sabato 28 febbraio 2015

LA PAROLA. Commento al Vangelo di domenica 1 marzo 2015

Chiamati alla gioia

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Alberto Neglia
Molte pagine di letteratura teologica e spirituale sono state scritte per creare una certa diffidenza nei confronti della gioia. Queste pagine a volte hanno tratto ispirazione da una errata interpretazione delle "beatitudini evangeliche" che voleva la beatitudine, la gioia rimandata nell'aldilà, quasi a premio di una vita tribolata in questo mondo. Questa prospettiva si è come cristallizzata in un testo, per altri aspetti molto pregevole, che ha avuto un grande influsso nella formazione spirituale. Mi riferisco alla Imitazione di Cristo che ammonisce: «Tutte le delizie terrene o sono vane o sono turpi», e ricorda: «Non si può godere due volte: gioire prima in questo mondo e poi regnare con Cristo»2.
Questo "aut aut" che, ripeto, ha pesato nella formazione spirituale di molte generazioni, ha portato al convincimento che la gioia con tutte le sue manifestazioni umane sia esperienza che non si addice a chi intraprende un serio cammino spirituale. Mentre la "gravitas" del portamento e la tristezza sono state considerate atteggiamenti più compatibili con l'ideale cristiano, per cui i modelli proposti abitualmente erano quelli di santi che usavano il cilicio, fuggivano il mondo e si privavano anche dei piaceri leciti.
"la vostra gioia sia piena"
Se si pone, però attenzione alla rivelazione biblica ci si rende conto facilmente che questa tradizione si era allontanata dall'orizzonte presente nel dato rivelato. Il Dio della Bibbia, infatti, come viene evidenziato in altre pagine di questa monografia, è un Dio che gioisce delle sue opere (Sal 104,31), un Dio che fa festa e coinvolge gli altri nella sua gioia per i] figlio ritrovato (Lc 15,23). Alla nascita di Gesù, ai pastori che vegliano nella notte, l'angelo annunzia «una grande gioia, che sarà di tutto il popolo» (Lc 2, 10). E la sua presenza è festa, perché lui è lo Sposo che scaccia ogni tristezza. Ecco perché i discepoli non digiunano: «Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro?» (Mc 2,19).
La riflessione teologica contemporanea sta riscoprendo la piena umanità di Gesù come parte integrante del suo ruolo salvifico, ed evidenzia con interesse le sue capacità di humour, evidenti in certi passi dei Vangeli, e soprattutto mostra interesse per la sua possibile immagine di uomo felice'. Gesù esulta e sorride, gioisce delle amicizie, sa stare con gioia a mensa con i giusti e con i peccatori ed è fonte di gioia e di conso-lazione per tutti quelli che incontra.
Desiderio di Gesù è che il nostro cuore si rallegri e che nessuno possa rapirci la sua gioia (Gv 16,22-23). Il vivere il suo progetto è finalizzato a suscitare e ad alimentare la gioia: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 10s).
Paolo evidenzia che la gioia, di cui Gesù ci rende partecipi, è frutto dello Spirito (Gal 5,22), che affiora nella vita dell'uomo come conseguenza del suo dimorare nell'amore trinitario.
Questa gioia, quindi, non è qualcosa di superfluo, ma nasce dalla consapevolezza di questo essere coinvolti nella comunione trinitaria e dal sentirsi continuamente sorretti da questo abbraccio di Dio che mette in piedi, salva e apre sempre nuovi orizzonti. Per cui il profeta può cantare: «Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si gioisce quando si spartisce la preda» (Is 9,2).
L'antropologia cristiana, allora, alla luce della Rivelazione, è segnata costruttivamente dalla gioia. Anzi, la gioia, come scrive A. Louf, «è il terreno in cui ogni vita mette radici per essere in grado di esistere. Senza la gioia non potremmo vivere, o meglio non potremmo sopravvivere».
Tenendo conto di questo orizzonte, la vita del cristiano si configura come una condizione gioiosa per cui una esperienza cristiana incapace di affermare il primato della gioia, si troverebbe in contraddizione con se stessa e destinata a lacerare la sua stessa coscienza tra attenzioni dolorose e santificate, e fughe piacevoli ma diffidate.
A partire da tale prospettiva, il credente deve proporsi seriamente un progetto educativo alla gioia e alle sue manifestazioni.

il paradosso della gioia

Frutto del dono libero dell'amore trinitario, che ci raggiunge in Cristo Gesù, la gioia evangelica non è evasione scanzonata o alienante, ma si coniuga con tutto il mistero di Cristo e quindi anche con il mistero della passione e della morte. La gioia cristiana si può vivere, allora, anche nella sofferenza, se si è uniti a colui che ne è la sorgente e la causa: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra ricompensa nei cieli» (Mt 5,11s). Consapevole di questo, Paolo poteva scrivere ai cristiani di Filippi: «Anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull'offerta della vostra fede, sono contento, e ne godo con tutti voi. Allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me» (Fil 2,17s).
In sostanza l'esperienza della sofferenza diventa circostanza che consente a Paolo di essere messo in sintonia con il Signore Gesù; e gioire "nel Signore" per lui non è una qualsiasi formula entusiastica, ma è il riconoscimento della presenza del Risorto su ogni vicenda umana.
Dopo Paolo altri credenti, seppure incatenati, sono stati epifania del sorriso di Dio per questo mondo.
Di Policarpo viene detto che nel confessare la sua fede davanti al proconsole, prima del martirio, «era pieno di coraggio e di allegrezza e il suo volto splendeva di gioia».
Don Tonino Bello, alcuni giorni prima di morire, al termine della Messa Crismale (8 aprile 1993) fattosi portare al centro del presbiterio volle dire al suo popolo: «...Andiamo avanti con grande gioia. Io ho voluto prendere la parola per dirvi che non bisogna avere le lacrime, perché la Pasqua è la Pasqua della speranza, della luce, della gioia e dobbiamo sentirle. Io le sento veramente, perché è così, perché il Signore è risorto, perché Egli è al di sopra di tutte le nostre malattie, le nostre sofferenze, le nostre povertà. E al di sopra della morte. Quindi ditelo!»6.
Chi nella fede fa esperienza che gioia e croce sono compatibili, è uno che si è educato alla logica evangelica del "perdersi per ritrovarsi" e che ha capito che la gioia è come l'amore e quindi è impossibile immaginarla individualmente come un patrimonio di cui essere gelosi. Senza la gioia degli altri, non è possibile avere la gioia. La testimonianza di Gesù, riportata negli Atti: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35), sta determinando la sua vita.
vivere le gioie del mondo
Se la gioia è l'esperienza che si produce in noi quando otteniamo che si realizzi un desiderio e il desiderio del credente è l'essere con Gesù e vivere nella propria carne il suo mistero che è di gioia certamente, ma anche di sofferenza, questo vuol dire che il discepolo di Gesù deve rinunciare alle gioie umane?
Certo, è vero, la gioia autentica si trova a una grande profondità e dobbiamo scavare molto profondo in noi per permetterle di sgorgare; ecco perché ogni grande gioia è anche silenziosa: non può essere espressa, è indicibile, raramente affiora in superficie. Ma è anche vero che la gioia di questo mondo, la gioia con connotazione umana non può essere ignorata e che ha la sua importanza, contiene già la gioia futura.
Come si esprimeva Paolo VI nell'enciclica Gaudete in Domino: «La gioia cristiana suppone un uomo capace di gioie naturali»'. E aggiungeva che Gesù stesso, nella sua umanità «ha fatto l'esperienza della nostra gioia. Egli ha manifestamente conosciuto, apprezzato, esaltato tutta una gamma di gioie umane, di quelle gioie semplici e quotidiane, alla portata di tutti. La profondità della sua vita interiore non ha attenuato il realismo del suo sguardo, né la sua sensibilità»e.
Aggiungeva, ancora, Gesù «ha accolto e provato le gioie affettive e spirituali, come un dono di Dio»9.
Se gioia, godimento dell'amicizia, della natura, sorriso, sono valori umani che Gesù non ha rinnegato, ma che ha vissuto intensamente ponendo accanto ad essi come unico criterio di fruizione, per togliere ogni pericolo di autoinganno, il primato dell'amore e della condivisione; allora bisogna sottolineare che non è umano né cristiano rinunciare alle gioie create e volute da Dio, diffidare e astenersi dai valori della vita e della terra. Dio ha voluto che il suo servizio avvenisse nell'umano, sulla terra e che avesse come contenuto un autentico rapporto con gli uomini e con le cose'°, allora bisogna educarsi a saper convivere con le nostre gioie semplici e quotidiane e vigilare sempre perché esse non diventino idolo ma si ricevano dalle mani di Gesù e siano vissute nel regime dell'amore.

la gioia della relazione

Una di queste gioie semplici e quotidiane è certamente quella che deriva da una relazione realizzata. La gioia, infatti, perché frutto di un dono ricevuto, ma anche offerto, dice relazione, anzi è esperienza che si produce nell'uomo quando ottiene che si realizzi una relazione desiderata. Una relazione non solo con Dio, ma anche con le creature e con il creato. «L'uomo prova la gioia, — ci ricorda, ancora, Paolo VI — quando si trova in armonia con la natura, e soprattutto nell'incontro, nella partecipazione nella comunione con gli altri»11. E Gesù prega perché questa 'comunione si realizzi tra i suoi discepoli: «Padre santo, custodisci nel tua nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi»(Gv 17,11). E subito dopo aggiunge: «Perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia» (Gv 17,13).
La relazione ha certamente diversa densità e si esprime quindi con manifestazioni eterogenee, ma se è vera essa va assunta sia quando si esprime nel semplice convenire per un banchetto di umana comunione, o per giocare o per far festa assieme'2, sia quando il rapporto si fa più denso nella realtà familiare e nell'amicizia profonda.

tra gli sposi

Nella pienezza dell'amore coniugale, nella dolcezza della comprensione reciproca, nello stupore della vita che si rinnova, la gioia degli
sposi è partecipazione della gioia pasquale del Cristo e motivo di ringraziamento e di lode. Della dinamica relazionale dell'amore coniugale fa parte il dono sessuale nell'amore, momento determinante e costruttivo della realtà di coppia a cui anche il sacramento invita i coniugi (GS 49). Questo dono è, per gli sposi cristiani, esperienza di gioia. Da quando l'uomo ha emesso il primo grido di gioia di fronte alla donna creata (Gen 2,23), dalla rivelazione, l'amore tra l'uomo e la donna, voluto da Dio, è statti visto come cosa buona ed è stato cantato come fonte di gioia e di piacere. È importante allora che gli sposi cristiani sappiano accettare la sessualità con la serenità e la cordialità che provengono dalla fede nella bontà intrinseca delle opere di Dio e sappiano gioire di tutti quei gesti di tenerezza nei quali l'amore coniugale si incarna, si trasmette ed è accolto. Certo nel piacere donato e accolto attraverso tutte le vibrazioni dei sensi sono possibili la menzogna e l'illusione, ma quando esso è autentico, quando esprime e favorisce l'amore coniugale allora è gioia piena.

