lunedì 16 marzo 2015

Lettera dei due Generali O.Carm. e OCD per l'anno della vita consacrata

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 L’anno della Vita Consacrata, cominciato ormai da alcuni mesi, è anche per noi carmelitani un’occasione per tornare a riflettere su alcuni aspetti fondamentali della nostra vita e del nostro carisma. Per questa occasione noi, superiori generali dei Carmelitani, P. Fernando Millán Romeral e dei Carmelitani Scalzi, P. Saverio Cannistrà, abbiamo deciso mandare un piccolo messaggio a tutti i membri della grande famiglia carmelitana diffusi nel mondo intero per incoraggiarvi a vivere con profondità quest’anno che, inoltre, coincide con il V Centenario della nascita di Santa Teresa d’Avila. Si tratta di un evento molto importante per tutti noi e Teresa, da sempre mistagoga e maestra di spiritualità, si offre anche adesso come modello e guida per un rinnovamento della nostra consacrazione religiosa e come un’inspirazione per affrontare nuove sfide. Questa bella coincidenza può essere un’occasione straordinaria di riflessione e di approfondimento nella nostra identità come religiosi e come carmelitani.
            Per questa riflessione un importante aiuto ci è stato offerto, nel novembre dello scorso anno, da papa Francesco con la sua Lettera a tutti i consacrati. Mentre non indulge a facili e forse comodi pessimismi, la Lettera invita tutti noi, consacrati e consacrate, a testimoniare alla Chiesa e al mondo la bellezza della nostra vocazione e della nostra vita. Essa contiene un invito che non dovremmo lasciar cadere nel vuoto: «Nessuno […] in quest’Anno dovrebbe sottrarsi ad una seria verifica sulla sua presenza nella vita della Chiesa» (II, n. 5).
            Le seguenti considerazioni vogliono essere un aiuto[1] perché questa «seria verifica» possa prendere avvio o continuare con più decisione là dove avesse già avuto inizio.
Nel cuore della Chiesa
1.         Dalla Lettera emerge con assoluta chiarezza la volontà di papa Francesco di non rinchiudere la vita consacrata in angusti recinti per addetti ai lavori, ma di collocarla nel cuore, nella profondità, della Chiesa e in una vastità di orizzonti che la sappiano condurre ben oltre se stessa. Nel cuore della Chiesa perché «la vita consacrata è dono della Chiesa, nasce nella Chiesa, cresce nella Chiesa, è tutta orientata alla Chiesa» come affermava il cardinal Bergoglio nel suo intervento al Sinodo del 1994 (cfr. III, n. 5); verso ampi orizzonti perché con la Chiesa essa è chiamata ad andare «nelle periferie esistenziali» dove, accanto a povertà materiali, a sofferenze di bambini e anziani, vivono «ricchi sazi di beni e con il vuoto nel cuore» (II, n. 4). Solo così si comprende la sua accorata esortazione: «Non ripiegatevi su voi stessi, non lasciatevi asfissiare dalle piccole beghe di casa, non rimanete prigionieri dei vostri problemi. Questi si risolveranno se andrete fuori [….] ad annunciare la buona novella» (II, n. 4). Sembra di riascoltare il pressante invito che San Giovanni Paolo II rivolgeva a tutta la Chiesa il 6 gennaio 2001 al termine del Grande Giubileo dell’Anno Duemila: «Duc in altum! Andiamo avanti con speranza! Un nuovo millennio si apre davanti alla Chiesa come oceano vasto in cui avventurarsi, contando sull’aiuto di Cristo» (Novo millennio ineunte, n. 58).
            Per noi che per grazia di Dio siamo stati chiamati al Carmelo, ispirati dalla Regola di Sant’Alberto e dall’esempio di tanti santi che nel corso dei secoli si sono impegnati a vivere questo ideale, chiamati in modo speciale in quest’anno giubilare a camminare sulle orme di Teresa di Gesù, sentirsi «figli della Chiesa», «vivere le grandi necessità della Chiesa» (Relazioni, 3,7), «pregare per la propagazione della Chiesa» (Fondazioni, 1,6) e stare nel «cuore della Chiesa, mia Madre» (Ms B 3v), non è un’inutile fatica, ma un dono. Tornano qui più che mai opportune le parole del papa al vescovo di Avila del 15 ottobre scorso: «Non c’è nulla di più bello di vivere e morire come figli di questa madre Chiesa!». Quando non si fa esperienza di questa maternità che alimenta e che educa non si può che essere, pur senza pienamente avvertirlo, spiritualmente «orfani», anche all’interno di una famiglia religiosa come la nostra.  
