sabato 31 maggio 2014

La passione delle pazienze (Madeleine Delbrêl)



Perché abbiamo dimenticato che se ci son fili di lana \ tagliati netti dalle forbici, ci son fili di maglia che giorno \ per giorno si consumano sul dorso di quelli che l'indossano.
La passione, la nostra passione, sì, noi l'attendiamo.
Noi sappiamo che deve venire, e naturalmente intendiamo
viverla con una certa grandezza.
Il sacrificio di noi stessi: noi non aspettiamo altro che
ne scocchi l'ora.
Come un ceppo nel fuoco, così noi sappiamo di dover
essere consumati. Come un filo di lana tagliato
dalle forbici, così dobbiamo essere separati. Come un giovane
animale che viene sgozzato, così dobbiamo essere uccisi.
La passione, noi l'attendiamo. Noi l'attendiamo, ed essa non viene.

Vengono, invece, le pazienze.
Le pazienze, queste briciole di passione, che hanno lo
scopo di ucciderci lentamente per la tua gloria, di
ucciderci senza la nostra gloria.

Fin dal mattino esse vengono davanti a noi:
sono i nostri nervi troppo scattanti o troppo lenti,
è l'autobus che passa affollato,
il latte che trabocca, gli spazzacamini che vengono,
i bambini che imbrogliano tutto.
Sono gl'invitati che nostro marito porta in casa
e quell'amico che, proprio lui, non viene;
è il telefono che si scatena;
quelli che noi amiamo e non ci amano più;
è la voglia di tacere e il dover parlare,
è la voglia di parlare e la necessità di tacere;
è voler uscire quando si è chiusi
è rimanere in casa quando bisogna uscire;
è il marito al quale vorremmo appoggiarci
e che diventa il più fragile dei bambini;
è il disgusto della nostra parte quotidiana,
è il desiderio febbrile di quanto non ci appartiene.

Così vengono le nostro pazienze, in ranghi serrati o in
fila indiana, e dimenticano sempre di dirci che sono il martirio preparato per noi.

E noi le lasciamo passare con disprezzo, aspettando -
per dare la nostra vita - un'occasione che ne valga la pena.
Perché abbiamo dimenticato che come ci sono rami
che si distruggono col fuoco, così ci son tavole che
i passi lentamente logorano e che cadono in fine segatura.
Perché abbiamo dimenticato che se ci son fili di lana
tagliati netti dalle forbici, ci son fili di maglia che giorno
per giorno si consumano sul dorso di quelli che l'indossano.
Ogni riscatto è un martirio, ma non ogni martirio è sanguinoso:
ce ne sono di sgranati da un capo all'altro della vita.

E' la passione delle pazienze.

Madeleine Delbrêl

(tratto da Madeleine Delbrêl, Il piccolo monaco, P. Gribaudi editore, Torino, 1990)

La speranza nel mondo antico e nell'Antico Testamento


Il mondo antico conobbe la speranza nei termini in cui ora stiamo tracciandone il profilo (vedi articoli precedenti)? Mi sento di dire di no. Per prima cosa vorrei dire qualcosa sul mondo Greco. Esso fu fondamentalmente segnato dalla dimensione del Tragico (nella foto: Eschilo, tragediografo greco)
Con belle parole Salvatore Natoli – filosofo contemporaneo – osserva: “ La tragedia è qualcosa di più del semplice soffrire o della stessa esperienza della morte(…)essa è lo scontro con l’ineluttabile(…)l’essenza del tragico risiede nell’assolutezza del contrasto, essa si istituisce nella tensione fra opposte necessità… il tragico non è, però, relativo a eventi più o meno dolorosi, ma costituisce una dimensione ontologica”.
La vita dell’uomo antico conobbe certamente il piacere, la frenesia, la bellezza, l’entusiasmo, ma fu sempre sotto la spada pendente del fato, di un destino che annienta, contro il quale, l’uomo non può nulla. Egli sapeva che la sua vita è decisa dal destino, la morte era inscritta nella vicenda di ciascuno già al momento della nascita. L’elemento che maggiormente caratterizza la religiosità Greca è comunque la valorizzazione del presente.
Come attesta il grande storico delle religioni Mircea Eliade: “ la gioia di vivere scoperta dai greci non è un godimento di tipo profano, rivela la beatitudine di esistere, di partecipare alla spontaneità della vita e alla grandiosità del mondo. Come tanti altri, prima e dopo di loro, i Greci hanno appreso che il mezzo più sicuro di sfuggire al tempo è quello di sfruttare fino in fondo la ricchezza dell’attimo fuggente.”
Il nostro tempo, anche in questo, sembra riproporre un ottimismo vitale legato alla possibilità della longevità e della pienezza di ogni attimo secondo la logica del carpe diem. In questa prospettiva si inscrive l’emergere prepotente di un vero e proprio culto del presente e dell’autoaffermazione a scapito dell’altro. L’individualismo contemporaneo germina e prolifera infatti dentro la dimensione competitiva del nostro tempo. Gli uomini, la cui unica speranza, il cui unico ottimismo, si situa nella riuscita in tempi brevi dei propri progetti, necessariamente vedranno nel prossimo non un fratello, ma un potenziale avversario.
Non a caso i movimenti più aggressivi e “progressisti” che calcano la scena della politica contemporanea, insistono per affermare sempre più i diritti individuali a scapito della dimensione comunitaria. Ma torniamo alla religione greca: per i contemporanei di Omero, la morte consisteva in una forma di esistenza umbratile, larvale, priva di consistenza. Lo spirito di Achille evocato da Ulisse dichiarerà preferibile una vita da schiavo sulla terra piuttosto che una da sovrano nel regno dei morti. E fu così anche per l’uomo romano, che proprio in ragione di un bisogno insopprimibile d’eterno e perciò di senso, si lasciò sedurre dal fascino del cristianesimo. Perché l’uomo antico, come abbiamo visto appare segnato dalla sconfitta e la vita per quanto lunga muove verso un destino d’oblio e di dissoluzione. E poco consola l’idea che da tale contrasto, da tale distruzione, germinerà nuova vita; o che attraverso le virtù di una vita secondo natura-come insegnava lo stoicismo-si potesse pacificare il dissidio che era in ciascuno. Sul fondo di queste concezioni è presente un’idea pessimistica dell’esistenza, vinta e in qualche modo occultata dalla forte carica comunitaria e religiosa, densa di simbolismi e riti che rendeva il quotidiano accettabile e dotato di senso.
Questa dimensione è -tra l’altro- esattamente ciò che manca nel modo più assoluto alla civiltà occidentale secolarizzata. Ma il mondo greco ad un certo punto incontrò un’altra tradizione L’Ebraico-Cristiana. Osserva ancora George Weigel, nel suo bel libro “La cattedrale e il Cubo: “Nel mondo classico, così come nel mondo pagano del Mediterraneo orientale abitato da ebrei, come ricordato nella bibbia ebraica, gli dei o il Fato giocavano con uomini e donne, spesso con conseguenze letali; si ricordi per esempio l’interferenza degli dei nelle vicende umane dell’’Iliade e dell’ Odissea(…)L’apparizione nella storia di un Dio unico chè non era né un tiranno ostinato né un’astrazione lontana, fu percepita come una grande liberazione(…)La storia non era infatti un palcoscenico in cui gli esseri umani erano manovrati dagli dei e dalle divinità come burattini; la storia era piuttosto un’arena di responsabilità e di propositi.”
E’ a questo livello che può emergere la speranza, cioè nel momento in cui l’uomo può sentirsi protagonista di un destino, seppur legandosi liberamente in un rapporto con Dio che, come vedremo, diviene sorgente di libertà vera e di fondata speranza. E’ a partire da questa idea di vita e di storia che prenderà corpo dentro la teologia cristiana il coraggio di pensare l’intera vicenda umana come espressione di un piano divino carico di attenzione verso l’uomo e perciò portatore di una speranza che vince ogni timore.
La speranza nell’antico testamento.
 A differenza degli altri popoli il popolo di Israele ha preso forma ed ha vissuto con una costante apertura verso il futuro. Esso ha sperimentato la speranza come elemento costitutivo della propria storia. Rispetto a tutti gli altri popoli il popolo ebraico ha concepito il tempo non più secondo una prospettiva circolare, bensì lineare. Il tempo per il pio israelita ha avuto un inizio e muove verso una fine, che ne realizza il senso e la pienezza. Eppure anche la storia del popolo ebraico mosse da un singolo interpellato, chiamato ad una nuova vita da Dio stesso. La vicenda di Abramo, in tal senso, fonda il cammino di Israele. Dio conosce, promette, provoca una speranza. Essa, per il padre della fede ebraica è individuata nella possibilità di una discendenza. In tal modo la vita del singolo appare riscattata dal pericolo dell’oblio. Abramo infatti non conosce e perciò non crede nella vita eterna.
 Egli però crede nella promessa di Dio a tal punto da essere disposto a sacrificare la cosa che più ama, il figlio Isacco. Abramo credette contro ogni speranza, nella disperazione più nera; nel silenzio stesso di Dio egli ebbe il coraggio di dire sì, di rispondere ancora alla chiamata. Perciò la sua speranza non fu tradita. Emerge in tal modo con chiarezza un primo vincolo, quello che lega strettamente speranza e fede. La speranza di Abramo assume nella tradizione ebraica il volto di un’ attesa storica, di un riscatto del mondo dalla malasorte, grazie all’intervento di Dio, un Dio che non è più numen locale ma personale. Vorrei soffermarmi con una certa attenzione sull’episodio che forse più di ogni altro rivela la speranza del credente Ebreo: la storia di Isacco. Tutti sappiamo come Abramo visse e sperò. Egli, udita la voce di un Dio personale, lasciò le certezze del suo mondo, della sua città, dei rassicuranti riti offerti alle divinità caldee e si mise in viaggio. La speranza di avere un figlio si realizzò per lui quando sua moglie Sara era oramai vecchia.
Quel figlio crebbe e quando fu forte, un ragazzo nel cui sguardo Abramo poteva ora riconoscere se stesso, Dio gli comandò di salire sul monte Moira, per offrire un sacrificio. Mentre saliva sul monte certamente Isacco fu consapevole che mancava l’oggetto del sacrificio; si inquietò, non comprese, forse ebbe paura, ma si fidò di suo padre. E quando lo interpellò con la domanda che oramai in lui urge incessantemente, ricevette dal padre questa risposta: “ Dio provvederà…”( Gn.22,8). L’ansia, nel cuore di Isacco crebbe mentre lo spettro della disperazione si faceva strada nella granitica fede di suo padre. Giunti sul monte, con gesti lenti ed esperti prepararono l’altare, insieme; poi, credo, Isacco si dispose sul’ara e porse le mani e le caviglie al padre perché le legasse. Fra i due non ci furono parole, non credo, tutto accadde come si stesse svolgendo un tragico copione, come se l’antico e pagano Fato fosse riapparso a riscuotere il conto, e la colpa accumulata da quel temerario vecchio e dal suo sciagurato figlio. Ma quando il coltello si alzò e tutto sembrò perduto -il tempo, la promessa, l’attesa, il senso della nascita, della vita- Abramo ed Isacco simultaneamente videro un montone impigliato con le corna nella sterpaglia.
Osserva il nostro Papa BenedettoXVI: “Tutto il culto proviene da questo sguardo di Isacco, da ciò che egli ha visto in quel punto(…) In questo attimo è diventato evidente che la storia universale non è una tragedia, non è un irrisolvibile dramma di potenze in lotta tra loro, ma divina commedia: colui che aveva gettato uno sguardo sulla realtà ultima -la morte- poteva ridere.”
Se ci pensiamo, Isacco conosce sino in fondo il patire; ma in questo caso, il dolore ed ogni sofferenza, a ben vedere, non coincidono con l’attimo della morte, bensì con tutto ciò che precede questo istante. Isacco conobbe tutta l’angoscia e il non senso che precede la morte; in più, egli conobbe l’apparente abbandono di Dio. Egli, salendo al monte, ebbe modo di maturare la disperazione, di sentirla crescere dentro. Ma nell’attimo del morire per mano di chi gli aveva dato la vita, egli vide il montone e tutta la sua sofferenza assunse un valore: Dio provvede. Lasciamo, per ora, questa straordinaria storia per riprenderla fra un po’ ed assaporarne così il gusto pieno. Per fare questo dovremo però attendere la definitiva rivelazione, quella di Cristo. Torniamo, per ora alla speranza di Israele. Attraverso la storia di Abramo, dunque, si affaccia nel cuore dell’ebraismo la speranza; ma essa si precisa ulteriormente con la vicenda storica di Mosè. Anche lui fu provato, ma nonostante le molteplici prove egli si erse davanti al suo popolo come il liberatore. Con lui nella coscienza di Israele maturò l’idea di un Dio liberatore, di un Dio vincitore, di un Dio legislatore. Mosè sperò: quando mosso da pietà nei confronti del proprio popolo oppresso dal faraone cercò di liberarlo. Ma egli fallì, perché non comprese che solo affidandosi a Dio lo sforzo umano non risulta vano. Ci volle l’esperienza del deserto e l’abbandono della propria presunzione e la spogliazione di sé, perché, dopo l’epifania del roveto ardente, Mosè diventasse il condottiero, il “liberatore”.
 Ma Mosè non entrò nella terra promessa; egli però insegnò al suo popolo come si può vedere Dio: “Seguire Dio, dovunque Egli ci porta, proprio questo significa vedere Dio”( Gregorio di Nissa.). L’esperienza di Abramo si ripropone dunque con Mosè; il seguire Dio, con lui però si connota di una nuova dimensione: quella morale. Questo significa che l’agire per conseguire la pienezza del bene cui ciascuno aspira, non può fare a meno del dono della legge di Dio. In tal senso la legge morale espressa nelle tavole che Dio consegna a Mosè, appare come fonte unica di liberazione, come la sola e vera via che affranchi l’uomo da ogni presunzione di autosufficienza. La legge morale appare dunque come l’insopprimibile base sulla quale scommettere la vita dentro una prospettiva di fondata speranza.
Ma la storia di Israele è storia di tradimenti. Ben presto, il regno di Dio assunse una valenza politica, troppo umana, poco attenta alla reale volontà del creatore, inoltre il primato della morale finì per moltiplicare la dimensione precettistica che pesò sempre più sulle spalle dei fedeli. Contro questo modo di concepire l’Alleanza con Dio, un modo che sembra volere possedere il futuro attraverso una costruzione umana, reagì la critica profetica. Il profetismo biblico sviluppò l’attesa messianica su una linea di profonda interiorizzazione dei valori. In tal senso l’uomo appare come la causa del male e questo per la sua incapacità di corrispondere al volere di Dio, al suo appello. L’esilio è letto dai profeti come il castigo attraverso il quale Dio converte, purifica, rende sapiente il popolo, che attende un’azione futura di Dio capace di liberarlo dai propri idoli.
Con la letteratura del tardo giudaismo e con la letteratura Apocalittica emergono due nuovi elementi. Si intravvede, come radice della speranza, in primis, la possibilità della resurrezione, ovvero di un Dio che vince la morte, ripianando le ingiustizie e dando a ciascuno la propria mercede. Il libro dei Maccabei si caratterizza in particolare per questo annuncio, in un conteso globale in cui molti movimenti messianici avevano conosciuto l’onta della disfatta. Secondariamente emerge la convinzione che l’intera vicenda umana riveli progressivamente il piano salvifico di Dio, anzi che la storia sia proprio una storia di salvezza e perciò meritevole di speranza totale. E’ questo il senso della letteratura apocalittica ossia della rivelazione di ciò che era nascosto.

