La società del divertimento
distrae dalla felicità
di Giovanni Fighera
Nell’operetta morale «Dialogo di Malambruno e Farfarello», dopo aver chiesto la felicità al demone e aver
ottenuto una risposta negativa, Malambruno desidererebbe almeno togliere
l’infelicità. Farfarello risponde che ciò è impossibile a meno che non smetta
di volersi bene. Se ciò che ci procura tristezza è la domanda che sembra non
trovare appagamento, è sufficiente smorzare la tensione del desiderio per
stare, solo apparentemente, meglio. Ecco perché un assopimento dell’animo è, in
generale, piacevole, perché consiste in uno stordimento della ragione, in un
annebbiamento delle domande del cuore: «Il desiderio del piacere diviene una
pena, e una specie di travaglio abituale dell’anima. Quindi [... ] un
assopimento dell’anima è piacevole. I turchi se lo procurano coll’oppio, ed è
grato all’anima perché in quei momenti non è affannata dal desiderio, perché è
come un riposo dal desiderio tormentoso, e impossibile a soddisfar pienamente;
un intervallo come il sonno nel quale se ben l’anima forse non lascia di pensare,
tuttavia non se n’avvede» (Zibaldone).
Nell’operetta morale «Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare» il protagonista nella sua solitudine del
convento / manicomio di Sant’Anna chiede allora quali siano i rimedi contro la
noia, contro questo pungolo che non ci fa stare tranquilli, ma ci fa sospirare
di desiderio. La risposta è «il sonno, l’oppio, il dolore». La società
contemporanea sembra essere una fabbrica di assopimento dell’animo. L’oppio di
cui parla Leopardi è la droga diffusa in tutte le sue forme nel mondo giovanile
e anche in quello più adulto, le forme di felicità chimica, ovvero di
stordimento e di distruzione graduale della ragione umana e del fisico. La
droga sembra diventare abitudinaria accompagnatrice delle serate di chi vuole
divertirsi, trattata come amica. A quale stordimento giunge spesso l’uomo!
L’assopimento è, spesso, procacciato attraverso l’alcool, attraverso l’ebbrezza
che toglie ogni inibizione e che, nel contempo, stordisce. Il genio familiare
cita, però, anche un altro espediente, il sonno, che si può intendere nel senso
letterale del termine o in quello metaforico di fuga dalla realtà, costruzione
di una campana di vetro all’interno della quale ripararsi e non vivere. Quante
forme di sonno esistono, quante forme di annichilimento della coscienza vengono
sovente adottate! Il sonno è, però, senza che ricorriamo ad una lettura
metaforica, la via immediata cui molti ricorrono per stare meno male. Non a
caso chi si sente depresso si rifugia spesso nel dormire.
Eppure, l’animo spesso predilige forme di assopimento più vitali. Quest’ultima può sembrare un’espressione ossimorica
e paradossale, ma non lo è: infatti, l’uomo, volendosi illudere di vivere e
pensando che l’intensità della vita dipenda dalla quantità di attività, si
riempie le giornate di occupazioni, satura ogni spazio vuoto, eliminando
le occasioni per pensare e per porsi domande. «La vita continuamente occupata»
scrive Leopardi nello Zibaldone, «è la più felice, quando anche non sieno
occupazioni e sensazioni vive, e varie. L’animo occupato è distratto da quel
desiderio innato che non lo lascerebbe in pace, o lo rivolge a quei piccoli
fini della giornata (il terminare un lavoro, il provvedere ai suoi bisogni
ordinari, ec. ec. ec.) giacché li considera allora come piaceri (essendo
piacere tutto quello che l’anima desidera), e conseguitone uno, passa a un
altro, così che è distratto da desideri maggiori, e non ha campo di affliggersi
della vanità e del vuoto delle cose e la speranza di quei piccoli fini […] bastano
a riempirlo, e a trattenerlo nel tempo del suo riposo». Leopardi è, però, ben
cosciente dell’inganno del divertimento e dell’occupazione continua della
propria giornata con mille attività. Scrive, infatti, nello Zibaldone:
«Né la occupazione né il divertimento qualunque, non danno veramente agli
uomini piacere alcuno. Nondimeno è certo che l’uomo occupato o divertito
comunque, è manco (meno) infelice del disoccupato, e di quello che vive vita
uniforme senza distrazione alcuna… Occupata o divertita (sottointeso la vita),
ella si sente e si conosce meno, e passa, in apparenza più presto, e perciò
solo, gli uomini occupati o divertiti, non avendo alcun bene né piacere più
degli altri, sono però manco infelici: e gli uomini disoccupati e non
divertiti, sono più infelici, non perché abbiano minori beni, ma per
maggioranza di male, cioè maggior sentimento, conoscimento, e diuturnità
(apparente) della vita».