2.         Nell’immediato post-concilio Hans Urs von Balthasar osservava che, parlando di vocazione, si era anzitutto preoccupati di chiedersi quali fossero i bisogni della Chiesa, quelli del nostro tempo, o, «ancor peggio», quelli del prete e del religioso, e non ci si chiedesse più di che cosa avesse bisogno Dio[2]. Scrive papa Francesco nella sua Lettera: «Mi aspetto che ogni forma di vita consacrata si interroghi su quello che Dio e l’umanità oggi domandano». Ecco l’interrogativo capitale che anche noi religiosi carmelitani dobbiamo tornare a porci: «Che cosa ci sta chiedendo Dio in questo nostro tempo»? Un abbozzo di risposta è già nella stessa Lettera del papa: «Sperimentare e mostrare» che Dio «è capace di colmare il nostro cuore e di renderci felici senza bisogno di cercare altrove la nostra felicità» (II, n. 1). Se diciamo a noi stessi e agli altri che «Dio solo basta» non possiamo accontentarci di «servirlo alla buona» (“tratan groseramente de contentar a Dios”, Cammino, 4, 5). Anche Maria Maddalena de’ Pazzi, pochi anni dopo, scriveva in maniera coraggiosa e audace al Papa Sisto V, raccomandandogli che la Chiesa assomigli sempre di più al Cristo: «Attendete, attedente, Santissimo Padre a tal imitazione, dico a spogliarvi tutto da Voi stesso e vestirvi di Lui: ‘Induimini Dominum Jesum Christum’ (Rm 13,14)» (RC, 66).
La gioia per «engolosinar las almas»
3.         «Dove ci sono i religiosi c’è gioia», scrive il papa (II, n. 2). Se non vogliamo fondare la gioia sulla sabbia del sentimento, dobbiamo radicarla nella solida roccia dell’esperienza personale e comunitaria dell’amore di Dio. «Oh, mio soave Riposo, mio Dio, gioia dei vostri amanti» scriveva Teresa di Gesù (Esclamazioni, 17, 2). Parlando al vescovo di Avila della gioia nella vita di Teresa, papa Francesco scrive: «E, sentendo il suo [di Dio] amore, nella santa nasceva una gioia contagiosa che non poteva dissimulare e che trasmetteva attorno a sé». La sua breve ma efficace descrizione della gioia di Teresa[3] dovrebbe essere fatta oggetto di riflessione nelle nostre comunità per verificarne, pur entro diverse sensibilità, la sua effettiva presenza (cfr. Seste Mansioni, 6, 12).
            L’anno appena concluso ha visto la beatificazione di papa Paolo VI. A quarant’anni esatti dalla pubblicazione (1975-2015), la sua esortazione sulla gioia cristiana Gaudete in domino è ancora attuale, tanto più che, secondo il beato pontefice, Teresa d’Avila, con altri santi, in materia di santità e di gioia, ha «fatto scuola». Per l’altra Teresa, quella di Lisieux, questa stessa gioia si è trasformata nella «via coraggiosa dell’abbandono nelle mani di Dio». Il beato Tito Brandsma, quando già si trovava nelle condizioni terribili dei Lager nazisti, esortava con insistenza i compagni di prigionia nella convinzione che la vita del carmelitano non può non essere un segno di gioia e di speranza per tutti.
4.         Come ognuno di noi ha più volte sperimentato, la gioia, come il bene, se da un lato è diffusiva (cfr. Gv 15, 11), dall’altro attrae chi la incontra e la sperimenta (Cfr. Sal 92, 5). Così è per la vita della Chiesa nel suo insieme e per quella consacrata in forma particolare. Scrive il papa: «È la vostra vita [consacrata] che deve parlare, una vita nella quale traspare la gioia e la bellezza di vivere il Vangelo e di seguire Cristo» (II, n. 1). Se per ipotesi chiedessimo a Teresa di Gesù di tradurre con le sue parole quanto espresso dal papa, ci risponderebbe che ella non viveva che per «engolosinar las almas» (Vita, 18,8), cioè per ingolosire, per allettare, per affascinare gli altri e portarli a Dio.