tra gli amici

Altra relazione fonte di gioia è l'amicizia. «Chi trova un amico, trova un tesoro» (Sir 6,14), ci ricorda la sapienza biblica. L'amicizia è qualcosa di più del semplice stare insieme. Essa è per sua natura gratuita: nasce dove non si è piantato, cresce senza bisogno di giuramento o di legge. Improvvisa, inattesa spunta nell'intimità spirituale tra due persone e quando questo avviene si coglie l'essere dell'altra persona e nel mistero dell'altro è come se si percepisse in un riflesso debole ma reale, l'invisi-bile. «Cogliere l'infinito nel finito: ecco l'essenza dell'amicizia»" Quando questo avviene, quando si verifica un'amicizia trasparente, limpida, non accaparratrice, tutti i sensi vibrano ed esplode la gioia: «Un amico fedele è un balsamo di vita» (Sir 6,16), ci consola sempre la sapienza biblica; ed è dono di Dio:«lo troveranno quanti temono il Signore» (Sir 6,16). Nell'amicizia la provvidenza di Dio si presenta come dono che si concentra sul volto dell'amico.
Gesù ha vissuto amicizie profonde: con Lazzaro, con Marta e Maria e con loro ha pianto e ha gioito (Gv 11,5.11). Sulla scia di Gesù, nella tradizione cristiana sono presenti testimoni che hanno tratto consolazione e gioia da un autentico rapporto amicale. Tra questi, mi piace ricordare Benedetta Bianchi Porro, creatura, vicina a noi nel tempo e nel sentire. Essa, sebbene assediata da una grave malattia, sorda, totalmente paralizzata, priva di ogni facoltà sensitiva e alla fine anche cieca, ha saputo farsi amica sollecita verso chi a lei si avvicinava. E, a sua volta, nell'affetto degli amici ha saputo cogliere una presenza che le ha consentito di vivere intensamente. All'amica Franci, scrive: «Vorrei tanto ringraziarti della tua lettera, che mi è giunta proprio quando mi sembrava di boccheggiare e sentivo la speranza sbiadire per dar posto in me ad un infinito senso di dolore e di angoscia. Poi ho avuto la gioia di farmi trasmettere le tue parole e mi è sembrato per un attimo di essere composta di vetro, e che tu scrivendomi vedessi dentro di me, nell'anima. Ho sentito che l'aiuto di Dio, tramite tuo, mi veniva incontro e mi dava una gioia più grande di quanto tu possa immaginare»14. Benedetta ha sperimentato che Dio dona il pane che rende forti attraverso il gesto degli amici, e dalla sua estrema povertà non si è vergognata di chiedere questo pane.
Certamente l'amicizia infrange i limiti del proprio io, e perciò è anche causa di dolore. Ma solo chi entra nel rischio dell'amicizia, chi non si ripiega su se stesso, ma in modo umile e con perseveranza quotidiana, passando anche attraverso tappe dolorose, va incontro all'altro in modo gratuito e contemplativo, sperimenta quanto sia gioioso «camminare in festa», assieme all'altro «verso la casa di Dio» (Sal 55, 15).

per concludere

L'esemplificazione, ovviamente, non esaurisce le numerose gioie legate alle varie relazioni umane. Ma intenzione di questa riflessione non era questo, ma quello di evidenziare che la gioia non è un lusso nella vita umana, ma una vocazione nella quale Dio stesso ci coinvolge. La sorgente della gioia cristiana, infatti, è certamente la comunione con Dio, ma è motivo di gioia anche tutto ciò che è uscito dal cuore di Dio. Le persone, la bellezza della natura, le cose sono tutte motivo di gioia perché esse sono come orme del passaggio di Dio. É importante, allora, per il credente sapere che il gioire nel relazionarsi con le creature e con il creato non è un male, anzi è esperienza che fa crescere in umanità se la relazione è ispirata da amore gratuito.

da O.Carm

SANTA TERESA MARGHERITA DEL SACRO CUORE DI GESÙ

(ANNA MARIA REDI)
1747 -1770
Festa, 1  settembre

L'infanzia
thumb Sacratissimo Cuore di Gesu 2Sacro Cuore di GesùAnna Maria Redi nasce nel 1747 da una nobile famiglia aretina. Il papà, Ignazio, è "Balì" (cioè Gran Maestro) dell'Ordine Militare Cavalleresco di S. Stefano Papa. La madre, Camilla Ballati, è una nobildonna senese: la piccola Anna Maria sente la mamma un po' troppo estranea, soprattutto quando la vede incline a una vita spensierata e salottiera, anche se è una donna cagionevole di salute. Anna Maria ha invece una vera passione per il papà, giovane uomo di ventisette anni, con il quale ha una profonda e spirituale sintonia; non solo perché egli accondiscende ai suoi giochi e si prende cura della sua educazione, ma soprattutto perché egli risponde sempre alle sue innumerevoli domande su Dio e sul mondo degli angeli. Fu il papà a insegnarle a pregare, a spiegarle la sacra dottrina, a farle gustare i sacramenti, a farle amare la natura e i messaggi che da essa promanano. 
Ma c'è di più. La casa di Ignazio Redi si era aperta alla devozione del Sacro Cuore, proclamata alcuni decenni prima dalla monaca visitandina Margherita Maria Alacocque che diceva d'aver avuto una particolare rivelazione. Allora la Chiesa non si era ancora espressa (la beatificazione della monaca visitandina sarebbe avvenuta un secolo dopo): la festa che oggi si celebra con tanto affetto sarà estesa al mondo intero solo nel 1856. Il cuoricino che la piccola aveva era tutto pieno dell'amore per suo padre, e il papà le diceva che il cuore di Dio era ancora più paterno e più affettuoso del suo, e glielo faceva esperimentare. «Lo sa bene Gesù – dirà più tardi Anna Maria al suo confessore – che io fin da piccina non ho mai voluto altro che piacere a Lui e farmi santa».

Il papà come direttore spirituale
A nove anni – secondo l'uso del tempo – venne affidata a un monastero di benedettine per ricevere una istruzione adatta al suo rango. La ragazza, tra i dieci e i quattordici anni, sceglie come sua guida spirituale il papà, col quale "stringe una alleanza spirituale", mantenendo con lui una fitta corrispondenza. Ignazio racconterà poi la meraviglia che provava al vedere "quanto profondamente lo Spirito di Dio si comunicava a un'anima in così tenera età".
Quando, proprio lui, dovrà testimoniare ai processi canonici per la beatificazione di quella figlia amata, morta a soli 22 anni, dirà: «arrossisco, perché io peccatore ho osato istruire una vera santa». Il biografo commenta: «è forse l'unico caso dell'agiografia cristiana in cui una giovane abbia avuto come direttore spirituale il proprio babbo». Questa esperienza unica, più che rara, avrà per Anna Maria una duplice conseguenza benefica: da un lato il papà le divenne "doppiamente padre", dall'altro lato la ragazza non farà più alcuna fatica a considerare come suoi veri padri i sacerdoti, ai quali in seguito si affiderà nel sacramento e per la direzione della sua anima. E anche Ignazio fece l'esperienza, invidiabile per un padre, di cosa sia avere non soltanto una figlia di sangue, ma anche – come diceva splendidamente – "una figlia dell'anima".

La chiamata al Carmelo
Quando Anna Maria tocca i sedici anni di età, le accade l'unico episodio della sua vita che abbia qualcosa di straordinario: si presenta al parlatorio del monastero benedettino una fanciulla di Arezzo; viene a salutare le suore che la hanno educata da bambina, e le altre collegiali, perché ha deciso di entrare nel Monastero Carmelitano di Firenze. Per qualche minuto, in quel parlatorio, tutti parlano del Carmelo, ed ecco che Anna Maria sente dentro di sé, chiaramente, una voce che le dice: «Sono Teresa di Gesù e ti voglio tra le mie figlie». Emozionata fugge via e corre a gettarsi davanti al tabernacolo, e la voce interiore le ripete con più forza ancora: «Io sono Teresa di Gesù, e ti dico che ti voglio tra le mie figlie». Racconterà poi Anna Maria che si era sentita «come se le stringessero il cuore in un abbraccio, con un gran fuoco» e che «le pareva dall'allegrezza di essere diventata pazza...».
Tornò in famiglia e attese in affettuosa obbedienza il compimento dei diciassette anni di età: il papà le aveva detto che prima di allora non voleva discutere con lei di progetti vocazionali. Doveva usare i mesi che ancora mancavano pregando e riflettendo e lasciandosi condurre da Dio. Anna Maria cerca silenziosamente di vivere già come una carmelitana: quello che sa con certezza è che dovrà offrire tutto, e perciò innesta nelle giornate e nelle abitudini dei segni della sua appartenenza a uno Sposo Crocifisso: piccole e grandi rinunce colte al volo nel normale scorrere degli avvenimenti, qualche sofferenza volutamente ricercata, e il dominio costante della propria istintività.
Nel Settecento, pettinarsi con acconciature elaborate e preziose è per le donne "il problema del secolo; ma il parrucchiere che viene spesso ad acconciare le donne di casa Redi, osserva strabiliato che quella fanciulla – al termine del suo lungo lavoro – rifiuta lo specchio che egli le offre. «Grazie, non importa», risponde l'Annina.
Finalmente Anna Maria può decidere della sua vita, ma il papà esige prima che la ragazza venga esaminata da tre dotti e santi ecclesiastici, tra cui il Padre Provinciale dei Carmelitani. Costui – uomo particolarmente severo – le descrisse i rigori della vita carmelitana a tinte così forti che avrebbero sgomentato chiunque. Ma sembrava che Anna Maria desiderasse proprio quella radicale dedizione. Alle monache il Provinciale riferì poi di non avere mai incontrato una ragazza così: sembrava che S. Teresa d'Avila se la fosse preparata con le sue stesse mani. Nella lettera che ella scrisse al Carmelo, per chiedere l'ammissione, usò una espressione che sembra anticipare tutto ciò che dovrà poi accaderle: disse che voleva «fare a gara con quelle buone religiose nell'amare Iddio».
Nel monastero di Santa Teresa, a Firenze
thumb 640px-Monastero di Santa teresaEx Monastero di Santa Teresa, FirenzeNel monastero in cui la ragazza chiede di entrare, vive ormai una comunità molto invecchiata, nella quale non erano entrate novizie da più di vent'anni. Quando Anna Maria si presenta alla porta del monastero, la Priora e le sue quattro consigliere hanno tutte più di settantadue anni. In pratica, 10 monache sono molto anziane e molto malate, e delle quattro in età giovanile (attorno alla trentina) una sta per ammalarsi in maniera ancora più seria e distruttiva di ogni altra. Altre quattro sono novizie, coetanee della nostra Santa.
Volle chiamarsi Teresa Margherita del S. Cuore di Gesù: Teresa, come la contemplativa di Avila; Margherita come la monaca visitandina che aveva chiesto ai cristiani di restituire "amore per amore" al cuore trafitto del Figlio di Dio. Disse subito, con assoluta sincerità, che «non avrebbe cambiato il suo stato col più felice del mondo, perché si trovava in Paradiso», e aggiunse che «era per lei una grazia esser venuta a fare da serva a quegli angeli». Cercò anzitutto di nascondersi nell'umiltà per lasciarsi guardare soltanto dal suo Sposo Divino, e vibrava di gioia a quell'avvertimento di S. Paolo che ai primi cristiani diceva: «La vostra vita è nascosta con Cristo, in Dio». In uno dei rari testi che ella ci ha lasciato si legge questa preghiera: «Mio Dio... ora e per sempre io intendo rinchiudermi nel vostro amabilissimo cuore, come in un deserto, per condurvi con Te, per Te, in Te, una vita nascosta di amore e di sacrificio».
Nel monastero di Firenze, la Maestra di noviziato aveva allora 78 anni: era davvero una educatrice eccezionale, ma oltre ad essere vecchia era anche tanto malata. Teresa Margherita venne scelta dalla Priora per assistere la Maestra come infermiera. Accadeva che la Maestra, pur provando una infinita tenerezza per la sua generosa novizia-infermiera, non le risparmiava proprio niente: nessun errore, nessuna distrazione, nessuna inavvertenza. Cercava volutamente pretesti per correggerla. Teresa Margherita moltiplicava le sue cure e le sue attenzioni, custodendo nel cuore e sulle labbra un'esclamazione adorante che aveva imparato dalle antiche tradizioni dell'Ordine Carmelitano. Si ripeteva: «Hic est Christus meus»: "è il mio Cristo" a parlarmi, a correggermi, ad esortarmi, ad essere esigente col mio amore. A volte qualche monaca diceva alla Maestra che quel suo rigore era davvero eccessivo, ma la vecchia educatrice rispondeva: «Non lo farei, se non fossi sicura di lei».
Fu così che Teresa Margherita visse il suo noviziato: da un lato assorbiva il normale ritmo della vita monastica, e dall'altro imparava a conoscere Dio, e il suo amore, e la sua volontà, e le dottrine spirituali in quel sublime incontro tra due anime grandi (la sua e quella della Madre Maestra) che non si risparmiavano nulla. Nel disegno di Dio quella situazione così particolare doveva preparare la giovane monaca a una specifica vocazione.

