricomponga il primitivo   tessuto eremitico, pur un po’ corretto dalla successiva e già   consolidata esperienza monastico-cenobitica. 
Tra i paralleli interessanti ricordiamo:    l’espressione di Cassiano secondo cui «i monaci egiziani si dedicavano   notte e giorno alla lettura delle Divine Scritture e al lavoro manuale»    (De institutis coenobiorum l. II,5: PL 49,85); la   Regola di Grandmont che prescrive: «La vita vostra e di   ogni eremita deve consistere in questo: praticando l’orazione   ininterrotta, e distogliendovi dal tumulto del mondo col silenzio,    “riposare” nelle vostre celle» (PL 204, 1154).   
  [60] De Trin. 1,3,5.
  [61] Ricordiamo ancora che la formula «meditare   giorno e notte nella Legge del Signore» è appunto nel Salmo 1 che   funge da introduzione a tutto il salterio.
  [62] Da ciò dipende che, a volte, certi scritti   medievali (soprattutto d’origine monastica) sembrano una continua   citazione della Scrittura (la stessa Regola di Alberto ne è un   esempio), ma propriamente non si tratta né di citazioni né di allusioni,   ma di una nuova e spontanea «maniera di parlare» appresa   attraverso la continua “ruminazione” della Scrittura.  
  [63] Per ora tralasciamo il c. 4, aggiunto   successivamente. Lo riprenderemo quando descriveremo il passaggio dei   carmelitani in Occidente.
  [64] La precisazione: «nel luogo che avrete scelto   per abitare» è posteriore e risente già della necessità di abitare   anche luoghi non del tutto adatti alla vita eremitica.
  [65] Secondo alcuni commentatori la frase si   riferirebbe soltanto a ciò che bisognerà decidere nei riguardi dei nuovi   arrivati, ma, anche in tal caso, è evidente che la formulazione è stata   volutamente marcata e assolutizzata, a scopo pedagogico. 
  [66] Bisogna ricordare che il precetto centrale di “meditare giorno e notte sulla Legge del Signore” è rivolto, nella   Scrittura, a Giosuè, prima della conquista e della distribuzione della   terra promessa.
  [67] J. Soreth, Expositio paraenetica Regulae,   cap. 13; ed. Parigi 1625, pp. 111-116.
  [68] Considerare ciò una sottigliezza, significa non   sapere quale potenza evocativa avessero un tempo per gli eremiti simili   formule. E i Carmelitani ne hanno avuto a lungo coscienza, secondo   quanto testimoniava nel secolo XVII il Ven.le P. Tommaso di Gesù: «Che   le parole “die ac nocte” debbano essere riferite ad ambedue le   parti della frase è evidente per unanime consenso e interpretazione   dell’Ordine».
  [69] «Rimanete in me ed io [rimango] in   voi. Come il tralcio non può portar frutto da se stesso se non rimane   nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite   e voi i tralci. Chi rimane in me e io [rimango] in lui   porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla… Se   rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete e   vi sarà dato… Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi.   Rimanete nel mio amore. Se osservate i miei comandamenti   rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del   Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15,4-10).
  [70] «Dio è amore. Chi rimane nell’amore   rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Gv 4, 15).
  [71] Codex Regularum, I, 354.
  [72] I Padri del deserto. Detti, Città nuova   ed., Roma 1972, p. 53. 
  [73] De contemptu saeculi, 25.
  [74] «Cella continuata dulcescit...» (1,20,5).
  [75] Nell’espressione «singuli singulas habeant   cellulas separatas» tre parole su cinque rafforzano fino all’estremo   la richiesta di solitudine. Anche l’eremitismo permette molteplici   tipologie al suo interno. La Norma di Alberto indica la forma di   abitazione «più solitaria», nonostante altre indicazioni vadano poi in   senso cenobitico. 
  [76] Ignea sagitta,   cap.VIII. L’autore –Nicolò il Gallico, ex Superiore Generale dei   Carmelitani che sofferse come un tradimento il passaggio dell’Ordine   dall’eremitismo alla forma mendicante del vivere– vedeva ancora nella   stretta solitudine della cella la condizione necessaria per il   realizzarsi di quella «vocazione paradisiaca» che l’Ordine   raccontava nelle sue sante «leggende»: «Nella cella ci viene   mostrata la soave contemplazione, tesoro inestimabile e incomparabile,   per far sì che, disprezzando totalmente le cose terrene e caduche, il   nostro animo con libertà e fervore si dedichi totalmente alla sua   ricerca […]. Nella solitudine della cella, lontani dalle vanità del   mondo, otteniamo le vere delizie del paradiso che rallegrano e   rafforzano il nostro uomo interiore, al punto che il suo desiderio è   sempre allo stesso tempo assetato e sazio» (Ivi, cap.    IX).