            Non è forse quello che anche il papa ci chiede e che, in quanto carmelitani, siamo chiamati a testimoniare seguendo le orme di Teresa di Gesù e degli altri santi del Carmelo? Per affascinare altri bisogna essere prima affascinati. Allo stesso modo, per comunicare ad altri la «gioia e la bellezza di vivere il Vangelo e di seguire Cristo»[4], bisogna prima averne fatto esperienza. Teresa ricorda di essersi sentita dire da P. Gracián che «non si devono conquistare le anime con la forza delle armi, alla stessa guisa dei corpi» (Lettera del 9 gennaio 1577).
            Se non vogliamo trasformarci in gestori del sacro della vita altrui[5], come pure della nostra, dovremmo aderire con tutto il cuore a queste parole di Teresa: «Oh, no, Signore! Che non sia privata, che non sia privata della gioia di godere in pace la vostra incantevole bellezza. Vostro Padre vi ha dato a noi. Non perda io, Signore, un così prezioso dono» (Esclamazioni, 14, 2).
Una comunione per il mondo
5.         Il papa ci ricorda che come religiosi siamo chiamati ad essere «esperti di comunione» (II, n. 3). Nella rivelazione cristiana tutto è segnato dalla comunione: le tre persone divine sono comunione, la fede è comunione, la preghiera è comunione, la Chiesa è comunione[6], la liturgia è comunione e, finalmente, la vita consacrata è comunione[7]. Un cristianesimo che non sa farsi esperienza di comunione non è più cristianesimo. Se così non fosse, l’invito di San Giovanni Paolo II, ripreso da papa Francesco, a «fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione» (II, n. 3; cfr. NMI 43) si ridurrebbe ad una scontata esortazione che non incide nella vita, quella vera. In una Chiesa animata dalla comunione e che lavora per offrire comunione, noi religiosi carmelitani non possiamo accontentarci di essere spettatori. Come scriveva Teresa a P. Gracián, «l’amore, quando c’è, non può dormire tanto» (Lettera del 4 ottobre 1579).
            Ci aspetta un grande lavoro: con pazienza, ma anche con determinazione, vivere, lavorare e pregare perché la comunione, da principio teologico, diventi principio antropologico, mentalità, habitus, diventi criterio alla luce del quale la comunità e il singolo religioso vivano e facciano scelte. Giovanni Paolo II ha chiesto che «la spiritualità della comunione» diventi un «principio educativo» nei luoghi dove si formano tutti i fedeli e perciò anche «i consacrati» (NMI 43). E il Papa Francesco, nel messaggio inviato al Capitolo Generale dei Carmelitani (O.Carm) a settembre del 2013, con parole chiare e dirette, faceva un forte appello a vivere la nostra dimensione contemplativa come seme di comunione per il mondo: «Oggi, forse più che nel passato, è facile lasciarsi distrarre dalle preoccupazioni e dai problemi di questo mondo e farsi affascinare da falsi idoli. Il nostro mondo è frantumato in molti modi; il contemplativo invece torna all’unità e costituisce un forte richiamo all’unità. Ora più che mai è il momento di riscoprire il sentiero interiore dell’amore attraverso la preghiera e offrire alla gente di oggi nella testimonianza della contemplazione, come pure nella predicazione e nella missione non inutili scorciatoie, ma quella sapienza che emerge dal meditare “giorno e notte nella Legge del Signore”, Parola che sempre conduce presso la Croce gloriosa di Cristo».
            Il 22 settembre 1572 santa Teresa raccontò la visione della Trinità che aveva avuto nel giorno di San Matteo. Quel racconto contiene una indicazione di carattere pedagogico utile perché la comunione diventi uno stile di vita. Scrive Teresa: «Queste tre persone si amano, si comunicano e si conoscono» (Favori celesti, n. 33). Senza amore reciproco la comunicazione è qualcosa di formale e la conoscenza resta sempre alla superficie. Santa Teresa ce lo ricorda senza stancarsi: «Credo che non arriveremo mai ad avere perfetto amore del prossimo, se non lo faremo nascere dalla medesima radice dell’amore di Dio (Quinte Mansioni, 3, 9); «Persuadiamoci, figliuole mie, che la vera perfezione consiste nell'amore di Dio e del prossimo» (Prime Mansioni, 2, 17)[8]. Al vescovo di Avila papa Francesco ha ricordato che «la via della fraternità» fu «la risposta provvidenziale» di Teresa «ai problemi della Chiesa e della società del suo tempo».
