martedì 3 marzo 2015

Margaretha che non può scendere dal monte


 

Margaretha (1)
La chiamano homeless, ma una casa ce l’ha: è una tenda sul marciapiede, che difende il suo passato
Il suo monte è l’Esquilino, al centro di Roma. La sua tenda l’ha piantata su un largo marciapiede, tra una scuola, una basilica e un’edicola. È lunga come un letto su cui dormire, alta come una poltrona su cui riposare, larga come una cucina a gas su cui cuocere la pasta. La poltrona c’è davvero, sotto la tenda, o meglio sotto gli strati di plastica tenuti fermi da corde ed elastici. E c’è qualche scatolone, un paio di secchi di plastica, una bacinella e altre cose che non sono riuscita ad intravvedere, ma altrettanto preziose.
Nella tenda, però, non ci sono Mosè né Elia, né discepoli. Gesù credo di sì, che ci sia. E c’è lei, la padrona di casa, che siede generalmente davanti al lato corto della sua casa di tre metri cubi affollati di cose, in cui si infila raramente. È alta e magra, ha i capelli biondi ben tagliati, lineamenti che sarebbero ancora belli, se non fossero segnati dal dolore e dalla vita all’aria aperta.
Quando mangia, stende un tovagliolo sull’asfalto e apparecchia. Ogni tanto la si vede con una bacinella in cui lava una maglietta o la biancheria. A volte si infila sotto la plastica e rassetta.
È tedesca. I portieri e i negozianti della zona ne raccontano la storia. Con qualche variante.
È stata una signora borghese, bella e benestante, che ha lasciato il marito in Germania per seguire un architetto italiano di cui si era appassionatamente innamorata. L’architetto aveva lavorato a lungo per restaurare un antico palazzo, che affaccia proprio sopra il marciapiede, e nel quale insieme avevano abitato per alcuni anni. Ma poi l’ha lasciata e, finito il lavoro, ha cambiato città.
Lei è crollata, non ce l’ha più fatta a rimanere nei binari di una vita normale e si è trasferita lì, sul marciapiedi, da dove può osservare le finestre da cui si erano affacciati insieme e può illudersi di salvaguardare ancora il loro amore.
Sapere come è andata esattamente è difficile, perché è una donna dura e scontrosa. Non dà confidenza a nessuno, al massimo concede un buon giorno alle persone che da anni passano di lì, ogni giorno, o più volte al giorno. A un paio di persone ha dato più confidenza e da loro accetta, ogni tanto, un cappuccino. Nient’altro: non chiede soldi, non vuole vestiti usati o altri aiuti di questo genere.
Di conseguenza, tutti si chiedono come fa a mangiare, a comperarsi il sapone e il tovagliolo di carta. Non è una sprovveduta: a tagliarsi i capelli va periodicamente dalla Caritas, che offre questo servizio, e probabilmente lì riceve i vestiti che le servono. Una parrocchia le permette di fare la doccia, qualcuno evidentemente le dona cibo. Ma la domanda è: dove va a dormire?
E qui scatta la seconda variante della storia, così come viene raccontata nel quartiere: lei in realtà possiede ancora l’appartamento che è stato il nido del suo amore sfortunato. Non riesce ad abitarci, però va a dormirci e forse anche a lavarsi. Qualcun altro, invece, sostiene che di notte va al dormitorio della Caritas.
Quale sia la verità, però, non conta. Conta quello che, ad un certo momento, le è esploso dentro, devastando le sue strutture mentali, psicologiche e affettive. Conta quella smisurata paura di soffrire ancora, che le impedisce di accettare le relazioni con gli altri. Contano le rovine che ha dentro, che le impediscono di alzarsi al mattino e affrontare la vita. Conta l’ultima briciola di agonizzante orgoglio, che le impedisce di farsi aiutare.
Ha lasciato la casa e le persone che affollano la nostra vita quotidiana, con le loro pesantezze, i conflitti, i tradimenti. Ha scelto la sicurezza di un tenda piantata nel marciapiedi, un foglio di plastica che ha il potere di allontanare il mondo e i suoi problemi. Solo che questa tenda riesce a tener fuori le persone e la pioggia, non i fantasmi, non i pensieri. Questi puoi vincerli solo se li affronti, e la tenda non è un’arena: è il luogo della fuga e, per lei, una prigione.
L’altro giorno, dopo quattro anni che passo di lì e la saluto, per la prima volta mi ha risposto con un cenno del capo. Non ne sono neanche tanto sicura: forse ha fatto un movimento soprappensiero, senza nessuna intenzione di comunicare con me. Ma mi piace pensare che mi abbia risposto. Come mi piace pensare che verrà un giorno in cui qualcuno riuscirà ad accompagnarla giù dal monte, aiutandola ad affrontare la sua seconda vita nel mondo.

Paola Springhetti, giornalista freelance. Dirige il bimestrale «Reti Solidali» e collabora con varie testate, tra cui «Il Sole 24 Ore» e «Segno». Insegna giornalismo alla Pontificia Università Salesiana. Il suo ultimo libro è "Donna fuori dallo spot" (ed. Ave 2014).
da| chicercate.net

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