La frenetica vita di oggi sembra la paradigmatica rappresentazione di una risposta che la
società contemporanea ha dato alla questione della felicità, risposta pilotata
dal potere che induce falsi bisogni e li pone come esigenze fondamentali
dell’io. Siamo bombardati da messaggi che ci inducono a pensare in positivo per
la moltitudine dei beni di consumo che l’uomo può ottenere, siamo immersi nella
civiltà che ci gestisce il tempo libero ora per ora, come nei villaggi
turistici dove il nostro divertimento è sentirci dire cosa fare e come occupare
le nostre giornate. Riempire il vuoto, mettere a tacere l’horror vacui, che
provoca un senso di vertigine, è la parola d’ordine attuale. I più, nella
propria dimenticanza, non si avvedono neppure di non essere liberi in questo
modo di agire, presuppongono di stare bene, semplicemente perché non sentono
più la domanda. Paradossalmente una montagna di piaceri sommerge il vero
desiderio.
Nei Pensieri Pascal definisce questo atteggiamento umano di distrazione con
il terminedivertissement. L’espressione nel suo significato etimologico (dal latino divertere cioè
«volgere qua e là, lontano dalla strada principale, dal solco tracciato») ben
designa il tentativo, coscientemente o incoscientemente perpetrato, di
strapparci dal nostro cuore originario, sede delle domande più autentiche sul
significato e sul senso delle cose, attraverso distrazioni, palliativi, piaceri
surrogati della felicità che hanno come conseguenza quella di alienarci, di
allontanarci da noi stessi, di renderci estranei a noi stessi, di essere sempre
fuori da noi così che «la nostra casa risulta disabitata». Per questo Pascal
scrive: «Nulla è tanto insopportabile per l’uomo quanto lo stare in riposo
completo, senza passioni, senza preoccupazioni, senza svaghi, senza
applicazione. Allora sente il suo nulla, il suo abbandono, la sua
insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto.
Immediatamente dal fondo della sua anima verranno fuori la noia, la tetraggine,
la tristezza, l’affanno, il dispetto, la disperazione». L’uomo passa, così, da
un piacere all’altro senza sosta, rimanendo deluso in continuazione, ma
sopperendo a questo disinganno con l’immensa varietà dei piaceri. Spesso, non
ha tempo di stancarsi dei piaceri, poiché vi si sofferma troppo poco e non ha
lo spazio per riflettere sull’incapacità di essi a felicitarci. Ecco perché
sovente, invece di approfondire i rapporti, si preferisce passare da
un’amicizia all’altra, da un rapporto sentimentale all’altro nella paura che si
possa altrimenti cogliere l’inganno di chi affida la felicità ad un bene (come
idolo) oppure già nel puro cinismo che fa di ogni cosa un nulla, privo di
significato e quindi bene interscambiabile. L’idolatria è l’altra faccia della
medaglia su cui è rappresentata la cinica violenza di distruzione dei beni in
una spietata iconoclastia: l’idolatria produce la stessa distruzione
dell’idolo, quando l’uomo verifica la sua inadeguatezza e, quindi, lo distrugge
e lo cambia in un altro idolo. Come si passa da un bene all’altro, così si
passa anche da un luogo all’altro, come i ragazzi al sabato sera, in modo da
riempire quelle lunghe ore della notte che si vorrebbero interminabili, ma che
non si sa come trascorrere.
Potremmo essere tentati di autoescluderci da questi tentativi di assopire
l’animo, pensando che droghe, alcool,
moltitudini di piaceri riguardino forse altri, non noi. Forse non siamo, però,
immuni dalla più comune delle smemoratezze, da quella borghesizzazione della
vita, da quel desiderio di una «vita tranquilla» che ci lascia pensare che noi
abbiamo già compiuto il nostro dovere, perché abbiamo lavorato ed è, quindi,
giusta e meritata la serata di pura dimenticanza, come la vacanza del dolce far
niente dopo un anno in cui le giornate sono state saturate dal lavoro e
dall’iperattività. È la condizione del gregge, descritta da Leopardi nel «Canto
notturno di un pastore errante dell’Asia», un gregge che può oziare senza
sentire il pungolo della noia, senza avvertire che siamo nati per Altro, per
una felicità piena. Il gregge siamo tutti noi quando soffochiamo le domande
sulla vita, quando preferiamo il quieto vivere, quando pensiamo nell’intimo del
nostro cuore (senza magari osare confessarlo) che tanto la felicità vera non
esiste e che convenga, quindi, godersi la tranquillità senza chiedere di più
dalla vita, dagli amici, dal rapporto con la moglie o la fidanzata. Il monito
di Dante è, però, severo e risuona nelle nostre orecchie attraverso la voce di
Ulisse: «Fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e
canoscenza».
Fonte: lanuovabq.it
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