Al servizio delle membra sofferenti di Cristo
Nella tradizione carmelitana Teresa Margherita rimarrà come «la santa infermiera», titolo piuttosto originale per un Ordine dedito esclusivamente alla vita contemplativa. Da un lato ella doveva offrire alla Chiesa l'esempio di come si possano amalgamare tra loro la più totalizzante esperienza contemplativa e la più estenuante dedizione attiva alle membra sofferenti di Cristo; dall'altra ella doveva immergersi in un dramma mistico di cui vedremo tra breve la inaudita profondità.
Anzitutto dobbiamo dire che Teresa Margherita fu una infermiera volontaria: era entrata al Carmelo per cercare Dio solo, e Dio decise di manifestarsi a lei in quelle anziane sorelle che si ammalavano una dopo l'altra, e di cui ella chiedeva spontaneamente di prendersi cura.
Un monastero carmelitano – in cui le monache non possono essere più di una ventina – è un piccolo mondo in cui le responsabilità e gli uffici sono accuratamente distribuiti in modo che tutto proceda in maniera armonica ed efficiente. Se qualcuna si ammala le altre devono assumersi non solo il peso della assistenza richiesta, ma anche i compiti che la malata deve intanto abbandonare. Non è perciò difficile immaginare che cosa accadde, nel monastero di Teresa Margherita, quell'anno in cui più di dieci monache si ammalarono contemporaneamente in forma grave: ella si assunse il peso della assistenza a tutte le inferme, con una tale naturalezza che le altre finirono per considerarla una cosa normale. Di fatto ciò significava per lei la rinuncia ad ogni istante di tempo libero.
Affidare ciascuna nelle mani di Dio
thumb tmrS. Teresa Margherita RediC'era una monaca ormai ottantenne che era stata resa dalla malattia ombrosa e irritabile. Teresa Margherita la accudiva con tanta dedizione che la vecchietta ne era tutta soddisfatta, e diceva che mai aveva trovato una infermiera come quella. In comunità si notava che la malata era diventata così allegra che la Maestra chiese alla giovane come avesse fatto a ottenere quel risultato: Teresa rispose con semplicità che, sapendo la malata incontentabile, «lei l'aveva collocata nelle mani di Dio e ne aveva dato tutta la cura a Maria Santissima».
Un giorno nel refettorio deserto è rimasta una monaca dolorante che cincischia il suo povero cibo senza riuscire a masticarlo per un terribile mal di denti che la tormenta. Teresa Margherita, che ha servito a tavola ed è l'unica rimasta, le si avvicina, la guarda con compassione; al Carmelo vige la regola del silenzio, ma lei sembra dimenticarla: «Poveretta – le dice – lei spasima e perciò non può prendere cibo». Poi improvvisamente si china e le dà un bel bacio sulla guancia malata. La poveretta sente un dolore acutissimo che però subito scompare, per sempre. Vivrà ancora lunghi anni, ma non soffrirà mai più di quel male. La cosa fa un tale scalpore che se ne parla anche fuori del monastero, ma Teresa Margherita si sente tutta confusa perché ha mancato due volte alla Regola: parlando in tempo di silenzio e lasciandosi andare a una manifestazione affettuosa inusuale nel chiostro, perciò ne chiede perdono alla priora.
Un'altra anziana inferma è notoriamente sorda, tanto da non intendersi nemmeno col confessore, e ha un filo di voce. Anche lei non vuole altra assistenza che quella di Suor Teresa Margherita. E con l' infermiera discorre tranquillamente, e senza usare nemmeno il cornetto acustico. Non solo ma, quando Teresa Margherita è lontana, ad assistere altre malate, e la vecchina la chiama con voce flebilissima, lei la sente e da lontano risponde senza gridare, e la povera sorda la ode e si acquieta. Quando infine è giunto il suo turno, si lascia accudire in tutte le sue necessità e chiede alla Santa: «E adesso mi parli di Gesù!». Un giorno, senza che loro lo sappiano, c'è nella stanza accanto il prete venuto a comunicare l'inferma. L'hanno fatto aspettare apposta perché possa ascoltare: Teresa Margherita suggerisce all'inferma atti di fede e di abbandono in Dio, la esorta ad offrire a Lui ogni sofferenza, e soprattutto le fa ripetere atti di amore e di speranza. «Dovevo farmi forza per non piangere» racconterà poi il prete; e aggiungeva che molti sacerdoti avrebbero dovuto imparare da lei la maniera di assistere i malati e i moribondi.

Restituire amore per amore
Il poco tempo che le restava consisteva in prendere in tutta fretta un boccone (quando era possibile) e dedicarsi alla preghiera e al rapporto personale con Dio. Ma tutto ciò nascondeva un dramma mistico la cui profondità ci sfuggirà sempre. Si tratta di questo: Teresa Margherita aveva tratto dalla sua devozione al Sacro Cuore un norma di comportamento cristiano che ella esprimeva impetuosamente così: «bisogna restituire amore per amore». E poiché Gesù ci ha amato soffrendo per noi, noi dobbiamo voler soffrire per Lui. Non si trattava di inventare niente; le malate della sua comunità concretizzavano per lei ambedue questi movimenti d'amore e di croce: esse erano per lei l'immagine di Cristo che soffriva, e lei, per amarLo, doveva assumersi con gioia il durissimo peso del servizio. Diceva: «Lui in Croce per me, io in croce per Lui». Questo era l'ideale al quale si era consacrata per sempre. Il confessore di Teresa Margherita la vedeva crescere in questo amore divino come se un incendio interiore la bruciasse tutta, fin quando ella sembrò toccare l'intima sostanza di quel fuoco. La ragazza aveva solo vent'anni.
Una Domenica in coro, durante la liturgia, risuonarono le parole latine: «Deus Charitas est, et qui manet in charitate in Deo manet et Deus in eo» ("Dio è Amore. Chi resta nell'amore rimane in Dio, e Dio rimane in lui"). Teresa Margherita le aveva sentite indubbiamente spesso, ma quella volta ne rimase come posseduta: per alcuni giorni restò come trasognata, la vedevano muovere le labbra e capivano che si ripeteva quelle parole come ad assaporarle ripetutamente. Chiamarono il confessore, temendo si trattasse di una crisi isterica. Dopo averla ascoltata a lungo, nel segreto della Confessione, costui si limitò a dire alle monache: «Vorrei che tutte aveste la malattia che ha Suor Teresa Margherita». Quando ella riuscirà a spiegarsi, dirà che il pensiero di «vivere nella vita di Dio» e che «Dio viveva in lei», e che «era una sola vita, una sola carità, un solo Dio!» – un pensiero così! – l'aveva riempita di una gioia indicibile, tale che non c'era più spazio per altro.

La notte oscura
thumb stmrTela raffigurante S. Teresa Margherita e il Sacro CuoreE qui comincia il dramma: a partire da questo stesso momento in cui ella sembra essersi avvicinata al cuore stesso della Divinità, Dio le toglie ogni "sensazione d'amore": prova ancora un desiderio sconfinato di amare Dio, ma come di qualcosa di cui ella è assolutamente priva: è infinitamente lontana da ciò che è amore, infinitamente indegna. Lei non ama Dio, non lo ha mai amato: ed è un pianto irrefrenabile, come se tutta la sua vita si raggrumasse nell'angoscia di essere priva di Dio. Gli esperti di esperienza mistica sanno di che si tratta. Permettendo questa terribile esperienza, Dio si prefigge due scopi (di altissimo amore). Da un lato Egli toglie alla creatura ogni ombra di egoismo. «Molti – spiegava S. Francesco di Sales – invece di amare Dio per far piacere a Lui, Lo amano per le consolazioni che provano nel suo santo Amore... Invece di essere "amanti di Dio", divengono amanti dell'amore che egli portano...». Il cammino mistico conduce nel centro della notte più oscura, perché soltanto là è possibile vedere sorgere il Sole in tutta la sua splendente gratuità.
Il secondo scopo che Dio si prefigge è quello di spiegare alle anime che più lo amano (e che Egli più ama) uno dei suoi più profondi misteri: che Egli "dà via" i suoi eletti – come ha fatto con suo Figlio – perché raggiungano i perduti e i disperati, condividano le loro angosce: fatti simili a loro in tutto, eccetto che nel peccato. E in modo che amino infinitamente quanto più sembrano privati d'amore, anche in sostituzione di chi ne è privo davvero.
Come affrontò una simile prova questa ragazza di vent'anni? Teresa Margherita decise di gettarsi a capofitto nell'unico amore che le restava possibile: sapendo per fede che Dio ha legato assieme i due grandi comandamenti (la carità verso di Lui e la carità verso il prossimo) decise di amare il suo prossimo – quelle malate che restavano lì, davanti a lei, e chiedevano di essere amate – e di amarlo divinamente.
Le venne concessa anche l'ultima crocifiggente esperienza, quando una delle consorelle più giovani si ammalò di demenza precoce, con periodiche crisi di violenza. Teresa Margherita si offrì volutamente, chiedendo di poter dare una mano nei momenti più difficili, finché pian piano anche quel difficile peso cadde tutto sulle sue spalle. Teresa Margherita, prima di entrare nella cella della malata, s'inginocchiava brevemente davanti a una immagine della S. Vergine, lì vicino, e a lei la affidava. E chiedeva coraggio. Poi era pronta ad accettare tutto: dagli strapazzi, agli insulti furiosi, a quel dover andare di qua e di là, senza quasi un respiro, per vedere di contentarla quanto più fosse da lei dipeso... e non dide mai segno minimo di stanchezza o di fastidio.
Accadde una volta che ella dovette fuggire in fretta perché la pazza aveva tentato di percuoterla: si rifugiò tutta tremante nella stanza di una consorella e si sfogò: «Non ne posso più!». La sera chiese perdono alla comunità dello scandalo dato, come se avesse commesso un grave peccato. «Fuggiva ogni occasione di essere da noi compatita», testimoniarono le sorelle. Eppure tutte sapevano che il suo carattere era «vivace e acceso»: nei primi tempi della vita monastica l'avevano vista spesso arrossire violentemente, nello sforzo di dominarsi davanti a qualche contrarietà.
Ma ora bruciava dentro, per quell'amore che voleva dimostrare a ogni costo al suo Dio che sembrava nascondersi e che pure era così presente nella sofferenza estrema di una sorella privata del più grande bene.