Un angelo in prigione


L’incredibile storia di madre Atonia Brenner, fondatrice dio un ordine religioso dopo due divorzi e sette figli, passata dal lusso di Beverly Hils a servire il Signore fra i detenuti violenti del Messico
 di Andrea Galli
L’ album dei fondatori è pieno di storie sorprendenti e improbabili. Quella di madre Antonia Brenner, che si è spenta lo scorso 17 ottobre a 86 anni, è certamente una di queste: ha fondato una famiglia religiosa, le Serve eudiste dell’undicesima ora, dopo metà della vita trascorsa in uno degli angoli più esclusivi d’America, Beverly Hills, e l’altra metà all’interno di una delle prigioni più violente del Messico, a Tijuana, avendo alle salle non uno ma due divorzi, e con sette figli ancora in vita. Una di quelle storie le ricordano come Dio sa trarre il bene più grande anche dai fallimenti esistenziali e di come le sue vie sono veramente infinite.
Mary Clarke, questo il suo nome di battesimo, era nata a Los Angeles il 1 dicembre del 1926, la seconda di tre figli. Aveva perso la madre all’età di tre anni ed era cresciuta legatissima al padre Joseph, figlio di immigrati irlandesi, un tipo di grande fede con un’altrettanta grande voglia di uscire  dal cono d’ombra della povertà: dopo aver superato la Grande Depressione stringendo i denti, si era arricchito durante la guerra come fornitore di materiale da ufficio per l’esercito. Mary era cresciuta nella cittadina residenziale di Beverly Hills, fra il Jet set di Los Angeles, si era innamorata diciottenne di un amico del fratello maggiore e a diciannove anni si era sposata.Il suo primo figlio era morto durante il parto, un’esperienza che l’aveva traumatizza ma le aveva fatto scoprire la consolazione della preghiera. Erano seguiti altri due figli, ma dopo soli tre anni si era separata: il desiderio di arricchirsi aveva portato il marito Ray a ricorrere alla scorciatoia del gioco d’azzardo, con debiti crescenti e la distruzione della pace domestica. Mary aveva cercato di tenere in piedi il rapporto, ma alla fine era stato Ray a voler togliere gli ormeggi. Desiderosa di dare comunque una figura paterna ai propri figli, nel 1950 si era risposata con un giovane uomo d’affari, Cari Brenner.
L’unione fu feconda per quando riguarda la prole, con cinque figli, molto meno nell’intesa coniugale. Il rapporto si raffreddò nel tempo, lui sempre più preso dal lavoro, dalla vita sociale nei golf club, lei alle prese con sette figli da allevare e la ditta che aveva ereditato dal padre. Intanto Mary sentì un richiamo sempre più forte e intimo: quello della carità. Aveva sempre portato con sé l’anelito ad alleviare le sofferenze altrui, una generosità che le aveva instillato il padre, ma che nel tempo era diventata una vera e propria urgenza. Ad aiutarla ad affrontare quegli anni fu un sacerdote di Los Angeles, Anthony Brouwers, impegnato in diverse attività missionarie: capì la sua “stoffa” spirituale, così come la sua difficile situazione familiare e la convinse a vivere quest’ultima con fede, confidando nei disegni di Dio.
Dal fallimento alla chiamata
Mary iniziò a spostare le sue energie dalla ditta, che finì per vendere, al supporto alle attività della “Caritas” locali. Il suo garage divenne un centro di smistamento di vestiti, medicinali, abiti raccolti da ogni dove e distribuiti ai più bisognosi. Fin che un giorno, nel 1965, ricevette una telefonata che fu il germe della sua seconda vita. Un altro sacerdote californiano, venuto a sapere del suo impegno per i poveri, le chiese di unirsi a lui in uno dei suoi periodici viaggi poco al di là del confine con il Messico, a Tijuana, per portare aiuti alla popolazione e soprattutto ai carcerati di quello che era il penitenziario più caldo del Paese, La Mesa.
Tijuana era già avviata a diventare lo snodo del traffico di droga dall’America latina agli Stati Uniti, terminale di ogni tipo di attività illecita e luogo di incontro/scontro tra i vari cartelli criminali. Mary, che non parlava una parola di spagnolo, che con i suoi occhi azzurri, la pelle cerulea e il suo bon ton da “californiana bene” sembrava un’aliena in quel girone infernale, si sentì invece misteriosamente attratta da quel posto. Quando anche il suo secondo matrimonio finì – Carl si risposò – e quando i figli si resero autonomi, nel dolore e nello smarrimento capì che avrebbe voluto consacrare il resto della vita a Dio e al prossimo.
La scelta era sicura, l’obiettivo pure, ma la via molto meno: pensare che una congregazione religiosa potesse accogliere una cinquantenne con due divorzi alle spalle era una pia illusione. Pensò quindi di andare avanti da sola. Nel 1977 si recò in chiesa e fece una promessa di castità e servizio. Confezionò un velo da suora, se lo mise in testa e pochi mesi dopo bussò alla porta del carcere chiedendo di poter dare un aiuto, ma a tempo pieno: chiese di poter vivere proprio accanto ai detenuti, non solo di visitarli.
Con il Rosario fra i narcotrafficanti
La Mesa, come altre prigioni messicane, era organizzata come una piccola città murata: al centro una specie di piazza/mercato, con chioschi e negozietti, attorno la parte delle celle, con i boss che disponevano di appartamenti accessoriati e i poveracci stipati in stanzoni sudici. Le guardie vigilavano a distanza su una comunità che per gli affari correnti in pratica si autogestiva (per capire la scena può essere di aiuto un film del 2012 con Mei Gibson, Viaggio in Paradiso). Madre Antonia, questo il nome che Mary scelse in onore del suo antico mentore Anthony Brouwers, ottenne un angolino di pochi metri quadrati dove dormire, con una doccia senz’acqua calda, e da lì iniziò la sua missione.
All’esterno organizzò una casa per ospitare i familiari dei detenuti che venivano a far loro visita da ogni angolo del Paese, e dove potevano soggiornare coloro che una volta scontata la pena non sapevano dove andare. A La Mesa iniziò invece ad aggirarsi raccogliendo sfoghi e bisogni, e cercando di aiutare i più deboli: chi a livello legale, chi con qualche somma di denaro per la famiglia, chi con una visita da qualche buon medico o dentista, battendosi nel frattempo per il miglioramento delle condizioni carcerarie. Anche cercando di fermare i frequenti abusi: quando vedeva un agente umiliare un detenuto, lo apostrofava con il dito puntato: “Non dimenticare che è Cristo che hai fra le mani”.
Abbracciava tutti ricordando loro che erano figli amati dal Padre, regalava rosari e Vangeli e invitava a pregare. Diventò insomma I’ “Angelo della prigione”. Ai suoi figli e agli amici che negli Stati Uniti le chiedevano se non fosse impazzita, rispondeva: «II carcere mi ha liberato», e ripeteva una sua massima: «II bene è come un boomerang: quello che fai per gli altri ritorna sempre indietro». Si guadagnò il rispetto di assassini e capi mafia – fu lei a placare una delle più violente rivolte nella storia di La Mesa – che non ave va paura di guardare in faccia, dicendo loro che sarebbe arrivato il giudizio di Dio e chi dovevano pentirsi.
Non è mai troppo tardi per amare Dio
II suo impegno alla fine fu riconosciuto anche dalla Chiesa. Nel 1991 fu il vescovo e San Diego, Leo Maher, a dirle che avrebbe dovuto dar vita a una famiglia religiosa. Nel 1997 ebbe il consenso della diocesi di Tijuana e nel 2003 il vescovo Rafael Romo Munoz riconobbe le Serve eudiste dell’undicesima ora, un istituto ispirato carisma del francese san Giovanni Eude (1601 -1680) e rivolto a donne tra i 45 e i 65 anni chiamate a una vita di consacrazione dopo quella matrimoniale, perché vedove o divorziate. Donne chiamate in extremis ovvero dopo quell’”ora decima” a cui a venne la chiamata degli apostoli Andrea Giovanni secondo il Vangelo.
Oggi le suore sono una trentina, divise tra Messico Stati Uniti, a Tijuana hanno la casa madre dove tutte si ritrovano una volta all’anno per il rinnovo dei voti (non fanno voti perpetui). Non sono molte anche perché, vista l’età media avanzata, diverse religiose sono già morte. Ma, come ci dice al telefono suor Lillian Manning, che dirige il le centro a Lockhart, in Texas – anche lei con un sofferto divorzio alle spalle e cinque figli – sono attive e fiere di ricordare a chi porta nel cuore l’amore per i poveri, per i carcerati, per gli ammalati, per gli ultimi per i tutti i figli di Dio che sono abbandonati, che non è mai troppo tardi per servire il Signore».
Fonte: Il Timone n.130 febbraio 2014