            Infine, la comunione «ci preserva dalla malattia della autoreferenzialità» (II, n. 3) e dalla «tentazione di una spiritualità intimistica e individualistica» (NMI 52). In questo senso, siamo lieti di costatare che il cammino percorso insieme dai Carmelitani e dai Carmelitani Scalzi durante gli ultimi decenni, in un clima di collaborazione, conoscenza reciproca e fraterna comunione spirituale, è diventato un segno e un appello molto positivo in questo senso.
            Anche la comunione ha le sue maschere. La più insidiosa è quella della finzione, della parvenza. Nella vita delle nostre case essa prende forma quando, come direbbe Zygmunt Bauman, ci accontentiamo di vivere «individualmente, insieme»[9].
6.         Papa Francesco ci lascia un compito che a prima vista potremmo giudicare più grande delle nostre forze: «Mi attendo che “svegliate il mondo”, perché la nota che caratterizza la vita consacrata è la profezia» (II, n. 2).
            La prima condizione per «svegliare il mondo» è di non aver paura del mondo e degli uomini (cfr. Gv 16, 33; Lc 12, 4) e di volerli conoscere nei loro aspetti sia positivi sia negativi: quando il bene li fa crescere e quando il male li mortifica, quando si aprono all’incontro con Cristo e quando lo rifiutano.
            Nel modo di affrontare il mondo Teresa ha molto da insegnarci. Scrive papa Francesco al vescovo di Avila: «La sua [di Teresa] esperienza mistica non la separò dal mondo né dalle preoccupazioni della gente. […] Lei visse le difficoltà del suo tempo – tanto complicato – senza cedere alla tentazione del lamento amaro, ma piuttosto accettandole nella fede come un’opportunità per fare un passo avanti nel cammino». E conclude: «È questo il realismo teresiano, che esige opere invece di emozioni e amore invece di sogni».
            La seconda condizione per «svegliare il mondo» riguarda le nostre singole persone e le nostre comunità. Alla scuola del profeta Elia e degli antichi profeti, siamo chiamati a essere “voce” di Dio, soprattutto in quelle «periferie esistenziali», dove più grande è il bisogno che essa venga udita e accolta. Quando ciò accade, anche grazie alla nostra testimonianza, gli uomini fanno esperienza di misericordia, di perdono e di comunione vera. In questo nostro diventare “voce” di Dio, non dobbiamo mai dimenticare che Cristo è la Parola di verità (cfr. Col 1, 5) di cui gli uomini, oggi come ieri, hanno bisogno. Papa Francesco lascia a ognuno di noi una domanda non certo di circostanza: «Gesù, […] è davvero il primo e unico amore, come ci siamo prefissi quando abbiamo professato i nostri voti?» (I, n. 2). Usando le parole della nostra Regola potremmo chiederci: «Vogliamo anche oggi “vivere nell’ossequio di Gesù Cristo e a lui servire fedelmente con cuore puro e buona coscienza”(n. 2)»?
Uno sguardo al futuro  
7.         Dopo il concilio la vita consacrata è andata incontro a profondi e non sempre facili e costruttivi cambiamenti. Oggi molte famiglie religiose devono affrontare una forte diminuzione dei propri membri e un ridimensionamento delle proprie strutture (cfr. I, n. 3). Prima ancora di ogni problematica, l’anno dedicato alla vita consacrata resta un’occasione per «guardare il passato con gratitudine» (I, n. 1). «Raccontare la propria storia è indispensabile, scrive il papa, per tener viva l’identità». Guardiamo al passato non per fuggire dal presente, ma per viverlo «con passione» (I, n. 2). Come per i nostri Santi, anche per noi il criterio per valutare la verità di questa «passione» resta sempre il Vangelo. Chi vive il presente «con passione» sa anche scrutare il futuro «con speranza» (I, n. 3), perché è consapevole che in ogni tempo lo Spirito Santo è la guida e la forza della Chiesa. Le parole, che Dietrich Bonhoeffer scrisse dal carcere pochi giorni prima di essere ucciso dai nazisti, ben si addicono anche a noi: «Chi non ha un passato di cui rispondere e un futuro da plasmare è “labile”»[10].