Consumata dall'amore di Dio
Aveva soltanto ventidue anni. Benché conducesse una vita di fatiche e di sacrifici, sembrava che la salute non ne scapitasse, anzi pareva che le sue forze crescessero di giorno in giorno. Ma una sera, mentre fa il solito giro delle malate, un violento attacco di dolori colici la piega fino a terra. Accorrono le consorelle che l'aiutano a stendersi sul suo pagliericcio. Mentre attendono il medico, Teresa Margherita chiede che tutte recitino con lei cinque Gloria Patri in onore del Sacro Cuore. Il medico non dà troppo peso all'accaduto. In realtà è in atto una peritonite, e la cancrena è già cominciata. Tiene tra le mani un Crocifisso e lo bacia a lungo con indicibile tenerezza. Nessuno si accorge che sta morendo. Al pomeriggio una sincope improvvisa. Riescono a darle gli ultimi sacramenti ma all'ultimo istante, quando forse è già morta.
Il giorno dopo, le esequie. A notte il corpo viene portato nei sotterranei del monastero – secondo gli usi del tempo – per una veloce sepoltura. Ma ecco che il corpo, contro ogni previsione, è ridiventato bello, giovane, come se fosse vivo. La sepoltura viene sospesa, nell'attesa che l'Arcivescovo decida il da farsi. E intanto nel sotterraneo si espande continuamente uno straordinario profumo che tutti possono constatare. Quando l'Arcivescovo giunge, dopo sedici giorni, accompagnato da quattro medici, trova «il corpo tutto flessibile, l'occhio umido, il colorito di una che sia perfet-tamente sana, inclusive la pianta de' piedi di sotto, rossa come se avesse molto camminato sino ad ora, insomma pare che dorma...». 
«Come se avesse molto camminato...»: infatti era stata una contemplativa sempre in cammino nei lunghi corridoi del monastero a soccorrere le sue malate. E proprio questa grazia aveva chiesto a Dio: di «morire infermiera». Quel corpo è ancora oggi incorrotto. E le monache, fin dalla prima liturgia funebre, senza quasi accorgersene, non cantarono la "Messa per i defunti", ma quella "delle Sante Vergini". A casa Redi, il papà Ignazio riceveva in ricordo il Crocifisso che la figlia aveva tenuto tre la mani morendo. E anche da quel crocifisso, esattamente dalla piaga del costato, emanava lo stesso intenso profumo. Ed egli sentiva un profumo per la prima volta, perché per tutta la vita era stato privo del senso dell'olfatto. Era un piccolo miracolo, un piccolo dono che l'Annina faceva a colui che l'aveva educata alla fede. 
È satata proclamata santa dal Beato Pio IX il 19 marzo 1934.

di P. Antonio Maria Sicari ocd
da Riflessi di Dio - I Santi del Carmelo, EDIZIONI OCD, Roma 2009.
da | carmeloveneto.it

Patriarca Younan: genocidio di cristiani in Siria, traditi da Paesi democratici


 

Sono più di 350 i cristiani rapiti nel Nord Est della Siria dai miliziani del cosiddetto Stato Islamico e alcuni di loro sono stati già uccisi. Almeno 3mila i cristiani in fuga dai villaggi attaccati. Molti di loro sono siro-cattolici.

Ascoltiamo il patriarca della Chiesa siro-cattolica Ignace Youssif III Younan, al microfono di Sergio Centofanti:


R. – E’ una situazione drammatica! Fra i cristiani, i civili, le centinaia di persone che sono state rapite, una ventina sono stati sicuramente già uccisi.
D. – C’è già chi parla di un genocidio di cristiani in Siria…
R. – Sicuramente è un genocidio! Chiediamo ai nostri fratelli e sorelle dell’Europa, specialmente ai cattolici, ai veri cattolici, di pensare ai loro fratelli e sorelle del Medio Oriente che stanno sopportando queste persecuzioni.
D. – Che appello lancia alla Comunità internazionale?
R. – Lanciamo un appello alla giustizia. La Comunità internazionale - le Nazioni Unite, gli Stati Uniti, l’Unione Europea – purtroppo ci ha veramente tradito! Stanno solamente cercando i loro interessi economici nel petrolio. Sono alleati con sistemi di governo che sono fra i più integralisti del mondo, dove non ci sono libertà né religiose né civili e dove la donna non ha quasi nessun diritto. Ebbene, stanno dimenticando i loro principi di vera democrazia.
D. – Come fermare i jihadisti?
R. – Prima di tutto cessando di armare le cosiddette opposizioni moderate: non ci sono opposizioni moderate nel Medio Oriente! Finché noi non abbiamo una chiara separazione tra religione e politica, non avremo mai una vera, democratica e moderata opposizione. Tutto questo è solo una illusione!
D. – Il Papa sta continuando a pregare per i cristiani perseguitati in Siria e in Iraq…
R. - Esatto! Noi siamo molto, molto grati per a Sua Santità. Sin dall’inizio del suo Pontificato si è confrontato con questi drammi del Medio Oriente, dove ci sono persecuzioni, dove ci sono uccisioni e deportazioni. Abbiamo fiducia che il Santo Padre continuerà a difendere la causa dei deboli, di coloro che sono ignorati da quei Paesi che vedono solo il petrolio come ciò che salverà la loro economia. Questi popoli dell’Unione Europea, così come quelli dell’America Settentrionale, devono pensare che ci sono principi e valori su cui i loro stessi Paesi sono stati fondati e non devono tradire questi principi e questi valori. Noi sappiamo che il Santo Padre proclama ovunque che l’uomo non vive soltanto di pane, ma di ogni parola pronunciata dalla bocca del Signore e questo vuol dire parola di pace e di verità.

da | radiovaticana.va

“Questi è il mio Figlio prediletto: ascoltatelo!""

 

“Questi è il mio Figlio prediletto: ascoltatelo!""