Eulero: un gigante della matematica e della scienza parla di Dio, angeli e demoni


Ho già avuto modo di raccontare un dato di fatto incontrovertibile, per quanto poco conosciuto: i migliori matematici, così come i migliori scienziati, sono, nella stragran parte dei casi, uomini religiosi. Più religiosi, se si potesse fare una statistica, dei letterati o dei poeti. Perché, adattando Alexis Carrel, tanta osservazione e un po’ di ragionamento, portano a Dio, mentre molto ragionamento e poca vita, poca esperienza, poca realtà conducono, spesso, all’ideologia e allo scetticismo. Ebbene, tra questi giganti di cui si legge che fosse un uomo di fede vi è lo svizzero Leonardo Eulero, il cui nome è sempre affiancato a quello dei più grandi matematici di sempre: Archimede, Newton e Gauss. Gli esperti dicono che è stato “il più prolifico matematico della storia”, mentreRonaldCalinger riassume così i suoi meriti: “Nel cuore della sua ricerca si trovano l’Analisi infinitesimale, o Calcolo differenziale, e la Meccanica razionale. Insieme alla meccanica celeste, le fece diventare la scienza par excellence del XVIII secolo. Fu il principale creatore dal Calcolo delle variazioni e delle equazioni differenziali, ed un precursore della Geometria differenziale delle superfici. In Meccanica, Euler, non Newton, formulò la maggior parte delle equazioni differenziali…permise di trasformare la meccanica e l’astronomia in moderne scienze esatte, basate sul calcolo infinitesimale” Inoltre “fondò la meccanica dei continui, promosse la balistica, la cartografia, la diottrica, la teoria dell’elasticità, l’idraulica, l’idrodinamica, la teoria della musica, la teoria dei numeri, l’ottica e la teoria delle navi…”.
Per quanto riguarda gli interessi di questa rubrica, Eulero era anche un conoscitore degli studi classici, greci e latini, e un assiduo lettore delle Sacre Scritture. La sua epoca è il Settecento, il secolo dei lumi, in cui la potenza della ragione umana viene sovente esaltata non come dono di Dio, ma come motivo di orgoglio e sfida dell’uomo al cielo. Ebbene Eulero, sia alla corte di Caterina di Russia sia presso Federico II, a Berlino, non si esime dallo schierarsi contro lo spirito del suo tempo. A costo di scontrarsi con Voltaire, Diderot, D’Alambert e altri enciclopedisti che si autoproclamano portatori e interpreti del verbo della scienza. E’ il traduttore inglese delle Lettere ad una principessa tedesca di Eulero, Henry Hunter, a notare, nella prefazione, che le opere di Rousseau e di Voltaire sono nelle mani di tutti, mentre i pensieri filosofici e religiosi di una vera autorità scientifica come Eulero sono ai più sconosciuti.
Come sconosciuto ed ancora oggi introvabile, se non in archivio, è il suo trattato tradotto e stampato in Italia, a Pavia, nel 1777, intitolato: Saggio di una difesa della divina Rivelazione. Ebbene, in questo saggio, breve ma denso, Eulero sostiene che “la perfezione dell’intelletto consiste nella cognizione della Verità, donde la concezione del Bene immediatamente deriva”: “i principali oggetti di tal cognizione sono Dio e le sue Opere, giacché tutte le altre verità a cui l’uomo mercé la sua riflessione può giungere si riducono per ultimo a Dio e alle Opere della sua Onnipotenza. Dio è la Verità, e il mondo è l’Opera delle sue infinita Onnipotenza e Sapienza”.
Poi Eulero accenna alla “Legge Naturale, per cui col lume della Natura i doveri delle nostre azioni si definiscono” e che “con tutta ragione viene nominata Legge Divina, perché Dio medesimo l’ha impressa, per così dire, nel cuore degli Uomini”. E’ la trasgressione di questa legge che porta all’infelicità: “Niente è dunque veramente capace di rendere veramente felice un uomo, fuorché primieramente una sufficiente cognizione di Dio, delle sue Opere, ma secondariamente una perfetta soggezione della propria Volontà alla Divina Volontà”; soggezione non facile, vista la corruzione insita nell’uomo a causa del peccato originale.
Nel trattato Eulero sostiene l’esistenza di spiriti intelligenti e razionali, gli Angeli e i Demoni; difende le Sacre Scritture come testi della cui “origine divina non possiamo dubitare”; argomenta a favore della possibilità dei miracoli, e in particolare della Resurrezione di Cristo. Quanto alla ragione umana essa è considerata limitata, e per questo bisognosa della Rivelazione: “Conviene inoltre riflettere che nelle Sacre Scritture quelle cose soltanto sono rivelate, le quali o non mai o molto difficilmente si sarebbero potute colla nuda ragione di scoprire…”. La conclusione di Eulero è dura: si scaglia contro la “fazione de’ libertini e dileggiatori della Rivelazione”, che con le loro argomentazioni fallaci cercano di sedurre il prossimo.
Questo saggio costò a Eulero critiche e una certa impopolarità presso alcuni potenti dell’epoca; ma i biografi concordano nel definirlo un uomo alieno dalla cortigianeria e dall’ambizione e segnato da una “totale mancanza di meschino orgoglio”. E’ in questa umiltà, invero, che si trova la radice della sua fede in Dio. Umiltà che mancava, negli stessi anni, a tante intelligenze scettiche, certamente inferiori alla sua; umiltà che distingue il sapiente, dall’intellettuale.
Il Foglio, 29 maggio 2014

Commento su Lc 1,49 «Grandi cose ha fatto per me l'Onnipotente e Santo è il suo nome»



Come vivere questa Parola?

Concludendo il mese di maggio, la Chiesa ci propone la festa della mariana della Visitazione. È l'incontro commovente tra due madri, piene di gioia e di fede, che cantano le meraviglie di Dio nella loro vita e in quella del suo popolo. Dio è fedele alle sue promesse e porta la salvezza all'umanità tramite la collaborazione della donna. Maria ha ricevuto dall'angelo l'annuncio che diventerà Madre del Messia,. Elisabetta, madre del Precursore Giovanni Battista, è già al sesto mese.

Maria si è messa completamente a disposizione di Dio, e diventa strumento del suo amore e della sua grandezza. Ricolmata dallo Spirito e piena di grazia, eleva il suo canto a Dio di lode a Dio, ne riconosce gli interventi nella storia (esalta gli umili, abbassa i potenti, ricolma di beni gli affamati, soccorre Israele suo servo...).

Anche per ciascuno di noi, Dio ha grandi progetti: chiede la nostra fede, umiltà e disponibilità per realizzare il suo piano, renderci felici e darci la possibilità di aiutare gli altri, sull'esempio di Maria, perfetta discepola di Cristo.
O Maria, madre di Dio, aiutaci a dire ogni giorno il nostro "sì" a Dio, a vivere alla Sua presenza e a renderci docili strumenti della Sua volontà d'amore e di gioia.
La voce di un Padre della Chiesa

«Sia in ciascuno l'anima di Maria per magnificare il Signore; sia in ciascuno lo spirito di Maria per esultare in Dio. Se c'è una sola madre di Cristo secondo la carne, secondo la fede, invece, Cristo è il frutto di tutti, poiché ogni anima riceve il Verbo di Dio. (..) L'anima che compie opere giuste e pie magnifica l'immagine di Dio a somiglianza della quale è stata creata, e mentre la magnifica, partecipa in certo modo alla sua grandezza e si eleva».