            Se come carmelitani ci sentiamo collocati nel «cuore della Chiesa», è per sentirci ancor più in comunione con tutto il popolo cristiano, a cui noi stessi apparteniamo. Nel corso dei secoli molti cristiani, partendo dalla «loro condizione laicale», hanno scelto di «condividere ideali, spirito, missione» dei nostri Ordini, dando così vita a una autentica «famiglia carismatica» (III, n.1) carmelitana. Nei diversi contesti geografici, l’anno della vita consacrata sia per ognuno di noi occasione per aver ancor più coscienza di appartenere a questa «famiglia carismatica» e in essa, assieme, rendere lode a Dio. «L'importante – credetemi – non è nel portare o nel non portar l'abito religioso, ma nel praticare la virtù, nel sottometterci in tutto alla volontà di Dio, affinché la nostra vita scorra in conformità delle sue disposizioni, e nel non volere che si faccia la nostra, ma la sua volontà» (Terze Mansioni 2,6).
8.         Senso di appartenenza alla vita della Chiesa, gioiosa adesione al cammino della nostra vocazione, comunione fraterna che si apre all’accoglienza dell’altro: sono queste alcuni punti fondamentali su cui dovremmo compiere quella seria verifica della nostra vita religiosa a cui ci ha invitato papa Francesco. Abbiamo voluto ricordarli e sottolinearli perché la celebrazione di questo anno della vita consacrata non ci lasci indifferenti e inoperosi. Abbiamo un lavoro da compiere su noi stessi, incessantemente, ed esso è l’esatto corrispettivo del dono di grazia che abbiamo ricevuto. È solo da tale lavoro di assimilazione del nostro passato e di maturazione del nostro presente che la nostra famiglia religiosa può attendersi un futuro degno della speranza alla quale siamo stati chiamati (cf Ef 1, 18).
            Che Teresa d’Avila, la grande schiera dei santi del Carmelo lungo la sua lunga storia e, soprattutto, Maria, la stella del mare, guidino i nostri passi e ci diano la forza e il coraggio di vivere la nostra consacrazione con fedeltà, creatività e generosità...
Fernando Millán Romeral O.Carm.
Priore Generale
Saverio Cannistrà, OCD.
Preposito Generale
Roma, 12 marzo 2015
393º anniversario della canonizzazione di Santa Teresa


[1] Altre riflessioni e suggerimenti sono offerti dai due testi che la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica ha pubblicato nel corso del 2014: Rallegratevi. Lettera circolare ai consacrati e alle consacrate. Dal magistero di Papa Francesco, e Scrutate. Ai consacrati e alle consacrate in cammino sui segni di Dio.
[2] H.U von Balthasar, Vocazione, Editrice Rogate, Roma 1981, pp. 34-35 (or. ted. 1966).
[3] «Non è istantanea, superficiale, tumultuosa», «non è egoistica né autoreferenziale», «è umile e modesta», «non si raggiunge con la scorciatoia facile che evita la rinuncia», «si trova […] guardando al Crocifisso e cercando il Risorto».
[4] Quasi trent’anni dopo il suo ingresso nel monastero, Teresa scrive che la gioia nel vedersi religiosa non le era mai venuta meno (cfr. Vita, 4, 2).
[5] Anche a noi può accadere ciò che Teresa diceva di certe anime: ricevono sì delle grazie ma non sanno giovarsene. Esse sono come «la farfalla del baco che getta il seme per dar vita ad altre farfalle, ma essa muore e rimane morta per sempre». Dio, non volendo che «grazie così grandi […] siano date invano», fa in modo che almeno altri traggano giovamento da esse (cfr. Quinte Mansioni, 3, 1)
[6]«La realtà della Chiesa-Comunione è, allora, parte integrante, anzi rappresenta il contenuto centrale del “mistero”, ossia del disegno divino della salvezza dell'umanità» (Christifideles laici, 19).
[7] Cfr. La vita fraterna in comunità, n. 10
[8] «Si pensi inoltre che quest’amore non deve essere frutto di immaginazione, ma provato con opere» (Terze Mansioni 1, 7); «Ci ama tanto Iddio, che in ricompensa (que en pago) dell’amore che avremo per il prossimo, farà crescere in noi, per via di mille espedienti, anche quello che nutriamo per lui» (Quinte Mansioni, 3, 8).
[9] Z. Bauman, Individualmente insieme, Diabasis, Parma 2014.
[10] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Bompiani, Milano 1969, p. 179.

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