Carissimi fratelli e sorelle,
dopo averci introdotti con Lui nel deserto e averci fatto gustare la bellezza della vittoria su quanto vorrebbe sedurci e allontanarci dalla nostra verità di uomini e donne liberi, il Signore Gesù oggi ci prende per mano e per mezzo della Chiesa ci fa salire con Lui sul Monte della Trasfigurazione perché possiamo già quaggiù godere qualcosa di quella vista beata che avremo lassù quando saremo per sempre con Lui.
Erano passati pochi giorni da quando Pietro era stato severamente ammonito e rimproverato da Gesù… – ricordate? – quando Gesù lo chiamò addirittura satana: “Lungi da me, satana. Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8,33).  Pochi giorni dopo quel rimprovero, Gesù prende con sé Pietro, Giovanni e Giacomo, gli stessi che erano stati presenti al miracolo della resurrezione della figlia di Giaro, il capo della sinagoga (cfr. Mc 5,37), gli stessi che vorrà ancora vicino a sé nel Getsemani (cfr. Mc 14,33), e li conduce su un monte che la tradizione vuole identificare nel Monte Tabor.
In tutte le religioni la montagna ha una pregnanza di sacralità, in particolare nella nostra religione che affonda le sue radici nella storia biblica. Sarà su un monte, il Sinai o Oreb, che Mosè verrà chiamato da Dio nel prodigio del roveto ardente (Es 3,1ss), sarà sullo stesso monte che ancora Mosè riceverà da Dio la sua Legge (Es 19,1ss; 24,12ss), sarà sempre sullo stesso monte che Elia s’incontrerà con Dio nel silenzio di una brezza leggera (1Re 19,9ss).
La montagna è un luogo particolarmente idoneo all’incontro con Dio perché davanti alla montagna e sulla montagna l’uomo si sente piccolo, sente tutta la sua piccolezza e afferra qualcosa della maestà e della potenza di Dio. Ecco, proprio questo termine oggi non più usato, maestà, che in passato era servito molto ad esprimere quest’aspetto della trascendenza di Dio e – direi – che, soprattutto noi uomini e donne moderni, avremmo bisogno di riscoprirne l’importanza. Oggi abbiamo perso il senso della “sacralità”, della trascendenza, della maestà di Dio, e ne abbiamo perso di conseguenza il rispetto. Trattiamo di Dio come si tratta qualunque altra materia o argomento, dimenticandoci che l’unico modo corretto di poter parlare di Dio è quello di mettersi in ginocchio. Gli Ebrei avevano talmente forte il senso della trascendenza e della maestà di Dio che si sentivano indegni anche di nominarlo, per loro nominare il nome di Dio era sporcarlo, bestemmiarlo. Per noi invece è diventato il nostro compagnetto di giochi, il nostro fratelletto più piccolo! Mentre Dio è Dio. E se tante cose di Dio siamo lontani dal comprenderle, il motivo fondamentale spesso sta nel fatto che Dio si rivela e rivela i suoi segreti solo alle persone umili, piccole e non a chi crede di sapere tutto, di poter giudicare tutto, di sentenziare su tutto anche su Dio…
Ebbene oggi Gesù prende questi tre Apostoli e li porta con sé sul monte e in loro tre porta ciascuno di noi: salire la montagna non è cosa facile, ma se tu accetti la fatica vedrai la gloria di Dio. È una strada esigente. Ci fa compagnia oggi su questa strada anche un altro personaggio: Abramo. Anche lui sale oggi su un monte, vi sale per sacrificare il proprio Isacco. Se vogliamo vedere la gloria di Dio anche noi come lui, salendo su questo monte dobbiamo avere nel cuore questa disponibilità nell’animo nostro di sacrificare i nostri Isacchi. Ognuno di noi ha il suo Isacco da sacrificare e finché nel nostro cuore non affiora silenziosa questa disponibilità assoluta, totale al distacco dal nostro piccolo o grande Isacco, non vedremo la gloria di Dio. Quale grande esempio ci dà oggi Abramo con la sua mano ferma pronta al sacrificio della cosa più cara della sua vita. Cosa era più caro ad Abramo d’Isacco? Pensiamoci, pensiamoci, perché qui sta tutto, qui sta tutto!
Tutta una vita aspettando la realizzazione di una promessa di Dio, quando la speranza sembra perduta ecco la realizzazione, ecco il figlio della vecchiaia, ecco il “Sorriso di Dio”, ecco Isacco e ora, Dio, gli chiede proprio Isacco. Abramo avrebbe dovuto protestare… non lo fa perché ha un forte senso di Dio e per lui Dio è tutto, ma è tutto sul serio e così accetta e ubbidisce e diventa padre nostro nella fede. Ha veramente creduto a Dio e ha visto la sua gloria (cfr. Gv 11,40), di lui infatti dirà Gesù che “esultò nella speranza di vedere il suo giorno, lo vide e ne gioì” (Gv 8,56).
Ecco, carissimi fratelli e sorelle se anche noi vogliamo essere partecipi della visione della gloria di Dio che risplende oggi in Gesù che si trasfigura sul Tabor saliamo questo monte come lo salì Abramo: qual è questo Isacco che Dio mi chiede di sacrificargli? In realtà gli Isacchi che appesantiscono questa salita e ci fanno arretrare nel nostro cammino sono tanti, volesse il cielo che in ogni Quaresima ne individuassimo uno, uno che morisse con Gesù nella Pasqua. Se ad ogni Quaresima ne individuassimo uno da offrire al Signore, saremmo ben presto dei grandi santi! Ma, se di fatto ci è così difficile rinunciare alle nostre sicurezze, ai nostri appoggi, ai nostri affetti per appoggiarci unicamente su di Lui, se ci è così difficile, nondimeno possiamo esercitarci nel desiderio, nel desiderare una grande libertà interiore, desiderare una grande e assoluta capacità di dare tutto a Colui che è tutto e ci ha dato tutto, dare amore a Colui che ci ama troppo e di più, rispondere a Dio con la sua stessa misura di un amore senza misure! Coltiviamo questi desideri e affidiamoli all’Amore di Dio.  Se non riusciamo a riempire il nostro cuore di amore fattivo verso Dio, almeno riempiamolo di desiderio d’amore: desideriamo fortemente e incessantemente di amarLo come Lui ci ama, non cessiamo di alimentare questi santi desideri e Dio ci mostrerà la sua potenza nella nostra vita che il suo Santo Spirito vuole ribaltare, scombussolare, rivoluzionare, aspetta solo il nostro permesso per agire!
E lì sulla cima di questo monte, Lui si trasfigura, cioè fa vedere qualcosa, un raggio di ciò che Lui è, la sua gloria, bellezza, santità, il suo splendore di Figlio di Dio, è una vista che fa estasiare Pietro, Giacomo e Giovanni che vedono anche Mosè e Elia che parlano con Gesù, Mosè ed Elia, cioè tutto il Vecchio Testamento che è stato di preparazione a questa rivelazione del Figlio di Dio: è “la pienezza dei tempi” (Gal 4,4) e s’ode la voce del Padre che invita tutti a seguire, ascoltare questo Suo Figlio benedetto: “Questo è il Figlio mio prediletto, ascoltatelo!”
Pietro, Giovanni e Giacomo rimangono attoniti, presi, estasiati a tale vista, vorrebbero rimanere lì per sempre e invece ecco che devono scendere dal monte, tanta fatica per salire… e ora bisogna scendere a valle, bisogna affrontare gli uomini, la condanna a morte, il Calvario, la morte, il sepolcro. Gesù li aveva condotti lì appunto in vista di tutto quanto stava per accadere. Quella vista doveva servire a controbattere il colpo tremendo dell’altra vista non già gloriosa, bella ed estasiante, ma umiliante, avvilente e brutta di un uomo vilipeso e nudo e crocifisso e morto.
Due considerazioni veloci.
1) Facciamo tesoro dei momenti di consolazione, dei momenti in cui sentiamo Dio vicino che ci vuol bene e ne sentiamo tutta la bellezza e la bontà. Facciamo tesoro di quei momenti, perché non sempre si sta sulla montagna, ma bisogna scendere prima o poi a valle dove c’è una croce che ci aspetta!
2) Gesù tutto quello che è e che ha ce l’ha donato comunicandocelo nel santo Battesimo: la sua gloria, la sua santità, i suoi meriti, la sua bellezza, la sua figliolanza divina: Lui ci ha consegnato Se Stesso, tutto Se stesso come dono dell’esagerato amore che il Padre ha per noi (seconda lettura). Se potessimo vedere quanto sono belle le nostre persone agli occhi di Dio, quando – chiaramente – siamo in grazia! La vita cristiana può leggersi anche sotto l’immagine della Trasfigurazione: lo Spirito Santo che ci lavora, giorno dopo giorno, Quaresima dopo Quaresima, Pasqua dopo Pasqua, per trasfigurarci, per far risplendere in noi la bellezza, la santità e la gloria del figlio di Dio, della figlia di Dio. Lo Spirito Santo che lavora le nostre persone di “gloria in gloria” (2Cor 3,18) per renderle conformi al nostro Modello, a Gesù nostro Fratello primogenito.
Ecco, carissimi fratelli e sorelle, qui si apre un campo vastissimo di contemplazione della gloria di Dio, della bellezza di Dio, della santità di Dio, per noi in cammino verso il Cielo dove vedremo finalmente la gloria di Dio “faccia a faccia” (1Cor 13,12). Mentre camminiamo su questo mondo possiamo contemplare Dio solo con la contemplazione della fede, la fede ci permette di vedere Dio e la sua gloria, non distintamente, Paolo dice “confusamente come in uno specchio” ” (1Cor 13,12) – come in uno specchio dei suoi tempi che confondeva e distorceva le immagini, non uno specchio dei nostri tempi che riflette perfettamente! Se noi solo attivassimo in noi questa fede, quante cose belle vedremmo! Vedremmo la gloria, la bellezza, la santità, la maestà di Dio riflettersi in noi, nelle nostre persone: “La gloria di Dio è l’uomo vivente” (S. Ireneo). Saper cogliere la bellezza spirituale dell’altro! Saper cogliere la santità di Dio nella persona dell’altro, dell’altro che accosti, che incroci, che scontri, che tocchi: Lui ci ha indicato dove trovarLo e quindi dove vederLo: nel povero, nel malato, nel bisognoso, nel piccolo, nei bambini specialmente: “avevo fame, avevo sete, ero nudo, ero carcerato… quello che avete fatto ad uno di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me” (Mt 25,45ss). Abbiamo bisogno di esercitarci in questa contemplazione che facciamo con gli occhi della nostra fede perché i nostri occhi fisici sono distorti da tante cose brutte da cui sono bombardati, invasi e dobbiamo quindi purificare il nostro sguardo con uno sguardo di fede sulle persone e sul mondo. In particolare questo nostro sguardo di fede si deve attivare quando siamo riuniti in assemblea per celebrare l’Eucarestia: dobbiamo imparare a guardarci con occhi di fede per vedere Gesù risplendere con la sua gloria, la sua luce, la sua santità nell’altro. Ogni domenica vedendo il mio fratello, la mia sorella incamminarsi verso la comunione eucaristica, guardandoli con gli occhi della fede, che bello veder risplendere ai nostri occhi le loro anime belle, lo splendore della loro santità, santità condita di tanta fatica, tanto sacrificio nascosto e di amore vissuto. Attiviamo lo sguardo di fede e vedremo e sentiremo presente questo Gesù che è vivo, vivo in me e vivo nel mio fratello che celebra con me l’Eucarestia.
Ma tutto cambia quando non solo comincerò a vedere la gloria di Dio nel fratello, nella sorella, ma comincio a percepirla nella mia persona, perché Lui vive in me e vi ha portato tutta la Sua Potenza, tutta la Sua Gloria, tutta la Sua Bellezza, tutta la sua Santità. Una presenza di grazia che ci commuove perché immeritata, perché ne siamo indegni, perché è un dono troppo grande, troppo bello, troppo tutto! Ecco saper accettare questo troppo di Dio ricambiandolo con il nostro piccolo niente in un atteggiamento di continua umile gratitudine perché riconosciamo che noi non siamo santi, non siamo belli, non abbiamo nulla di cui gloriarci, ma è Lui che ci fa santi, ci fa belli dentro di una bellezza di grazia che risplende nel nostro sguardo limpido, nel nostro cuore pulito, è Lui che ci dà la sua gloria, quella di Figlio di Dio, e questa gloria è il “tesoro” più prezioso che possediamo e lo custodiamo in piccoli “vasi di creta” (2Cor 4,7) così fragili, così delicati: pensate tanta ricchezza, tanto valore, tanto splendore custodito in così grande debolezza… Quanto poco basta infatti per sciuparla, per perderla, per distruggerla! Ci abbiamo mai pensato? Per questo dobbiamo farci forti di Gesù, sia Lui il custode di tanta gloria, occorre darGli spazio per farLo vivere in pienezza e potenza perché Lui è il più forte e noi, invece, siamo tanto deboli! Allora bisogna che “Lui cresca e che noi diminuiamo sempre di più”  (Gv 3,30) in modo che tutta la gloria, la santità, la bellezza che ci ha regalate siano custodite, difese e accresciute da Lui, facciamo in modo che gestisca tutto Lui e niente noi e allora sarà tutto al sicuro, custodito e difeso, e allora potremo presto ben dire con Paolo: “Che bello! Che gioia! Non sono più io – infatti – a vivere, ma è Gesù che vive in me!” (Gal 2,20).
La Vergine Maria che ci accompagna in questo nostro itinerario d’amore ci ottenga la gioia di realizzare tutto questo a lode e gloria del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo
  Amen.                                    
 j.m.j.