S. AMBROGIO, «Commento al Vangelo di Luca», 2

Commento su Sofonia 3,16-17



Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia.
Sof 3,16-17

Come vivere questa Parola?

Un grido di gioia che rischiamo di non lasciar risuonare adeguatamente in noi. Eppure quel: "Non temere, non lasciarti cadere le braccia", oggi, più che allora, ha un fondamento ben saldo. Non si tratta della predizione di un profeta che annuncia il termine di oppressioni e violenze, ma della convalidata certezza di una presenza di amore che non verrà mai meno.

Elisabetta l'ha riconosciuta nel grembo gravido di Maria. Per noi c'è la conferma della parola di Gesù: "Sarò con voi tutti i giorni fino alla fine dei tempi!". E da allora, nel più umile tabernacolo, Egli è silenziosamente presente, come è presente nella sua Parola, nel fratello, in me.

No, non è stanco di stare con i figli dell'uomo!

Questo vale non solo a livello ecclesiale o riguardo all'umanità presa genericamente e globalmente, ma per me, per te, per ogni uomo che si dibatte alla presa con le difficoltà del vivere. Dio è in te un Salvatore potente! Non c'è motivo di abbattersi, di temere. Egli può rinnovarti con il suo amore. Di più: egli gioisce esulta per te!

Maria, vera e novella Arca dell'Alleanza, viene a visitarci nelle nostre fragilità e difficoltà, recandoci il frutto stupendo del suo grembo. Viene, perché la tristezza sia bandita dai cuori, viene perché è madre e non solo di Colui che custodisce in sé, ma di ogni figlio generato sotto la croce.

Fermerò, quest'oggi, il mio sguardo contemplativo su Maria che viene in casa mia perché in me, come in Elisabetta esploda la gioia.

Vieni, o Madre, a dimorare nella mia casa. Vieni con il tuo dolce segreto: pegno di una amore che mi precede e mi accompagna, rendendo luminosi i miei giorni.

La voce di una carmelitana

Se vogliamo cogliere il Fiore benedetto dobbiamo arrivare al ramo che Lo porta, che è il seno verginale di Maria.
Madre Maria Candida dell'Eucaristia

LECTIO DIVINA: VISITAZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

 

1) PREGHIERA

Dio onnipotente ed eterno, che nel tuo disegno di amore
hai ispirato alla beata Vergine Maria,
che portava in grembo il tuo Figlio, di visitare sant'Elisabetta,
concedi a noi di essere docili all'azione del tuo Spirito,
per magnificare con Maria il tuo santo nome.
Per il nostro Signore Gesù...

2) LETTURA DEL VANGELO

Dal Vangelo secondo Luca 1,39-56
In quei giorni, Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta.
Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore”.
Allora Maria disse:
“L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome:
di generazione in generazione la sua misericordia
si stende su quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato a mani vuote i ricchi.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza,
per sempre”.
Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

3) RIFLESSIONE

• Oggi è la festa della visitazione della Vergine, e il vangelo narra la visita di Maria a sua cugina Elisabetta. Quando Luca parla di Maria, pensa alle comunità del suo tempo che vivevano sparse nelle città dell’Impero Romano ed offre loro in Maria un modello di come devono rapportarsi alla Parola di Dio. Una volta, udendo Gesù parlare di Dio, una donna del popolo esclamò: "Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte” elogiando la madre di Gesù. Immediatamente, Gesù rispose: "Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano" (Lc 11,27-28). Maria è il modello della comunità fedele che sa vivere e praticare la Parola di Dio. Nel descrivere la visita di Maria a Elisabetta, lui insegna come devono agire le comunità per trasformare la visita di Dio in servizio ai fratelli e alle sorelle.
• L’episodio della visita di Maria ad Elisabetta mostra ancora un altro aspetto tipico di Luca. Tutte le parole e gli atteggiamenti, soprattutto il cantico di Maria, formano una grande celebrazione di lode. Sembra una descrizione di una liturgia solenne. Così, Luca, evoca l’ambiente liturgico e celebrativo, in cui Gesù si formò ed in cui le comunità devono vivere la propria fede.
• Luca 1,39-40: Maria va a visitare sua cugina Elisabetta. Luca mette l’accento sulla prontezza di Maria nel rispondere alle esigenze della Parola di Dio. L’angelo le parlò della gravidanza di Elisabetta e Maria, immediatamente, si alza per verificare ciò che l’angelo le aveva annunciato, ed esce di casa per aiutare una persona nel bisogno. Da Nazaret fino alle montagne di Giuda ci sono più di 100 km! Non c’erano pullman, né treni!
• Luca 1,41-44: Il saluto di Elisabetta. Elisabetta rappresenta l’Antico Testamento che termina. Maria, il Nuovo che inizia. L’Antico Testamento accoglie il Nuovo con gratitudine e fiducia, riconoscendo in esso il dono gratuito di Dio che viene a realizzare e completare qualsiasi aspettativa della gente. Nell’incontro delle due donne si manifesta il dono dello Spirito che fa che la creatura salti di gioia nel seno di Elisabetta. La Buona Novella di Dio rivela la sua presenza in una delle cose più comuni della vita umana: due donne di casa che si scambiano la visita per aiutarsi. Visita, gioia, gravidanza, bambini, aiuto reciproco, casa, famiglia: Luca vuol far capire e far scoprire alle comunità (e a noi tutti) la presenza del Regno. Le parole di Elisabetta, fino ad oggi, fanno parte del salmo più conosciuto e più recitato in tutto il mondo, che è l’Ave Maria.
• Luca 1,45: L’elogio che Elisabetta fa a Maria"Beata colei che ha creduto, nell’adempimento delle parole del Signore". E’ l’avviso di Luca alle Comunità: credere nella Parola di Dio, poiché ha la forza di realizzare ciò che ci dice. E’ Parola creatrice. Genera una nuova vita nel seno di una vergine, nel seno della gente povera ed abbandonata che l’accoglie con fede.
• Luca 1,46-56: Il cantico di Maria. Molto probabilmente, questo cantico, era già conosciuto e cantato nelle comunità. Lei insegna come deve essere pregato e cantato. Luca 1,46-50: Maria inizia proclamando il cambiamento avvenuto nella sua vita sotto lo sguardo amorevole di Dio, pieno di misericordia. Per questo, canta felice: "Esulto di gioia in Dio, mio Salvatore”Luca 1,51-53: canta la fedeltà di Dio verso il suo popolo e proclama il mutamento che il braccio di Yavé sta producendo a favore dei poveri e degli affamati. L’espressione "braccio di Dio" ricorda la liberazione dell’Esodo. E’ questa forza salvatrice di Dio ciò che dà vita al mutamento: disperde gli orgogliosi (1,51), rovescia dai troni i potenti ed innalza gli umili (1,52), rimanda a mani vuote i ricchi e ricolma di beni gli affamati (1,53).Luca 1,54-55: Alla fine, lei ricorda che tutto ciò è espressione della misericordia di Dio verso il suo popolo ed espressione della sua fedeltà alle promesse fatte a Abramo. La Buona Novella non è una risposta all’osservanza della Legge, ma espressione della bontà e della fedeltà di Dio alle promesse fatte. E’ ciò che Paolo insegnava nelle lettere ai Galati e ai Romani.
Il secondo libro di Samuele racconta la storia dell’Arca dell’Alleanza. Davide volle metterla a casa sua, ma si impaurì e disse: "Come potrà venire da me l’Arca del Signore?" (2 Sam 6,9) Davide ordinò così che l’Arca fosse messa nella casa di Obed-Edom. "E l’Arca del Signore rimase tre mesi in casa de Obed-Edom, e il Signore benedisse Obed-Edom e tutta la casa" (2 Sam 6,11). Maria, in attesa di Gesù, è come l’Arca dell’Alleanza che, nell’Antico Testamento, visitava le case delle persone portando benefici. Lei si reca a casa di Elisabetta e vi rimane tre mesi. E mentre si trova in casa di Elisabetta, tutta la famiglia è benedetta da Dio. La comunità deve essere come la Nuova Arca dell’Alleanza. Visitando la casa delle persone, deve portare benefici e la grazia di Dio alla gente.

4) PER UN CONFRONTO PERSONALE

• Cosa ci impedisce di scoprire e di vivere la gioia della presenza di Dio nella nostra vita?
• Dove e come la gioia della presenza di Dio avviene oggi nella mia vita e in quella della comunità?

5) PREGHIERA FINALE

Benedici il Signore, anima mia,
quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tanti suoi benefici. (Sal 102)

venerdì 30 maggio 2014

Croce generante - don Luciano Sanvito



LA CROCE GENERANTE

Alla luce della Pasqua, ecco la croce che genera vita, che affidata allo Spirito diventa occasione generante, quasi a mo' della donna che nel parto soffre, ma per dare alla luce e alla gioia il frutto del suo seno.

La gioia della generazione, attraverso la storia, avviene nella croce, ma questa è illuminata e rincuorata dallo Spirito Santo.
In Lui tutte le croci e le sofferenze della storia vengono trasformate in grazia e in gioia ineliminabile.

Lo Spirito Santo fa ritornare Gesù vincente in tutte le nostre croci.

La croce generante è l'occasione per rallegrare il mondo, per vivere e offrire quella gioia che nessuno potrà più togliere.

Perché ci sia questa forza generante nelle nostre croci occorre questo atto di affidamento nello Spirito, questa fede che passa proprio dalla coscienza di vedere Gesù vicino e accanto ad ogni croce dell'umanità.

Ogni pianto nella fede è occasione della speranza e della gioia, perché si apre all'azione dello Spirito.

NIENTE CI TOGLIERÀ LA GIOIA., PERCHÉ E' DI DIO, NON NOSTRA.

Commento su Atti 18,9-10 Non aver paura; continua a parlare e non tacere, perché io sono con te




Come vivere questa Parola?

Paolo è reduce da un'esperienza alquanto amara, come il fallimento ad Atene, e il suo predicare non è certo accompagnato da un plauso corale: proprio il suo parlare gli ha già procurato e gli procurerà ostilità, battiture, prigione e morte. L'invito a non aver paura e a continuare a portare l'annuncio del vangelo cade quindi su un terreno già arato dalla prova: come non avere paura quando si conosce il prezzo del proprio zelante spendersi per la Parola? Vi corrispondesse almeno un'adesione piena! Tutt'altro! Proprio i suoi correligionari si mostrano particolarmente ostili e chiusi.