  [78] J. Soreth, cit…, p.   116.
  [80] Il P. Jérome de la Mère de Dieu nel suo commento   La Règle du Carmel, pubblicato nel 1956, si esprimeva così: «Secondo il parere di tutti, di assolutamente tutti i commentatori,   questo precetto è quello centrale: questa è veramente l’opinione   generale, assoluta, e chi non ammette questo non comprende niente del   Carmelo. Il precetto de jugi oratione indica anche il fine   dell’Ordine e, allo stesso tempo, la sua essenza e la sua natura intima»   (p.56).
  [82] «Non ho mai lasciato una fondazione per paura dei   travagli, benché i viaggi mi ripugnassero assai, specie se lunghi.   Appena mi mettevo in cammino –pensando a Colui nel cui servizio   faticavo, e al fatto che in quella casa si sarebbe lodato il Signore e   si sarebbe posto il Santissimo Sacramento– tutto mi pareva poca cosa»    (Fondazioni 18,5).
  [83] P.   Crisogono di Gesù, Vita di S. Giovanni della Croce,    Roma 1984, p.69.
  [84] San Tommaso d’Aquino definisce la solitudine «periculosissima» e insegna che «solitudo competit jam perfectis»    (Summa th., II-II, q. 188, a. 8.
  [85] De oratione 124.
  [86] PL, 176, 1017-1182.
  [87] V. Mosca, Alberto Patriarca di Gerusalemme,   ed. Carmelitane, Roma 1996, p. 464, nota 294.
  [89] Conl. II,16.
  [90] Domenica di Pasqua, Canone dell’Orthros, ode   I,2.
  [91] S. Bonaventura, Leggenda maggiore.
  [92] L’astinenza è appunto basata su tale naturale   percezione.
  [94] Cfr. Mc 7,21; Lc 2,35, 24,38;   At 8,22. Un antico trattato, probabilmente di Evagrio Pontico,   portava questo titolo significativo: «De diversis malignis   cogitationibus» (PG 79, 1199-1234.
  [95] Forse l’espressione era presente in una antica   versione (non nella Vulgata) di Prov 2,11. Troviamo invece: «I   pensieri malvagi allontanano da Dio» («Perversae cogitationes   separant a Deo» - Sap 1,3). Cfr. anche: Gen 6,5; 8,21; Sal 118,118;   Prov 6,18; 15,5.26; Is 55,7 ecc. 
  [96] Cfr. L’amore della quiete, Edizioni   Qiqajon, Bose 1993, p. 117.
  [97] Da notare anche, come fa S. Giovanni della Croce   nella sua Notte Oscura, che l’elmo, una volta indossato, lascia   solo lo spazio per vedere. Così la speranza ci difende da tutto e ci   permette di vedere solo quel Dio a cui tendiamo. 
  [98] Assumerà questo significato quando il testo verrà   applicato alla predicazione della Parola.
  [99] Si può dire che nell’armatura tutta fatta per   difenderlo, la spada (di Dio!) ha invece il compito di ferirlo.
  [100] Cfr. 1 Tim 2,7: «Della testimonianza [di Cristo]   sono stato fatto banditore e apostolo… Maestro dei pagani nella fede e   nella verità».
  [101] Umanesimo e cultura monastica, ediz. Jaca   Book, Milano 1989, p. 139ss.
  [102] De vita contemplativa 10.
  [103] Relativamente al breve testo dell’intera Regola,   i due capitoletti, sul lavoro e sul silenzio, occupano una gran parte.
  [104] PG, 31, 1197 D.
  [105] I capitoletti conclusivi sull’obbedienza (nn. 19   e 20) e l’epilogo (n.21) non introducono nuovi temi, ma riprendono   quelli iniziali con funzione di «inclusione». 
  [106] Abbiamo visto anzi che la spiritualità e i   racconti del De institutione primorum monachorum, scritti nel   sec. XIV, furono ritenuti per secoli la Regola primitiva,   risalente addirittura al V secolo.
  [107] E’ quello che accadrà –come vedremo– con S.   Giovanni della Croce, e con la serie di grandi anime-spose che il   Carmelo offrirà alla Chiesa.
  [108] Cfr. Lo spirito della Regola, in Vita   Carmelitana, 8 (1946) pp. 42-65.
  [109] J. Soreth,   cit… cap. 38. G. Baconthorpe, nel suo commento mariano   della Regola, esemplificava citando ripetutamente il Magnificat   che sgorgò dal cuore di Maria, un cuore colmo della “Parola di Dio”.
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