Lectio: Domenica, 1 Marzo, 2015

La trasfigurazione di Gesù: la croce nell'orizzonte
La passione che conduce alla gloria
Marco 9,2-10
1. Orazione iniziale

Signore Gesù, invia il tuo Spirito, perché ci aiuti a leggere la Scrittura con lo stesso sguardo, con il quale l'hai letta Tu per i discepoli sulla strada di Emmaus. Con la luce della Parola, scritta nella Bibbia, Tu li aiutasti a scoprire la presenza di Dio negli avvenimenti sconvolgenti della tua condanna e della tua morte. Così, la croce che sembrava essere la fine di ogni speranza, è apparsa loro come sorgente di vita e di risurrezione.
Crea in noi il silenzio per ascoltare la tua voce nella creazione e nella Scrittura, negli avvenimenti e nelle persone, soprattutto nei poveri e sofferenti. La tua Parola ci orienti, affinché anche noi, come i due discepoli di Emmaus, possiamo sperimentare la forza della tua risurrezione e testimoniare agli altri che Tu sei vivo in mezzo a noi come fonte di fraternità, di giustizia e di pace. Questo noi chiediamo a Te, Gesù, figlio di Maria, che ci hai rivelato il Padre e inviato lo Spirito. Amen.
2. Lettura
a) Chiave di lettura:
In questa seconda domenica di quaresima, la Chiesa medita sulla Trasfigurazione di Gesù dinanzi ai tre discepoli che con lui giunsero sulla montagna. La Trasfigurazione avviene dopo il primo annuncio della Morte di Gesù (Lc 9,21-22). Questo annuncio aveva confuso i due discepoli, e soprattutto Pietro. Osserviamo da vicino, nei suoi minimi particolari, il testo che ci descrive la trasfigurazione in modo da renderci conto come questa esperienza diversa di Gesù ha potuto aiutare i discepoli a vincere e superare la crisi in cui si trovavano. Nel corso della lettura, cerchiamo di essere attenti a quanto segue: "Come avviene la trasfigurazione e quale è la reazione dei discepoli davanti a questa esperienza?"
Marco 9,2-10b) Una divisione del testo per aiutarne la lettura:
Marco 9,2-4: La Trasfigurazione di Gesù davanti ai suoi discepoli
Marco 9,5-6: Reazione di Pietro davanti alla trasfigurazione
Marco 9,7-8: La parola del cielo che spiega il senso della Trasfigurazione
Marco 9,9-10: Mantenere il segreto di ciò che videro
c) Testo:
2Dopo sei giorni, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li portò sopra un monte alto, in un luogo appartato, loro soli. Si trasfigurò davanti a loro 3e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. 4E apparve loro Elia con Mosè e discorrevano con Gesù. 5Prendendo allora la parola, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!». 6Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento. 7Poi si formò una nube che li avvolse nell'ombra e uscì una voce dalla nube: «Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo!». 8E subito guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro.
9Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell'uomo fosse risuscitato dai morti. 10Ed essi tennero per sé la cosa, domandandosi però che cosa volesse dire risuscitare dai morti.
3. Momento di silenzio orante
perché la Parola di Dio possa entrare in noi ed illuminare la nostra vita.
4. Alcune domande
per aiutarci nella meditazione e nella orazione.
a) Qual è il punto di questo testo che più ti è piaciuto o che ti ha maggiormente colpito? Perché?
b) Come avviene la trasfigurazione e qual è la reazione dei discepoli dinanzi a questa esperienza?
c) Perché il testo presenta Gesù con vesti risplendenti mentre parla con Mosè e con Elia? Cosa significano per Gesù Mosè ed Elia? E cosa significano per i discepoli?
d) Qual è il messaggio della voce del cielo per Gesù? E qual è il messaggio per i discepoli?
e) Come trasfigurare, oggi, la vita personale e familiare, e la vita comunitaria nel nostro quartiere?
5. Per coloro che desiderano approfondire maggiormente il tema
a) Contesto di allora e di oggi:
L'annuncio della passione sommerse i discepoli in una profonda crisi. Loro si trovavano in mezzo ai poveri, ma nella loro testa c'era confusione, persi com'erano nella propaganda del governo e nella religione ufficiale dell'epoca (Mc 8,15). La religione ufficiale insegnava che il Messia sarebbe stato glorioso e vittorioso! Ed è per questo che Pietro reagisce con molta forza contro la croce (Mc 8,32). Un condannato alla morte di croce non poteva essere il messia, anzi, secondo la Legge di Dio, doveva essere considerato come un "maledetto da Dio" (Dt 21,22-23). Dinanzi a ciò, l'esperienza della Trasfigurazione di Gesù poteva aiutare i discepoli a superare il trauma della Croce. Infatti, nella trasfigurazione, Gesù appare nella gloria, e parla con Mosè e con Elia della sua Passione e Morte (Lc 9,31). Il cammino della gloria passa quindi per la croce.
Negli anni '70, quando Marco scrive il suo vangelo, la Croce costituiva un grande impedimento per l'accettazione di Gesù come Messia da parte dei giudei. Come poteva essere che un crocifisso, morto come un emarginato, potesse essere il grande messia atteso da secoli dal popolo? La croce era un impedimento per credere in Gesù. "La croce è uno scandalo" dicevano (1Cor 1,23). Le comunità non sapevano come rispondere alle domande critiche dei giudei. Uno degli sforzi maggiori dei primi cristiani consisteva in aiutare le persone a percepire che la croce non era né scandalo, né follia, bensì era l'espressione del potere e della sapienza di Dio (1Cor 1,22-31). Il vangelo di Marco contribuisce in questo sforzo. Si serve di testi del Vecchio Testamento per descrivere la scena della Trasfigurazione. Illumina i fatti della vita di Gesù e mostra che Gesù vede realizzarsi le profezie e che la Croce è il cammino che conduce alla Gloria. E non solo la croce di Gesù era un problema! Negli anni '70, la croce della persecuzione faceva parte della vita dei cristiani. Infatti, poco tempo prima Nerone aveva scatenato la persecuzione e ci furono molti morti. Fino ad oggi, molte persone soffrono perché sono cristiani e perché vivono il vangelo. Come affrontare la croce? Che significato ha? Con queste domande nella mente meditiamo e commentiamo il testo sulla trasfigurazione.
b) Commento del testo:
Marco 9,2-4: Gesù cambia aspetto.
Gesù va su un molte alto. Luca aggiunge che vi si reca per pregare (Lc 9,28). Lì, sulla cima della montagna, Gesù appare nella gloria davanti a Pietro, Giacomo e Giovanni. Insieme a lui appaiono anche Mosè ed Elia. Il monte alto evoca il Monte Sinai, dove nel passato, Dio aveva manifestato al popolo la sua volontà, consegnando la legge a Mosè. Le vesti bianche di Gesù evocano Mosè avvolto nella luce quando parla con Dio sulla Montagna e riceve da Dio la legge (cf. Es 34,29-35). Elia e Mosè, le due più grandi autorità del Vecchio Testamento, parlano con Gesù. Mosè rappresenta la Legge, Elia la profezia. Luca dice che la conversazione avviene sulla Morte di Gesù a Gerusalemme (Lc 9,31). Così era chiaro che il Vecchio Testamento, sia la Legge come i Profeti, insegnava già che il cammino della gloria passa per la croce (cf Is 53).
Marco 9,5-6: A Pietro l'accaduto piace, ma non capisce.
A Pietro piace quanto è avvenuto e vuole assicurare il momento piacevole sulla Montagna. Propone costruire tre tende. Marco dice che Pietro aveva paura, senza sapere ciò che stava dicendo, e Luca aggiunge che i discepoli avevano sonno (Lc 9,32). Loro sono come noi, per loro è difficile capire la Croce!
La descrizione dell'episodio della trasfigurazione inizia con una affermazione: “Sei giorni dopo”. A cosa si riferiscono questi sei giorni? Alcuni studiosi spiegano così la frase: Pietro vuole costruire tende, perché era il sesto giorno della festa delle tende. Era una festa molto popolare di sei giorni che celebrava il dono della Legge di Dio ed i quaranta anni passati nel deserto. Per evocare questi quaranta anni, il popolo doveva trascorrere una settimana della festa in tende improvvisate. Per questo si chiamava la Festa delle Tende. Se non fosse possibile la celebrazione tutti e sei i giorni, per lo meno che si facesse il sesto giorno. L'affermazione "dopo i sei giorni" sarebbe un'allusione alla festa delle tende. Per questo Pietro ricorda l'obbligo di costruire tende. E si offre spontaneamente per fare le tende. Così Gesù, Mosè ed Elia avrebbe potuto continuare a conversare.
Marco 9,7: La voce del cielo chiarisce i fatti.
Appena Gesù è avvolto nella gloria, una voce dal cielo dice: "Questo è il mio Figlio prediletto! Ascoltatelo!" L'espressione "Figlio prediletto" evoca la figura del Messia Servo, annunciato dal profeta Isaia (cf. Is 42,1). L'espressione "Ascoltatelo" evoca la profezia che prometteva l'arrivo di un nuovo Mosè (cf. Dt 18,15). In Gesù, si stanno realizzando le profezie del Vecchio Testamento. I discepoli non potevano dubitarlo. I cristiani degli anni '70 non potevano dubitarlo. Gesù è veramente il Messia glorioso, ma il cammino della gloria passa per la croce, secondo l'annuncio dato nella profezia del Servo (Is 53,3-9). La gloria della Trasfigurazione ne è la prova. Mosè ed Elia lo confermano. Il Padre ne è il garante. Gesù l'accetta.
Marco 9,8: Solo Gesù e nessun altro!
Marco dice che, dopo la visione, i discepoli vedono solo Gesù e nessun altro. L'insistenza nell'affermare che solo vedono Gesù suggerisce che d'ora in poi Gesù è l'unica rivelazione di Dio per noi! Per noi cristiani, Gesù, e solamente lui, è la chiave per capire tutto il senso del Vecchio Testamento.
Marco 9, 9-10: Sapere rimanere in silenzio.
Gesù chiede ai suoi discepoli di non dire niente a nessuno fino a che fosse risuscitato dai morti, ma i discepoli non lo capiscono. Infatti, non capisce il significato della Croce chi non unisce la sofferenza alla risurrezione. La Risurrezione di Gesù è la prova che la vita è più forte della morte.
Marco 9,11-13: Il ritorno del profeta Elia.
Il profeta Malachia aveva annunciato che Elia doveva ritornare per preparare il cammino del Messia (Ml 3,23-24). Questo stesso annuncio si trova nel libro dell'Ecclesiastico (Ec 48,10). Allora, come poteva essere Gesù il Messia, se Elia ancora non era tornato? Per questo, i discepoli chiedevano: “Perché gli scribi dicono che prima deve venire Elia?” (9,11). La risposta di Gesù è chiara: “Io vi dico che Elia è già venuto, ma hanno fatto di lui quello che hanno voluto, come sta scritto di lui” (9, 13). Gesù stava parlando di Giovanni Battista, assassinato da Erode (Mt 17,13).
c) Ampliando le informazioni:
i) La Trasfigurazione: il cambiamento che avviene nella pratica di Gesù
Nel mezzo dei conflitti con i farisei e gli erodiani (Mc 8,11-21), Gesù lascia la Galilea e si reca nella regione di Cesarea di Filippo (Mc 8,27), dove inizia a preparare i discepoli. Lungo il cammino, lancia una domanda: "Chi dice la gente che io sia?" (Mc 8,27) Dopo aver ascoltato la risposta che lo consideravano il Messia, Gesù comincia a parlare della sua passione e morte (Mc 8,31). Pietro reagisce: "Dio te ne scampi, Signore!" (Mt 16,22). Gesù ribadisce: "lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!" (Mc 8,33) Fu un momento di crisi. I discepoli, presi dall'idea di un messia glorioso (Mc 8,32-33; 9,32), non comprendono la proposta di Gesù e cercano di condurla per un altro cammino. Era vicina la festa delle Tende, (cf Lc 9,33), in cui l'aspettativa messianica-popolare era solita aumentare e di molto. Gesù sale sul monte a pregare (Lc 9,28). Vince la tentazione per mezzo della preghiera. La manifestazione del Regno sarebbe stata diversa da quella che la gente si immaginava. La vittoria del Servo sarebbe giunta attraverso la condanna a morte (Is 50,4-9; 53,1-12). La croce appare nell'orizzonte, non già come una possibilità, bensì come una certezza. A partire da questo momento, inizia una mutazione nella pratica di Gesù. Ecco alcuni punti significativi di questa mutazione:
Pochi miracoli. Assistiamo prima a molti miracoli. Ora, a partire da Mc 8,27; Mt 16,13 e Lc 9,18, i miracoli costituiscono quasi un'eccezione nell'attività di Gesù.
Annuncio della Passione. Prima si parlava della passione, come di una possibilità remota (Mc 3,6). Ora se ne parla costantemente (Mc 8,31; 9,9.31; 10,33.38).
Prendere la Croce. Prima, Gesù annunciava l'arrivo imminente del Regno. Ora insiste nella vigilanza, nelle esigenze della sequela e nella necessità di prendere la croce (Mt 16,24-26; 19,27-30; 24,42-51; 25,1-13; Mc 8,34; 10,28-31; Lc 9,23-26.57-62; 12,8-9.35-48; 14,25-33; 17,33; 18,28-30).
Insegna ai discepoli. Prima insegna alla gente. Ora si preoccupa maggiormente della formazione dei discepoli. Chiede loro di scegliere di nuovo (Gv 6,67) ed inizia a prepararli per la missione che verrà in seguito. Esce dalla città per poter stare con loro ed occuparsi della loro formazione (Mc 8,27; 9,28. 30-35; 10,10.23.28-32; 11,11).
Parabole diverse. Prima, le parabole rivelavano il mistero del Regno presente nell'attività di Gesù. Ora le parabole orientano verso il giudizio futuro, verso la fine dei tempi: i vignaioli omicidi (Mt 21,33-46; il servo spietato (Mt 18,23-35), gli operai dell'undicesima ora (Mt 20,1-16), i due figli (Mt 21,28-32), il banchetto nuziale (Mt 22,1-14), i dieci talenti (Mt 25,14-30).
Gesù assume la volontà del Padre che si rivela nella nuova situazione, e decide di andare a Gerusalemme (Lc 9,51). Assume questa decisione con una decisione tale da spaventare i discepoli, che non riescono a capire queste cose (Mc 10,32; Lc 18,31-34). In quella società, l'annuncio del Regno così come lo faceva Gesù, non era tollerato. E quindi o cambiava o sarebbe morto! Gesù non cambiò l'annuncio. Continuò ad essere fedele al Padre ed ai poveri. Per questo fu condannato a morte!
ii) La trasfigurazione ed il ritorno del profeta Elia
Nel vangelo di Marco, l'episodio della Trasfigurazione (Mc 9,2-8) è unito alla questione del ritorno del profeta Elia (Mc 9,9-13). In quel tempo, la gente aspettava il ritorno del profeta Elia e non si rendeva conto che Elia era già tornato nella persona di Giovanni Battista (Mc 9,13). Oggi succede la stessa cosa. Molte persone vivono aspettando il ritorno di Gesù e scrivono perfino sui muri delle città: Gesù ritornerà! Loro non si rendono conto che Gesù è già presente nella nostra vita. Ogni tanto, come un lampo improvviso, questa presenza di Gesù irrompe e si illumina, trasformando la nostra vita. Una domanda che ognuno di noi deve porsi: La mia fede in Gesù mi ha già regalato qualche momento di trasfigurazione e di intensa allegria? Come questi momenti di allegria mi hanno dato forza nei momenti di difficoltà?
6. Preghiera di un Salmo: Salmo 27 (26)
Il Signore è mia luce
Il Signore è mia luce e mia salvezza,
di chi avrò paura?
Il Signore è difesa della mia vita,
di chi avrò timore?
Quando mi assalgono i malvagi
per straziarmi la carne,
sono essi, avversari e nemici,
a inciampare e cadere.
Se contro di me si accampa un esercito,
il mio cuore non teme;
se contro di me divampa la battaglia,
anche allora ho fiducia.
Una cosa ho chiesto al Signore,
questa sola io cerco:
abitare nella casa del Signore
tutti i giorni della mia vita,
per gustare la dolcezza del Signore
ed ammirare il suo santuario.
Egli mi offre un luogo di rifugio
nel giorno della sventura.
Mi nasconde nel segreto della sua dimora,
mi solleva sulla rupe.
E ora rialzo la testa
sui nemici che mi circondano;
immolerò nella sua casa sacrifici d'esultanza,
inni di gioia canterò al Signore.
Ascolta, Signore, la mia voce.
Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi.
Di te ha detto il mio cuore: «Cercate il suo volto»;
il tuo volto, Signore, io cerco.
Non nascondermi il tuo volto,
non respingere con ira il tuo servo.
Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi,
non abbandonarmi, Dio della mia salvezza.
Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato,
ma il Signore mi ha raccolto.
Mostrami, Signore, la tua via,
guidami sul retto cammino,
a causa dei miei nemici.
Non espormi alla brama dei miei avversari;
contro di me sono insorti falsi testimoni
che spirano violenza.
Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
Spera nel Signore, sii forte,
si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore.
7. Orazione Finale
Signore Gesù, ti ringraziamo per la tua Parola che ci ha fatto vedere meglio la volontà del Padre. Fa che il tuo Spirito illumini le nostre azioni e ci comunichi la forza per eseguire quello che la Tua Parola ci ha fatto vedere. Fa che noi, come Maria, tua Madre, possiamo non solo ascoltare ma anche praticare la Parola. Tu che vivi e regni con il Padre nell'unità dello Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen.