Ma l'invito di Cristo non si esaurisce qui. È proprio ciò che segue ad infondere coraggio e a rilanciare senza paure: "Io sono con te!".

Un impegno divino che diviene certezza nel cuore del credente, di ogni credente. L'espressione, infatti, ricalca esattamente la promessa già fatta ai discepoli prima dell'ascensione, quindi rivolta non solo a Paolo, ma a tutti, anche a me, a te.

La testimonianza, a cui sta richiamandoci con forza anche il nostro Papa, una testimonianza di vita che è già di per sé annuncio, ha il suo prezzo, ed è facile provare la tentazione di rintanarsi coniglisticamente in una fede che si esaurisce tutta nel privato: una fede da sacrestia che disdice il vangelo. Gesù lo si ritrova nel tempio, nella sinagoga, ma solo in determinati momenti: il resto della sua vita si snoda sul ritmo dei passi che lo portano a incontrare gli altri là dove vivono: entra nelle loro case, percorre le loro strade, si china su ogni dolore, parla con il gesto l'attenzione la parola, ovunque.

E anche per lui, tutto ciò ha un prezzo, di fronte al quale non si ritrae, neppure quando assume la sagoma della croce.

Egli attingeva la forza dalla costante presenza e unione con il Padre, a noi lascia la certezza della sua costante presenza e l'invito a rimanere uniti a lui come i tralci alla vita. Allora anche per noi è possibile slanciarci nell'avventura di un annuncio che sarà gioia per noi e per i fratelli, segnando quella ripresa tanto auspicata ai nostri giorni.

"Io sono con te!" mi vai ripetendo nel cuore, Signore. Questa tua parola mi infonda il coraggio di camminare con il capo alto, professando gioiosamente di averti incontrato.

La voce del papa emerito

Abbi il coraggio di osare con Dio! Provaci! Non avere paura di Lui. Abbi il coraggio di rischiare con la fede! Abbi il coraggio di rischiare con la bontà! Abbi il coraggio di rischiare con il cuore puro!
Compromettiti con Dio, e vedrai che la tua vita diventa ampia e illuminata, non noiosa, ma piena di infinite sorprese, perché la bontà infinita di Dio non si esaurisce mai!
Benedetto XVI

Lectio Divina di Venerdì, 30 Maggio, 2014

  
Tempo di Pasqua
 
1) Preghiera
Si compia in ogni luogo, Signore,
con la predicazione del Vangelo,
la salvezza acquistata dal sacrificio del Cristo,
e la moltitudine dei tuoi figli adottivi
ottenga da lui, parola di verità,
la vita nuova promessa a tutti gli uomini.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...
 
2) Lettura
Dal Vangelo secondo Giovanni 16,20-23a
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “In verità, in verità vi dico: voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia.
La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia”.
 
3) Riflessione
• In questi giorni tra l’Ascensione e Pentecoste, i vangeli del giorno sono tratti dai capitoli 16 a 21 del vangelo di san Giovanni, e fanno parte del vangelo chiamato “Libro della Consolazione o della Rivelazione operante nella Comunità” (Gv 13,1 a 21,31). Questo Libro è diviso come segue: l’addio agli amici (Gv 13,1 a 14,31); testamento di Gesù e preghiera al Padre (Gv 15,1 a 17,28); l’opera consumata (Gv 18,1 a 20,31). L’ambiente è di tristezza e di aspettativa. Tristezza, perché Gesù stava salutando e la nostalgia invade il cuore. Aspettativa, perché sta giungendo l’ora di ricevere il dono promesso, il Consolatore, che fará scomparire la tristezza e porterà di nuovo la gioia della presenza amica di Gesù in mezzo alla comunità.
• Giovanni 16,20: La tristezza si trasformerà in gioia. Gesù dice: “In verità, in verità vi dico: voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia”. L’allusione frequente alla tristezza ed alla sofferenza esprime l’ambiente delle comunità della fine del primo secolo in Asia Minore (oggi Turchia), per le quali Giovanni scrive il suo vangelo. Loro vivevano una situazione difficile di persecuzione e di oppressione che causava tristezza. Gli apostoli avevano insegnato che Gesù sarebbe tornato dopo, ma la parusia, il ritorno glorioso di Gesù, non giungeva e la persecuzione aumentava. Molti erano impazienti: “Fino a quando?” (cf 2Tess 2,1-5; 2Pd 3,8-9). Inoltre, una persona sopporta una situazione di sofferenza e di persecuzione quando sa che la sofferenza è il cammino e la condizione per la gioia perfetta. E così, pur avendo la morte dinanzi agli occhi, sopporta ed affronta il dolore. Per questo il vangelo fa questo paragone così bello con i dolori del parto.
• Giovanni 16,21: Il paragone con i dolori del parto. Tutti capiscono questo paragone, sopratutto le madri: “La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo”. Il dolore e la tristezza causati dalla persecuzione, anche senza offrire nessun orizzonte di miglioramento, non sono stertori di morte, ma dolori di parto. Le madri sanno tutto questo per esperienza. Il dolore è terribile, ma loro sopportano, perché sanno che il dolore è fonte di vita nuova. Così è il dolore della persecuzione dei cristiani, e così può e deve essere vissuto qualsiasi dolore, cioè alla luce dell’esperienza della morte e risurrezione di Gesù.
• Giovanni 16,22-23a: La gioia eterna. Gesù spiega il paragone: “Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia”. Quel giorno, non mi farete più domande. Ecco la certezza che dà coraggio alle comunità stanche e perseguitate dell’Asia Minore e che fa esultare di gioia in mezzo ai dolori. Come dice il poeta: “Fa male, ma io canto!” O come dice il mistico san Giovanni della Croce: “In una notte scura, con ansie di amore tutta infiammata, o felice ventura, uscii né fui notata, stando la mia casa addormentata!” L’espressione In quel giorno indica l’avvento definitivo del Regno che porta con sé la sua chiarezza. Alla luce di Dio, non ci sarà più bisogno di chiedere nulla. La luce di Dio è la risposta piena e totale a tutte le domande che potrebbero nascere dal di dentro del cuore umano.
 
4) Per un confronto personale
• Tristezza e gioia. Esistono insieme nella vita. Come avviene ciò nella tua vita?
• Dolori del parto. Questa esperienza si trova all’origine della vita di ognuno di noi. Mia madre sopportò il dolore con speranza, e per questo sono vivo/a. Fermati e pensa a questo mistero della vita.
 
5) Preghiera finale
Applaudite, popoli tutti,
acclamate Dio con voci di gioia;
perché terribile è il Signore, l’Altissimo,
re grande su tutta la terra. (Sal 46)
 

giovedì 29 maggio 2014

Assenza e presenza - don Luciano Sanvito



ASSENZA E PRESENZA

Sono i due movimenti dello Spirito del Cristo nella storia.
Un poco è presente, un poco è assente nella nostra esperienza.
Ma questi due movimenti sono l'anima del percorso spirituale in noi.
Lo Spirito gestisce e elabora questo percorso nella storia come tempo pasquale.
L'assenza di Gesù viene rivisitata attraverso lo Spirito e rivissuta quale ricerca e anelito del cuore, dell'anima e della mente.
La presenza è fatta di amicizia ma anche di senso di rispetto e di alterità, e modello per le nostre esistenze e esperienze nella storia.

Ecco dunque come il tempo pasquale ci addita con la luce dello Spirito i due atteggiamenti che fanno da guida ai nostri passi incerti.

Vedere e non vedere, esserci e non esserci, andare e venire, assenza e presenza fanno del cammino del cristiano una solida guida alla ricerca e alla fede.
La speranza si radica nell'esperienza, che mancando, viene riesumata.
La fede recupera nella memoria la vita e la trasforma in memoriale oggi.
La carità è esperienza dell'amore trovato e dell'amore bramato in desiderio.
Il tempo del "poco" che c'è e del "poco" che non c'è ci fa essere autentici credenti.

ASSENZA E PRESENZA NELLO SPIRITO DIVENTANO MOTI DI FEDE

Commento su Atti 18,7 "Paolo se ne andò di là..."



Paolo se ne andò di là ed entrò nella casa di un tale, di nome Tizio Giusto, uno che venerava Dio, la cui abitazione era accanto alla sinagoga.
At 18,7

Come vivere questa Parola?

Paolo è a Corinto, ospite di due coniugi giudei, convertiti al cristianesimo, di cui condivide il mestiere. Il suo impegno principale è tuttavia la diffusione del vangelo, a cui si dedica rivolgendosi primariamente ai suoi antichi correligionari. La reazione negativa di questi lo porta a rivolgesi più apertamente ai pagani.

Il suo entrare nella casa di Tizio Giusto, proprio accanto alla sinagoga, è un gesto provocatorio: Paolo infrange così le più rigide prescrizioni ebraiche che ritenevano si contraesse impurità con il varcare le soglie di casa di un pagano. Dichiara in tal modo la sua completa adesione a Cristo e il conseguente rigetto di pratiche discriminanti che la croce del Risorto avevano ormai definitivamente abolito: non c'è più né Giudeo né Greco, né schiavo né libero, né uomo né donna scriverà alle comunità da lui fondate.

Come già la dispersione seguita alla persecuzione mossa contro i cristiani nella Giudea, anche questa nuova tempesta finisce col servire il progetto di Dio. La Parola si diffonde oltre i confini nazionali, oltre le limitazioni religiose.

La Chiesa nascente non esclude nessuno: lo stesso Crispo, capo della sinagoga, quindi membro rappresentativo del mondo religioso ebraico, si converte insieme a tutta la sua famiglia, ma neppure si lascia incapsulare in prescrizioni che elevano barriere di incomunicabilità: Cristo è morto per tutti e a tutti è ormai spalancata la porta della salvezza.

La chiusura, l'indurimento di alcuni, come scriverà Paolo stesso ai Romani, diviene occasione di abbattimento di frontiere così che la Parola prende a correre per il mondo, tutto vivificando con la sua azione.

Tutto concorre al bene, mi ricorda Paolo, sollecitandomi a guardare la storia con ottimismo. Il male c'è, ma non può frenare la travolgente e vittoriosa corsa delle redenzione in atto. Lo credo, Signore, anche nel disorientamento di oggi. Sì, tutto concorre al bene di chi, fidandosi di te e della tua Parola, affronta le varie vicissitudini senza temere il giudizio altrui, anzi diventando, a sua insaputa, elemento di giudizio che svela il senso profondo delle cose e spalanca su orizzonti di luce.

La voce del papa emerito

La perseveranza nel bene, anche se incompresa e contrastata, alla fine giunge sempre a un approdo di luce, di fecondità e di pace.
Benedetto XVI

Lectio Divina di Giovedì, 29 Maggio, 2014

 
Tempo di Pasqua
 
1) PreghieraO Dio, nostro Padre,
che ci hai reso partecipi dei doni della salvezza,
fa’ che professiamo con la fede
e testimoniamo con le opere
la gioia della risurrezione.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...
 
2) Lettura Dal Vangelo secondo Giovanni 16,16-20
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: “Ancora un poco e non mi vedrete; un po’ ancora e mi vedrete”. Dissero allora alcuni dei suoi discepoli tra loro: “Che cos'è questo che ci dice: Ancora un poco e non mi vedrete, e un po’ ancora e mi vedrete, e questo: Perché vado al Padre?”. Dicevano perciò: “Che cos'è mai questo ‘‘un poco’’ di cui parla? Non comprendiamo quello che vuol dire”.
Gesù capì che volevano interrogarlo e disse loro: “Andate indagando tra voi perché ho detto: Ancora un poco e non mi vedrete e un po’ ancora e mi vedrete? In verità, in verità vi dico: voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia”.
 
3) Riflessione• Giovanni 16,16: Assenza e presenza. Gesù dice un «poco» (un mikròn), vale a dire, un tempo brevissimo, forse un «attimo». Al di là delle molteplici sfumature si vuole sottolineare l’esiguità del tempo. Se molto breve è stato il tempo che Gesù ha trascorso in mezzo ai suoi come verbo incarnato cos’ altrettanto, breve sarà il tempo che intercorrerà tra la sua partenza e il suo ritorno. Non ci sarà mutamento nella situazione interiore dei suoi discepoli perché la relazione con Gesù non cambia: è di vicinanza permanente. Quindi la visione di Gesù non subirà interruzione ma sarà caratterizzata dalla comunione di vita con lui (Gv 14,19).
Interessante è l’uso reiterato del verbo «vedere» nel v.16: «Un poco e non mi vedrete più, un poco ancora e mi vedrete». L’espressione «un poco e non mi vedrete più» richiama la modalità con cui i discepoli vedono nel Gesù storico il Figlio di Dio; l’altra espressione «un poco ancora e mi vedrete» rimanda all’esperienza del Cristo risorto. Gesù sembra voler dire ai discepoli che ancora per brevissimo tempo saranno nella condizione di vederlo, riconoscerlo nella sua carne visibile, ma, poi, lo vedranno con una visione diversa in quanto si mostrerà a loro trasformato, trasfigurato.
• Giovanni 16,17-19: L’incomprensione dei discepoli. Intanto alcuni discepoli non riescono a comprendere cosa significhi questa sua assenza, vale a dire, la sua andata dal Padre. Provano un certo sconcerto di fronte alle parole di Gesù e lo esprimono con quattro interrogativi, tutti accomunati da una stessa espressione: «che significa questo che ci dice?». Altre volte il lettore ha ascoltato gli interrogativi di Pietro, di Filippo, Tommaso, Giuda non l’Iscariota, ora quelli dei discepoli che chiedono delle spiegazioni. I discepoli non riescono a comprendere di cosa parli. I discepoli non hanno compreso come Gesù possa essere rivisto da loro se va al Padre (vv.16-19). Ma l’interrogativo sembra concentrarsi su quel «poco» che per il lettore sembra essere un tempo lunghissimo che non termina mai, soprattutto quando si è nell’angoscia e nella tristezza. Di fatti il tempo della tristezza non passa. Una risposta da parte di Gesù è attesa ma l’evangelista la fa precedere da una ripresa della domanda: «State indagando tra voi perché: “Un poco e non mi vedrete: un poco ancora e mi vedrete?». (v.19).
• Giovanni 16,20: La risposta di Gesù. Di fatto Gesù non risponde alla domanda che gli rivolgono: «che cosa significa quel entro breve tempo?», ma li invita alla fiducia. È vero che i discepoli saranno provati, soffriranno molto, saranno soli in una situazione ostile, abbandonati a un mondo che gioisce della morte di Gesù, ma, assicura che la loro tristezza si cambierà in gioia. Alla tristezza è contrapposta un tempo in cui tutto sarà capovolto. Quell’inciso avversativo «ma la vostra tristezza si trasformerà in gioia», sottolinea tale cambiamento di prospettiva. Per il lettore è evidente che l’espressione «un poco», «entro breve tempo» corrisponde a quell’attimo o momento in cui la situazione viene rovesciata, ma fino a quell’istante tutto sa di tristezza e di prova.
In definitiva i discepoli ricevono da Gesù una promessa di felicità, di gioia; in virtù di quell’attimo che capovolge la situazione difficile in cui «i suoi», la comunità ecclesiale sono sottoposti, essi entreranno in una realtà di mondo illuminata dalla resurrezione. 
 
4) Per un confronto personale• Sono convinto che il momento della prova passerà ed Egli tornerà a stare con me?
• «Voi sarete afflitti, ma la vostra tristezza si trasformerà in gioia». Queste parole di Gesù quale effetto hanno nella tua vicenda umana? Come vivi i tuoi momenti di tristezza e di angoscia?
 
5) Preghiera finaleTutti i confini della terra hanno veduto
la salvezza del nostro Dio.
Acclami al Signore tutta la terra,
gridate, esultate con canti di gioia. (Sal 97)

mercoledì 28 maggio 2014

Una rilettura spirituale - don Luciano Sanvito



LA RILETTURA DEL VANGELO DI GESÙ NELLO SPIRITO SANTO

L'azione di Gesù viene ripresa nella vita della comunità pasquale attraverso l'afflato dello Spirito.
Quello che Gesù ha detto verrà annunziato attraverso la forza dello Spirito.

Questa rilettura spirituale, in quanto operata dallo Spirito, è lo stile del tempo pasquale, e permette alla Chiesa di rinnovare se stessa e di camminare alla luce della Risurrezione nella storia quotidiana.

La rilettura del messaggio di Gesù attraverso lo Spirito è una ripresa e un ripescare dalle parole del Vangelo la forza necessaria a procedere.

Per "portare il peso" delle parole di Gesù e per raggiungere la "verità tutta intera" ecco che lo Spirito pone in azione nella storia l'esperienza pasquale.

Attraverso il cammino della rilettura nello Spirito la comunità non solo studia la realtà spirituale, ma viene esaminata dallo Spirito nella sua azione.
Diventa una presa di coscienza sempre più sintonica con l'azione di Cristo, che non solo viene ricordato, ma entra come memoriale nella nostra storia.
LA RILETTURA NELLO SPIRITO CI FA ESSERE RILETTI E RIELETTI.

martedì 27 maggio 2014

Commento su Atti 17,28 "Di lui anche noi siamo stirpe"



Di lui anche noi siamo stirpe
At 17,28

Come vivere questa Parola?

Siamo talmente abituati a definirci figli di Dio da non afferrare più la profondità di questa affermazione: è diventato quasi un modo di dire che non ci scalfisce più di tanto. Eppure è proprio qui il fondamento della nostra grandezza.

Le mie radici sono in Dio: da questa salda Roccia sono stato intagliato come un blocco di marmo di Carrara. Di pregio quindi, nonostante il limite che mi segna costituzionalmente e che mi impegna in un lavorio serio e continuo perché l'immagine divina che reco impressa in me si sprigioni in tutta la sua bellezza: è il compito che mi è stato affidato il giorno in cui sono stato chiamato alla vita.

Purtroppo noi siamo portati più a fermarci sul limite che non sulle ricche potenzialità che se sviluppate ci farebbero spaziare verso quell'infinito di cui sentiamo così forte il richiamo.

Il bisogno di trascenderci, protendendoci verso un di più a cui talvolta non riusciamo a dare un nome, non è altro che il richiamo insopprimibile del nostro io più vero che non si rassegna a starsene rattrappito e dimenticato in quella nobile materia prima che ci è stata consegnata proprio perché lo liberassimo divenendo collaboratori di Dio, "con-creatori" di noi stessi.

Ma non è esaltante pensare che il Creatore, che ben conosce i nostri limiti, si fidi di noi fino ad affidarci il suo capolavoro, cioè noi stessi, perché contribuiamo ad esaltarne tutta la profonda bellezza e dignità? Eppure molte volte reagiamo come gli Ateniesi quando veniamo sollecitati a liberarci dalla grettezza di vedute prive di ideali, anzi schiavizzanti quali idoli elevati dalla presunzione umana: "Ti sentiremo più tardi!", rispondiamo, magari non verbalmente, allo Spirito che ci sollecita interiormente o esteriormente con eventi, incontri, parole.

Mi è più facile, Signore, piangere sui miei limiti, chiederti perdono dei miei peccati, che ringraziarti per il tuo gesto di fiducia e di amore che mi ha posto in essere quale tuo capolavoro. Potrebbe sembrare umiltà, ma in fondo è un gretto ripiegarmi su me stesso, amareggiato dal fatto che... sono immagine di Dio, ma non sono Dio! È il triste e opprimente residuo della tentazione adamitica che continua a corrodere il mio rapporto con te, con me stesso, con gli altri.

La voce di un dottore della chiesa

E vanno gli uomini ad ammirare le vette dei monti, ed i grandi flutti del mare, ed il lungo corso dei fiumi, e l'immensità dell'Oceano, ed il volgere degli astri e si dimenticano di se medesimi
Sant'Agostino

Lectio Divina di Martedì, 27 Maggio, 2014

Tempo di Pasqua
 
1) PreghieraEsulti sempre il tuo popolo, o Padre,
per la rinnovata giovinezza dello spirito,
e come oggi si allieta
per il dono della dignità filiale,
così pregusti nella speranza
il giorno glorioso della risurrezione.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...
 
2) Lettura Dal Vangelo secondo Giovanni 16,5-11
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: “Ora vado da colui che mi ha mandato e nessuno di voi mi domanda: Dove vai? Anzi, perché vi ho detto queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore. Ora io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò. E quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio. Quanto al peccato, perché non credono in me; quanto alla giustizia, perché vado al Padre e non mi vedrete più; quanto al giudizio, perché il principe di questo mondo è stato giudicato”.
 