da | O.Carm

venerdì 27 febbraio 2015

Il canto dei copti: «Il tuo nome Gesù, torre inattaccabile, rifugio inespugnabile»

Testimonianza di un cristiano iracheno al Movimento Ecclesiale Carmelitano


anderiousDomenica 22 febbraio si è tenuto ad Adro, presso l'auditorium dell'Istituto Madonna della Neve, l'annuale ritiro quaresimale indetto per il Movimento Ecclesiale Carmelitano, a cui hanno partecipato molti Padri della nostra Provincia. Dopo la conferenza mattutina tenuta da P. Fabio Silvestri, nel pomeriggio il P. Provinciale, P. Aldino Cazzago, ha presentato ai partecipanti Anderious Oraha, cristiano iracheno e rifugiato politico nel nostro paese dal 2007. Da allora ha collaborato con varie testate italiane e tenuto varie conferenze per sensibilizzare l'opinione pubblica sulla situazione in cui è precipitato l'Iraq all'indomani della caduta del regime di Saddam Hussein, con conseguenze particolarmente disastrose per la comunità cristiana di quel paese: sebbene sia fra le comunità cristiane più antiche del mondo, corre attualmente il concretissimo rischio di scomparire, schiacciata dalla furia delle persecuzioni del califfato islamico. E' la cronaca di questi giorni, ma riferita dalla viva voce di chi ha vissuto sulla propria pelle il dolore delle membra lacerate di Cristo in Oriente. Riportiamo qui di seguito un articolo del giornalista G. Reguzzoni, anch'egli presente ad Adro, per una maggiore conoscenza della figura di Anderious e del suo ultimo libro, appena pubblicato, in cui il giornalista iracheno rievoca la propria esperienza.
di Giuseppe Reguzzoni
Il monito di Papa Francesco
«Per quanto tempo dovrà soffrire ancora il Medio Oriente per la mancanza di pace?». È la domanda che papa Francesco si è posto nella sua lettera indirizzata ai Cristiani di quella tormentata regione. Il Medio Oriente è in croce, e l’Occidente ha in questo delle pesanti responsabilità. A nessuno di noi è lecito lasciare soli questi fratelli nella sofferenza. «Non possiamo rassegnarci ai conflitti». È questo l’invito pressante del Pontefice. Pregare, certo, ma declinando la preghiera in solidarietà e consapevolezza: questo è il compito accessibile a ciascuno di noi, e non solo ai responsabili delle nazioni. Aiuta anche noi ascoltare il grido di coloro che «sono stati cacciati in maniera brutale dalle proprie terre». È un grido tragico, che ci chiede di aprire gli occhi. Tra le testimonianze più realistiche e più profonde di questa sofferenza dei Cristiani del Medio Oriente rientra certamente un volume di recente pubblicazione: Anderious Oraha – Fausto Rizzotti, Una storia irachena, Vita di uno stringer cristiano in Medio Oriente, XY Editore, 175 p., 18 Eur. Lo si legge come un romanzo, ma è tutta vita vissuta, con, in più, pagine straordinarie di comprensione della cultura irachena.
Una antica presenza
Le vicende che vi sono narrate iniziano molto lontano, dai ricordi di una famiglia di Cristiani di rito assiro, nelle terre del Tigri e dell’Eufrate, tanto ricche di storia e di richiami biblici. Al princpio ci sono la riconoscenza e la memoria, di uno straordinario patrimonio di affetti, di gesti semplici e rituali e, certo, anche di una povertà materiale vissuta con dignità e riconoscenza. “Ti ringrazio, Signore, d’avermi creato, fatto cristiano …” E non è semplice essere minoranza cristiana in una terra dove l’Islam è maggioranza. È una fede antica, che si coniuga con una lingua antica: l’aramaico, la lingua di Gesù, che si accompagna all’arabo dei popoli che dal secolo VIII dominano queste terre. Poi, il presente, tragicamente duro e incerto. Anch’esso, a suo modo, segnato da simboli che, questa volta, esprimono violenza e intolleranza: è la violenza dei bombardamenti americani; è la nascita di forme di integralismo religioso sino ad allora mai così radicali; è la guerra nella guerra, contro la presenza secolare delle comunità cristiane.
Vivere dentro la guerra
Ed è anche il sibilo, ormai tragicamente familiare, di un colpo di mortaio, un’esplosione nel giardino di casa, i vetri che vanno in frantumi. 31 gennaio 2005, Sadr City, Bagdad. «Un tiro più corto di due metri, due insignificanti metri, e saremmo tutti morti». Quotidianità a Bagdad, che l’importazione della democrazia occidentale ha aggravato. All’esplosione segue, come da prassi ordinaria in quella martoriata città, l’irruzione dei soldati americani, per “controllare” l’accaduto, e la rabbia, tanta rabbia per una vita che la grande storia, quella dei potenti che decidono del nostro destino ha deciso di cambiare, in peggio. Cominciano così le prime partenze: «La guerra civile tra sunniti e sciiti era divenuta così feroce, la vita così pericolosa che mio fratello Lazar, il pilastro della nostra famiglia, gettò la spugna e con la moglie e il figlio Mark emigrò in Siria; mio fratello Butrus lasciò Bagdad e si rifugiò a Shekan, nel nord, e così fecero le mie sorelle Amira e Samira. Un anno dopo anche mio fratello Koshaba lasciò l’Iraq. Chi non conosce il modo di vita orientale non può capire il dolore, la lacerazione di queste separazioni; contrastano con i nostri valori, le nostre abitudini, il nostro senso di appartenenza e di sicurezza. Ma come dar torto a chi decideva di partire se anche starsene a letto era diventato un azzardo?».
Sono le parole con cui Anderious Oraha, nel suo racconto autobiografico, scritto con Martino Fausto Rizzotti, giornalista e cooperatore per lo sviluppo, ricorda il dramma della diaspora della sua famiglia, doppiamente colpita, dalla guerra e dall’odio anticristiano nell’Iraq di oggi.
Andraus, come lo conoscono e lo chiamano i principali corrispondenti di guerra italiani, la guerra la conosce molto da vicino. È stato quattordici anni in servizio militare, ha combattuto il conflitto tra Iraq e Iran e ha vissuto le due guerre del golfo, lavorando, nel corso di queste ultime, prima con la Croce Rossa, poi come “stringer”, vale a dire come interprete e come contatto con la realtà locale per la stampa e le troupes televisive italiane presenti in Iraq. Era presente, con loro, a Fallujah e a Nassiriya, ha visto il sangue, le vittime, incontrato capi locali e ufficiali della coalizione occidentale, ha sentito dal vivo le dichiarazioni degli sceicchi e percepito la rabbia e l’odio contro gli invasori americani e i loro alleati e nel testo ricorda particolari di quei fatti tragici su cui, oggi, è urgente aprire gli occhi. Era presente a Bagdad durante tutta la guerra civile, coltivando contatti preziosi e conducendo trattative che gli hanno permesso di salvare molte vite. Era il loro occhio e il loro orecchio nella città, quando i giornalisti occidentali vivevano barricati negli hotel superprotetti, della zona di sicurezza. Non a caso il suo volume esce con prefazione di Giovanni Porzio (Panorama) e con testimonianze di Fausto Biloslavo (Il Giornale), Toni Capuozzo (TG5), Meo Ponte (Repubblica), Battistini (Corriere della Sera), Guido Alfieri (Il Messaggero), Massimo Dell’Omo (Repubblica).
È stato uno di loro, Giovanni Porzio, ad aiutarlo a fuggire, prima in Siria, poi in Italia, quando la sua famiglia, cristiano caldea, ha subito la fatwa degli estremisti islamici del suo quartiere di Bagdad. Anche oggi, da qui, Andraus ha più che mai vivo il senso della sua appartenenza al destino delle comunità cristiane irachene. Lo ricorda nelle pagine, drammatiche, che chiudono il suo racconto: «Mentre scrivo, il mio telefono squilla in continuazione, sono i miei parenti e quelli di mia moglie, rimasti in Iraq. Sono disperati, la loro paura mi attraversa come una scarica elettrica (...) Mia moglie ha il viso rigato di lacrime, gli occhi un pozzo di dolore mentre mi guarda disperata; è suo cugino che parla al telefono, io le stringo la mano ma sento che la mia stretta non è salda, perché la mia mano trema, come sento tremare la mia anima. Fra un crepitio di mitragliatrice e l’altro, ci racconta che alcuni nostri parenti sono scappati in Kurdistan (...), fuggono, gli hanno detto “convertitevi e sarete risparmiati”. “Ma come possiamo rinnegare il nostro Dio, Andraus? Cosa ci resterebbe, poi?”».
Per non dimenticare
Questo libro è più che un’autobiografia, intriso com’è della fede solida e del senso di appartenenza dei cristiani iracheni. Sempre oggettivo nelle sue narrazioni di quelle condizioni drammatiche, esso è soprattutto una profonda testimonianza di vita e di senso della vita, in circostanze disperate; un po’ come per Meo Ponte, che nella sua postfazione (“Andraus mi ha salvato la vita due volte”), ricorda il rapporto che si era instaurato con l’autore: «Più che un interprete è stato per me un collega e un amico, una guida che mi ha fatto conoscere la realtà irachena nel profondo, un amico che mi ha dato sostegno anche nei momenti più difficili». Anche questo libro riesce a essere una guida, come si dice, “dal di dentro”, con uno sguardo sulla propria storia, onesto, realistico, ma mai lamentoso, e con la capacità di gettare una luce nuova sulla situazione dell’Iraq di oggi, sulle cause della guerra e sulle responsabilità dell’Occidente, sulla condizione dei Cristiani e sulla loro straordinaria storia di cultura e di civiltà. Leggerlo significa ascoltare questa testimonianza di vita e imparare a giudicare gli eventi che, oggi, sono sulle prime pagine dei media, con uno sguardo non omologato alle versioni “ufficiali” dei fatti e, per riprendere le parole di papa Francesco, significa anche «non rassegnarsi ai conflitti».