3) Riflessione• Giovanni 16,5-7: Tristezza dei discepoli. Gesù inizia con una domanda retorica a evidenziare la presenza della tristezza, oramai evidente nel cuore dei discepoli per il distacco da Gesù: «Ora però vado da colui che mi ha mandato e nessuno di voi mi domanda: “Dove vai?”». È chiaro che per i discepoli, il distacco dei discepoli dallo stile di vita vissuto con Gesù, comporta sofferenza. E Gesù incalza dicendo: «Anzi, perché vi ho detto questo, la tristezza ha riempito il vostro cuore» (v.6) Così Sant’Agostino spiega tale sentimento di abbandono dei discepoli: «avevano paura al pensiero di perdere la presenza visibile di Cristo… Erano contristati nel loro affetto umano, al pensiero che i loro occhi non si sarebbero più consolati nel vederlo» (Commento al vangelo di Giovanni, XCIV, 4). Gesù cerca di dissipare questa tristezza, dovuta al venir meno della sua presenza, rivelando il fine della sua partenza. Vale a dire che se egli non parte da loro il Paraclito non potrà raggiungerli; se egli muore e quindi ritorna al Padre, lo potrà inviare ai discepoli. La partenza e il distacco da essi è condizione previa per la venuta del Paraclito: «perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore…» (v.7).
• Giovanni 16,8-11: Missione del Paraclito. Gesù prosegue nel descrivere la missione del Paraclito. Il termine «Paraclito» vuol dire «avvocato», vale a dire, sostegno, assistente. Qui il Paraclito viene presentato come l’accusatore in un processo che si svolge davanti a Dio e nel quale l’imputato è il mondo che si è reso colpevole di condannare Gesù: «dimostrerà la colpa del mondo, riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio» (v.8). Il verbo greco elègkein significa che farà un’inchiesta, interrogherà, metterà alla prova: porterà alla luce una realtà, fornirà la prova della colpevolezza.
L’oggetto della confutazione è il peccato: egli darà la prova al mondo del peccato che ha commesso nei confronti di Gesù e glielo manifesterà. Di quale peccato si tratta? Quello dell’incredulità (Gv 5,44ss; 6,36; 8,21.24.26; 10,31ss). Inoltre per il mondo l’aver pensato che Gesù è un peccatore (Gv 9,24; 18,30) è una colpa inescusabile (Gv 15,21ss).
In secondo luogo «confuterà» il mondo «riguardo alla giustizia». Sul piano giuridico, la nozione di giustizia più aderente al testo, è quella che comporta una dichiarazione di colpevolezza o di innocenza in un giudizio. Nel nostro contesto è l’unica volta che il termine «giustizia» compare nel vangelo di Giovanni, altrove ricorre quello di «giusto». In Gv 16,8 la giustizia è legata a quanto Gesù ha affermato di sé, vale a dire, sul perché va al Padre. Tale discorso verte sulla sua glorificazione: Gesù va al Padre, sta per eclissarsi in Lui e quindi i discepoli non riusciranno più a vederlo; sta per affidarsi e immergersi totalmente nella volontà del Padre. La glorificazione di Gesù conferma la sua filiazione divina e l’approvazione del Padre per la missione che Gesù ha compiuto. Quindi lo Spirito dimostrerà la giustizia di Cristo direttamente (Gv 14,26; 15,26) proteggendo i discepoli e la comunità ecclesiale.
Il mondo che credeva di aver giudicato Gesù condannandolo, viene condannato dal «principe di questo mondo», perché è il responsabile della sua crocifissione (13,2.27). Gesù, morendo in croce, è stato innalzato (12,31) ed ha trionfato su Satana. Ora lo Spirito testimonierà a tutti il significato della morte di Gesù che coincide con la caduta di Satana (Gv 12,32; 14,30; 16,33).
 
4) Per un confronto personale• Il timore, lo sgomento dei discepoli di perdere Gesù è anche il nostro?
• Ti lasci condurre dallo Spirito Paraclito che ti dà la certezza dell’errore del mondo e ti aiuta ad aderire a Gesù, e, quindi, ti introduce nella verità di te stesso?
 
5) Preghiera finaleTi rendo grazie, Signore, con tutto il cuore:
hai ascoltato le parole della mia bocca.
A te voglio cantare davanti agli angeli,
mi prostro verso il tuo tempio santo. (Sal 137)

Spirito che convince - don Luciano Sanvito



LO SPIRITO CONVINCERÀ...

* QUANTO AL PECCATO
Emerge nello Spirito il peccato del non credere, del non riconoscere in Gesù il Salvatore, non riconoscendolo come l'inviato dal Padre.
Il peccato oscura la visione di Dio in Cristo; solo lo Spirito ci permette di svelare a noi stessi e poi di fronte agli altri quale sia il vero peccato: il non credere in Gesù.

* QUANTO ALLA GIUSTIZIA
Quello che è giusto di fronte a Dio, la sua azione a favore del Regno, viene messa in evidenza proprio nella partenza di Gesù dal mondo. Riconoscere quello che è giusto per noi è opera nostra; ma lo Spirito ci rivela quello che è giusto nel disegno del Padre, davanti a Dio e al Regno.

* QUANTO AL GIUDIZIO
Il giudizio di Dio non è punizione, ma opera della salvezza, che allontana il male: un giudizio operante nella storia, dove ognuno, nello Spirito, può distinguere quello che è bene e male, distinguendo tra il principe di questo mondo e il Regno di Dio, opera del trionfo dell'amore.

La vittoria dello Spirito Santo avviene in questo "convincimento", questa opera di coscienza attivata in ciascuno di coloro che accolgono il suo dono; con questa coscienza il Regno di Dio nella storia è oggi vincente.

Commento su Atti 16,25-26



Verso mezzanotte Paolo e Sila, in preghiera, cantavano inni a Dio, mentre i prigionieri stavano ad ascoltarli. D'improvviso venne un terremoto così forte che furono scosse le fondamenta della prigione; subito si aprirono tutte le porte e caddero le catene di tutti.
At 16,25-26

Come vivere questa Parola?

Siamo "verso mezzanotte", quando cioè si registra l'infittirsi delle tenebre, simbolo di negatività.

Ebbene, nell'ora più oscura della prova, Paolo e Sila imprigionati si rivolgono a Dio che subito risponde con il prodigio del terremoto e del concomitante infrangersi dei ceppi.

Ci si attenderebbe una fuga di massa. E invece nessuno si affretta ad abbandonare quel luogo di detenzione che pure è stato colpito nelle sue stesse fondamenta: non è quello il vero e più tremendo carcere che imprigiona e distrugge l'uomo.

Non i carcerati, ma il carceriere viene a prostrarsi in quella che si rivela una richiesta di grazia: è lui il vero prigioniero!

"Che cosa devo fare per essere salvato?", è la domanda che ne rivela, insieme a un'iniziale apertura, un'idea sfalsata di Dio e della salvezza: vuole essere salvato da una possibile ritorsione per aver infierito contro i suoi fedeli, e punta sul "fare" che gli garantirebbe l'incolumità. Due pecche rintracciabili anche tra credenti di ogni tempo.

Paolo raddrizza il tiro indicando in Cristo il volto di un Dio tutt'altro che giudice vendicativo, e nella fede, cioè nell'adesione a lui, l'unico mezzo per ottenere la salvezza.

Ciò che segue mette in risalto che credere in Gesù non è un etereo sentimento che sfuma nel disimpegno: le opere non sono il "prezzo" per comprare la salvezza, ma il "frutto" che ne rivela il conseguimento.

Nella "mezzanotte" dei nostri tempi, confermaci, Signore, nella certezza che tu non rimani sordo al nostro grido, che scuoterai, anzi stai già scuotendo le fondamenta delle carceri che noi stessi ci siamo costruite, e aiutaci a ritrovare nell'autenticità della fede la via della salvezza.

La voce di una testimone

Nulla ci turbi e sempre avanti con DIO. Forse non è facile, anzi può essere un'impresa titanica credere così. In molti sensi è un tale buio la fede, questa fede che è prima di tutto dono e grazia e benedizione... Annalena Tonelli

Lectio Divina di Martedì, 27 Maggio, 2014

 
Tempo di Pasqua
 
1) PreghieraEsulti sempre il tuo popolo, o Padre,
per la rinnovata giovinezza dello spirito,
e come oggi si allieta
per il dono della dignità filiale,
così pregusti nella speranza
il giorno glorioso della risurrezione.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...
 
2) Lettura Dal Vangelo secondo Giovanni 16,5-11
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: “Ora vado da colui che mi ha mandato e nessuno di voi mi domanda: Dove vai? Anzi, perché vi ho detto queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore. Ora io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò. E quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio. Quanto al peccato, perché non credono in me; quanto alla giustizia, perché vado al Padre e non mi vedrete più; quanto al giudizio, perché il principe di questo mondo è stato giudicato”.
 
3) Riflessione• Giovanni 16,5-7: Tristezza dei discepoli. Gesù inizia con una domanda retorica a evidenziare la presenza della tristezza, oramai evidente nel cuore dei discepoli per il distacco da Gesù: «Ora però vado da colui che mi ha mandato e nessuno di voi mi domanda: “Dove vai?”». È chiaro che per i discepoli, il distacco dei discepoli dallo stile di vita vissuto con Gesù, comporta sofferenza. E Gesù incalza dicendo: «Anzi, perché vi ho detto questo, la tristezza ha riempito il vostro cuore» (v.6) Così Sant’Agostino spiega tale sentimento di abbandono dei discepoli: «avevano paura al pensiero di perdere la presenza visibile di Cristo… Erano contristati nel loro affetto umano, al pensiero che i loro occhi non si sarebbero più consolati nel vederlo» (Commento al vangelo di Giovanni, XCIV, 4). Gesù cerca di dissipare questa tristezza, dovuta al venir meno della sua presenza, rivelando il fine della sua partenza. Vale a dire che se egli non parte da loro il Paraclito non potrà raggiungerli; se egli muore e quindi ritorna al Padre, lo potrà inviare ai discepoli. La partenza e il distacco da essi è condizione previa per la venuta del Paraclito: «perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore…» (v.7).
• Giovanni 16,8-11: Missione del Paraclito. Gesù prosegue nel descrivere la missione del Paraclito. Il termine «Paraclito» vuol dire «avvocato», vale a dire, sostegno, assistente. Qui il Paraclito viene presentato come l’accusatore in un processo che si svolge davanti a Dio e nel quale l’imputato è il mondo che si è reso colpevole di condannare Gesù: «dimostrerà la colpa del mondo, riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio» (v.8). Il verbo greco elègkein significa che farà un’inchiesta, interrogherà, metterà alla prova: porterà alla luce una realtà, fornirà la prova della colpevolezza.
L’oggetto della confutazione è il peccato: egli darà la prova al mondo del peccato che ha commesso nei confronti di Gesù e glielo manifesterà. Di quale peccato si tratta? Quello dell’incredulità (Gv 5,44ss; 6,36; 8,21.24.26; 10,31ss). Inoltre per il mondo l’aver pensato che Gesù è un peccatore (Gv 9,24; 18,30) è una colpa inescusabile (Gv 15,21ss).
In secondo luogo «confuterà» il mondo «riguardo alla giustizia». Sul piano giuridico, la nozione di giustizia più aderente al testo, è quella che comporta una dichiarazione di colpevolezza o di innocenza in un giudizio. Nel nostro contesto è l’unica volta che il termine «giustizia» compare nel vangelo di Giovanni, altrove ricorre quello di «giusto». In Gv 16,8 la giustizia è legata a quanto Gesù ha affermato di sé, vale a dire, sul perché va al Padre. Tale discorso verte sulla sua glorificazione: Gesù va al Padre, sta per eclissarsi in Lui e quindi i discepoli non riusciranno più a vederlo; sta per affidarsi e immergersi totalmente nella volontà del Padre. La glorificazione di Gesù conferma la sua filiazione divina e l’approvazione del Padre per la missione che Gesù ha compiuto. Quindi lo Spirito dimostrerà la giustizia di Cristo direttamente (Gv 14,26; 15,26) proteggendo i discepoli e la comunità ecclesiale.
Il mondo che credeva di aver giudicato Gesù condannandolo, viene condannato dal «principe di questo mondo», perché è il responsabile della sua crocifissione (13,2.27). Gesù, morendo in croce, è stato innalzato (12,31) ed ha trionfato su Satana. Ora lo Spirito testimonierà a tutti il significato della morte di Gesù che coincide con la caduta di Satana (Gv 12,32; 14,30; 16,33).
 
4) Per un confronto personale• Il timore, lo sgomento dei discepoli di perdere Gesù è anche il nostro?
• Ti lasci condurre dallo Spirito Paraclito che ti dà la certezza dell’errore del mondo e ti aiuta ad aderire a Gesù, e, quindi, ti introduce nella verità di te stesso?
 
5) Preghiera finaleTi rendo grazie, Signore, con tutto il cuore:
hai ascoltato le parole della mia bocca.
A te voglio cantare davanti agli angeli,
mi prostro verso il tuo tempio santo. (Sal 137)

lunedì 26 maggio 2014

Spirito in azione - don Luciano Sanvito



Lo Spirito Santo.

Guida e sorregge il cammino di coloro che vivono in Gesù Risorto.

Di fronte alla difficoltà dell'annuncio lo Spirito ci richiama che è Lui la guida, e tutto non dipende da noi: avere la certezza della sua presenza ci fa essere in sintonia, anche nelle persecuzioni fisiche o morali, con la volontà di Dio, con il suo Regno.

Anzi, proprio nella contrarietà emerge la forza e il valore della testimonianza.
Lo scandalo di fronte all'insuccesso della predicazione viene superato proprio grazie allo Spirito, che rende presente l'azione vittoriosa del Cristo.

L'ora della persecuzione, della contrarietà e dell'insuccesso umano quindi non è più l'ultima parola nell'annuncio del Regno.
Lo Spirito recupera e dà significato anche alle azioni che umanamente risultano essere perdenti nella storia.

Il ricordare la parola di Gesù, ad opera dello Spirito, diventa allora la sorgente della ricarica della fede, della speranza e della carità.
Il conoscere il Padre e Gesù attraverso lo Spirito è la gioia pasquale.

LO SPIRITO RINSALDA TUTTO CIO' E' UMANAMENTE VACILLANTE

"Lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me..."


Commento su Gv 15,26-27

«Lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio.»

Gv 15,26-27
Come vivere questa Parola?

Le realtà divine possono essere comprese soltanto con la luce di Dio: e lo esperimentiamo ogni giorno nella nostra vita. Per potere valutare e soprattutto compiere quanto Gesù ci ha detto, non sono sufficienti la nostra volontà e la nostra intelligenza, ma occorre l'aiuto e la grazia di Dio. Nemmeno agli apostoli e ai discepoli, che pure erano stati testimoni oculari dei miracoli di Cristo e l'avevano visto risorto, erano in grado di realizzare il compito loro affidato: era necessaria la presenza dello Spirito: egli dà testimonianza di Gesù e col suo aiuto anche gli Apostoli lo potranno testimoniare.

Lo Spirito li rende coraggiosi e forti, veri "martiri ( nel dignificato originario di "testimoni"), capaci di affrontare e superare ogni difficoltà e dimostrare che cosa significhi essere stati con Gesù fin dagli inizi della sua missione terrena.

Essi testimonieranno l'amore e la paternità di Dio, manifestatasi in Cristo e faranno brillare una luce nuova sul mondo, diffondendo verità e pace. La Chiesa - pur tra persecuzioni e difficoltà- continuerà questo compito, e si lascerà intimorire, sicura che lo Spirito Santo le darà forza e chiarezza per continuare il cammino.
O Spirito, rinvigorisci la mia fede, perché possa essere un autentico testimone della verità e dell'amore di Cristo.
La voce di Papa Francesco

«Noi siamo un popolo che segue Gesù Cristo e dà testimonianza, vuole dare testimonianza di Gesù Cristo. E questa testimonianza alcune volte arriva a dare la vita».

Omelia del 6 maggio 2014

Lectio Divina - Lunedì, 26 Maggio, 2014

  
1) Preghiera
Donaci, Padre misericordioso,
di rendere presente in ogni momento della vita
la fecondità della Pasqua,
che si attua nei tuoi misteri.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...
2) Lettura del Vangelo
Dal Vangelo secondo Giovanni 15,26-16,4
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio.
Vi ho detto queste cose perché non abbiate a scandalizzarvi. Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi, verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio. E faranno ciò, perché non hanno conosciuto né il Padre né me. Ma io vi ho detto queste cose perché, quando giungerà la loro ora, ricordiate che ve ne ho parlato”.
3) Riflessione
• Nei capitoli da 15 a 17 del Vangelo di Giovanni, l’orizzonte si dilata oltre il momento storico della Cena. Gesù prega il Padre “non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me” (Gv 17,20). In questi capitoli, è costante l’allusione all’azione dello Spirito nella vita delle comunità, dopo Pasqua.
• Giovanni 15,26-27: L’azione dello Spirito Santo nella vita delle comunità. La prima cosa che lo Spirito fa è dare testimonianza di Gesù: “Egli mi renderà testimonianza”. Lo Spirito non è un essere spirituale senza definizione. No! E’ lo Spirito della verità che viene dal Padre, sarà mandato da Gesù stesso e ci introdurrà nella verità piena (Gv 16,13). La verità piena è Gesù stesso: “Io sono la via, la verità e la vita!” (Gv 14,6). Alla fine del primo secolo, c’erano alcuni cristiani così affascinati dall’azione dello Spirito che non guardavano più Gesù. Affermavano che ora, dopo la risurrezione, non era più necessario fissare lo sguardo su Gesù di Nazaret, colui “che venne nella carne”. Si allontanavano da Gesù e rimanevano solo con lo Spirito. Dicevano: “Gesù è anatema!” (1Cor 12,3). Il Vangelo di Giovanni prende posizione e non permette di separare l’azione dello Spirito dalla memoria di Gesù di Nazaret. Lo Spirito Santo non può essere isolato con una grandezza indipendente, separato dal mistero dell’incarnazione. Lo Spirito Santo è inseparabilmente unito al Padre ed a Gesù. E’ lo Spirito di Gesù che il Padre ci manda, quello stesso Spirito che Gesù ci ha conquistato con la sua morte e risurrezione. E noi, ricevendo questo Spirito nel battesimo, dobbiamo essere il prolungamento di Gesù: “Ed anche voi darete testimonianza!” Non possiamo mai dimenticare che proprio la vigilia della sua morte Gesù ci promette lo Spirito. Nel momento in cui lui si donava per i suoi fratelli. Oggi giorno, il movimento carismatico insiste nell’azione dello Spirito, e fa molto bene. Deve insistere sempre di più, ma deve anche insistere nell’affermare che si tratta dello Spirito di Gesù di Nazaret che, per amore dei poveri e degli emarginati, fu perseguitato, detenuto e condannato a morte e che, proprio per questo, ci ha promesso il suo Spirito in modo che noi dopo la sua morte, continuassimo la sua azione e fossimo per l’umanità la stessa rivelazione dell’amore preferenziale del Padre per i poveri e gli oppressi.
• Giovanni 16,1-2: Non aver paura. Il Vangelo avverte che essere fedeli a Gesù ci porterà ad avere difficoltà. I discepoli saranno esclusi dalla sinagoga. Saranno condannati a morte. Con loro succederà la stessa cosa che è accaduta a Gesù. Per questo, alla fine del primo secolo, c’erano persone che, per evitare la persecuzione, diluivano il messaggio di Gesù trasformandolo in un messaggio gnostico, vago, senza definizione, che non contrastava con l’ideologia dell’impero. A loro si applica ciò che Paolo diceva: “Hanno paura della croce di Cristo” (Gal 6,12). E Giovanni stesso, nella sua lettera, dirà nei loro riguardi: “Poiché molti sono i seduttori che sono apparsi nel mondo, i quali non riconoscono Gesù venuto nella carne. Ecco il seduttore e l’anticristo!” (2 Gv 1,7). La stessa preoccupazione appare anche nell’esigenza di Tommaso: "Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò." (Gv 20,25) Il Cristo risorto che ci promise il dono dello Spirito è Gesù di Nazaret che continua ad avere fino ad oggi i segni di tortura e di croce nel suo corpo risorto.
• Giovanni 16,3-4: Non sanno quello che fanno. Tutto questo avviene “perché non riconoscono né il Padre né me”. Queste persone non hanno un’immagine corretta di Dio. Hanno un’immagine vaga di Dio, nel cuore e nella testa. Il loro Dio non è il Padre di Gesù Cristo che ci raduna tutti in unità e fraternità. In fondo, è lo stesso motivo che spinse Gesù a dire: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23,34). Gesù fu condannato dalle autorità religiose perché, secondo la loro idea, lui aveva una falsa immagine di Dio. Nelle parole di Gesù non appare odio né vendetta, ma compassione: sono fratelli ignoranti che non sanno nulla del nostro Padre.
4) Per un confronto personale
• Il mistero della Trinità è presente nelle affermazioni di Gesù, non come una verità teorica, ma come espressione del cristiano con la missione di Gesù. Come vivo nella mia vita questo mistero centrale della nostra fede?
• Come vivo l’azione dello Spirito nella mia vita?
5) Preghiera finale
Cantate al Signore un canto nuovo;
la sua lode nell’assemblea dei fedeli.
Gioisca Israele nel suo Creatore,
esultino nel loro Re i figli di Sion. (Sal 149)