da | carmeloveneto.it

SANTA GIOACCHINA DE VEDRUNA

1783-1854
Fondatrice della Congregazione delle Carmelitane della Carità
Memoria, 22 maggio
1421-11-joaquina-de-vedrunaS. Gioacchina de Verduna, bassorilievoNacque a Barcellona il 16 aprile 1783 e lo stesso giorno fu battezzata nella chiesa parrocchiale di S. Maria del Pino. I suoi genitori furono Lorenzo De Vedruna e Teresa Vidal, di sentimenti profondamente cristiani e costumi integerrimi. Sin dalla fanciullezza Gioacchina si sentì spinta a offrire a Dio anche le più piccole azioni. Interrogata dalla mamma come facesse a mantenersi lungamente raccolta, rispose che tutto le parlava di Dio: gli spilli usati per il merletto a tombolo le richiamavano le spine della corona del Crocifisso, al quale voleva portare conforto con piccoli sacrifici; il filo da cucire le ricordava le funi con cui Gesù fu legato alla colonna; le erbe inutili delle aiuole le rappresentavano i propri difetti da sradicare sul nascere. A nove anni fece la prima Comunione e, a dodici, chiese di consacrarsi a Dio tra le Carmelitane di clausura di Barcellona, ma non fu accettata a causa della giovane età.
Contava appena sedici anni quando fu chiesta in sposa da Teodoro De Mas; anch'egli aveva sentito fortemente il richiamo alla vita religiosa, ma aveva trovato ostacolo nella volontà dei genitori per essere il primogenito e l'erede di un nome glorioso. Rassicurata dal suo confessore essere questa la volontà di Dio, Gioacchina contrasse matrimonio con Teodoro il 24 marzo 1799. La perfetta affinità di queste due anime fece della loro casa un regno di concordia e di pace. La giornata cominciava per entrambi in chiesa e si chiudeva con la recita del rosario, cui si unì, con l'andare degli anni, il coro di ben nove figli. Gioacchina amava con tutto il cuore le sue creature e per questo correggeva pazientemente i loro difetti, li incoraggiava nella pratica delle virtù e dava in ogni momento la lezione del suo esempio.
Fatto ardito dalla facile conquista del Portogallo, Napoleone risolse di volgersi anche alla Spagna. All'attentato contro la libertà della nazione il popolo sorse in armi; Teodoro de Mas, discendente di valorosi guerrieri, non giudicò opportuno rimanere in disparte e si arruolò volontario in difesa della patria. Allorché la fortuna fu avversa ai patrioti, egli resistette con un pugno di valorosi in un castello presso Vich, che gli invasori non riuscirono ad espugnare. Impossibile ridire le sofferenze di Gioacchina in questo periodo burrascoso e le sue ansie per la vita del marito, le preoccupazioni per i figli, la povertà estrema. Fu allora che rifulse la sua fortezza e sconfinata fiducia nella Provvidenza: nulla valse a turbare la serenità del suo animo, ad affievolire il suo spirito di orazione, a far uscire un lamento dalle sue labbra.
Santa Joaquima de Vedruna. Retrat a loli pintat el 1903 per Francesc Morell i CornetFrancesc Morell i Cornet, Santa Gioacchina de Verduna
Sfinito dagli stenti della guerra, Teodoro morì il 6 marzo 1816, quando Gioacchina contava solo trentatré anni: nello stesso istante parve alla giovane vedova che il grande Crocifisso appeso alla parete di fronte al letto in cui ella giaceva ammalata le dicesse: «Ora che perdi il tuo sposo terreno ti scelgo io per mia sposa». La giovane vedova si trattenne per qualche mese ancora a Barcellona allo scopo di difendere gli interessi dei figli dalle pretese dei parenti; poi si ritirò a Vich, nel feudo lasciatole dal marito, chiamato Manso Escorial: lì avrebbe potuto meglio occuparsi dell'educazione dei figli, dedicare all'esercizio della carità le sue ancor fresche energie ed attendere con più largo respiro alla propria santificazione. Tre figli, intanto, morirono in tenera età, quattro abbracciarono lo stato religioso e due furono esemplari nella vita coniugale.
Santa Joaquina de Vedruna frances carulla2Francesc Carulla, Santa Gioacchina de VedrunaNel sentirsi più libera dagli impegni familiari Gioacchina pensò che fosse arrivata l'ora per realizzare ciò che credeva essere la volontà di Dio: entrare in un Ordine religioso di grande austerità, ma Dio dispose diversamente attraverso la direzione spirituale di Stefano di Olot, cappuccino di Vich, il quale le assicurò che Dio non la voleva in un chiostro, ma la designava fondatrice di una congregazione di religiose per la educazione delle fanciulle e la cura degli ammalati. Ella chinò il capo e pronunciò ancora una volta il suo "fiat". Il 6 gennaio 1826 fece la professione religiosa di Carmelitana della Carità nella cappella episcopale di Vich, nelle mani del vescovo Paolo di Gesù Corcuera, che aveva incoraggiato l'opera e dato il nome alla Congregazione.
Il 26 febbraio successivo, di buon mattino, ella e nove giovani aspiranti si recarono alla chiesa dei Cappuccini, ascoltarono la Messa e fecero la Via Crucis; poi si diressero al Manso Escorial dove ebbe inizio la nuova vita in un'atmosfera di pace e di fervore. Non mancarono le privazioni e alle volte gli stenti: ma la virtù e l'amore della madre rendevano liete le pene e sopportabili le prove. L'amore materno usato da Genoveffa nella formazione delle sue figlie spirituali fu la caratteristica trasmessa alla Congregazione e divenne un fattore fondamentale del metodo educativo delle Carmelitane della Carità. Un po' alla volta la pianticella crebbe ed estese i suoi rami, anche se tra persecuzioni, prove ed opposizioni che dimostrarono chiaramente — come diceva la santa — che la Congregazione «non era opera sua, ma di Dio». Ancora vivente la fondatrice, una fitta rete di case si era formata per tutta la Catalogna.
Colpita da un primo attacco apoplettico nel settembre del 1849, altri ne seguirono, che la resero — come ella, stessa aveva chiesto al Signore — inutile e spregevole agli occhi degli uomini. Il 28 agosto 1854 un nuovo attacco la prostrò e qualche ora dopo si manifestarono in lei i sintomi del colera. Circondata dall'affetto delle sue figlie si addormentò nel Signore serenamente. Fu beatificata il 19 maggio 1940 da papa Pio XII e canonizzata il 12 aprile 1959 da San Giovanni XXIII.

di Ramona Escudero ccv
da Santi del Carmelo, a cura di Ludovico Saggi Ocarm, Institutum Carmelitanum, Roma, 1972.

da | carmeloveneto.it