sabato 21 febbraio 2015

Edith Stein: Smarrire la fede



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Smarrire la fede
Quando mi guardo indietro, il periodo di Amburgo mi sembra una specie di fase da teatro delle marionette.
La mia vita si svolgeva in una cerchia molto limitata di persone ed io ero ancora più chiusa nel mio mondo interiore di quanto fossi a casa. Per quanto i lavori domestici lo permettevano, leggevo. Tra le cose che udii e lessi ce ne fu qualcuna che non mi fece bene. A causa della specializzazione di mio cognato arrivavano in casa alcuni libri che non erano precisamente destinati a una ragazza di 15 anni. Oltre a ciò Max ed Else erano completamente atei; la religione non esisteva a casa loro.
Qui in piena coscienza e per libera scelta smisi di pregare.
Vuoto interiore
Il giorno successivo a quello dell' esame rimasi a letto un po' più a lungo del solito.
Mi portarono su la posta: c'erano lettere di congratulazioni - tra cui una dello zio David che mi invitava ad andare a Chemnitz. Lessi e poi rimasi a letto a riflettere tranquillamente.
Il grande senso di felicità che mi ero aspettata di provare dopo gli esami non c'era, sentivo piuttosto un grande vuoto interiore. Un modo di vivere caro e familiare era finito. Cosa sarebbe successo ora? Pensavo alle obiezioni inespresse dal buon zio riguardo la mia scelta professionale. Avevo veramente preso la decisione giusta?
Siamo al mondo per servire l'umanità... Questo si può fare nel migliore dei modi, facendo qualcosa per cui si ha una vera predisposizione.
Un rimprovero efficace
Hermsen mi accompagnò a casa. Dopo gli incontri serali del gruppo, aveva sempre lasciato ad altri questo incarico, poiché abitava molto lontano da me. Giunti dinanzi a casa mia, disse: «Le auguro di poter incontrare a Gottinga persone che le andranno veramente a genio. Qui lei è diventata un po' troppo critica». Rimasi molto colpita da queste parole; non ero più abituata ad essere rimproverata. In casa non accadeva quasi mai che qualcuno osasse dirmi qualcosa e le mie amiche erano legate a me da affetto e ammirazione. Così vivevo nell'ingenua illusione che tutto andasse bene in me, come spesso accade a persone credenti, dotate di un forte idealismo etico.
Dal momento che si è entusiasti del bene, si crede di essere buoni. Avevo sempre considerato mio pieno diritto puntare il dito senza riguardo su tutte le cose negative di cui mi accorgevo: debolezze, errori, mancanze delle altre persone, spesso in tono di scherno e ironia. C'era gente che mi trovava "squisitamente cattiva". Sicché quelle parole di congedo pronunciate seriamente da un uomo che stimavo e amavo molto dovevano farmi un'impressione dolorosa. Non rimasi per questo risentita nei suoi confronti e neppure cercai di discolparmi facendo apparire ingiusto il suo rimprovero. Quelle parole furono un primo segnale di sveglia che mi fece riflettere.
Euforia e depressione
Quasi non mi accorgevo di quanto mi fossi allontanata dai miei e di quanto loro ne soffrissero. Vivevo completamente assorta nei miei studi e nelle aspirazioni alle quali essi mi avevano condotto. In questo ambito vedevo i miei doveri e non ero consapevole dei torti che facevo...
Al principio degli studi universitari il mio vecchio direttore mi pregò di andare da lui per affidarmi una studentessa che chiedeva lezioni private. Mi chiese come stavo e quando gli risposi di tutto cuore: «Oh, io sto molto bene!», egli spalancò ancora più del solito i suoi occhi sporgenti e disse meravigliato: «Davvero questa è una cosa che si sente di rado». A questo alto morale, si contrappose curiosamente un' esperienza che mi capitò non molto tempo dopo.
Andare lontano
Sentivo una stanchezza febbrile, tuttavia guardavo le cose in faccia con grande chiarezza e risolutezza. «Ora non ho più una vita personale», dissi a me stessa. «Tutte le mie forze appartengono a questo grande evento. Quando la guerra sarà finita, se sarò ancora viva, allora potrò pensare di nuovo alle mie faccende»...
Durante il corso dovevamo dichiarare se, nel caso volessimo metterci a disposizione della Croce Rossa, la nostra disponibilità si limitasse solo al territorio di Breslavia, al paese, o fosse senza condizioni.
Naturalmente, diedi la mia disponibilità incondizionata. Non avevo infatti altro desiderio che andare il più lontano possibile, nel più breve tempo possibile, preferibilmente al fronte, in un ospedale da campo.
Di fronte alla morte
Era la prima volta che vedevo morire qualcuno. Il secondo caso di decesso lo vidi nella nostra corsia: quando, dopo qualche giorno di servizio notturno, arrivai di sera al reparto, le infermiere mi accolsero con la notizia che era stato trasportato un moribondo nella nostra corsia; esse avrebbero voluto risparmiarmelo per quella notte. Ricevetti l'istruzione di fargli un'iniezione di canfora ogni ora. In questo modo prolungai per diverse notti la scintilla di vita fino al mattino dopo. Era un uomo grande e forte; giaceva immoto e privo di conoscenza. Nessuno di noi lo vide mai aprire gli occhi o lo udì pronunciare una parola.
Anche l'ultima notte gli feci diverse iniezioni. Tra una iniezione e l'altra stavo ad ascoltare il respiro dal mio posto - improvvisamente cessò. Andai presso il suo letto; il cuore non batteva più.
Ora dovevo fare ciò che ci era stato prescritto in casi del genere: raccogliere i pochi oggetti che aveva ancora con sé per consegnarli all' Amministrazione militare (la maggior parte delle cose venivano ritirate ai pazienti al loro arrivo e serbate fino a che non venivano dimessi); chiamare il dottore e farmi rilasciare il certificato di morte; andare dal guardaporte con il certificato e far venire gli uomini con una barella a portar via il morto; infine, togliere tutta la biancheria del letto.
Mentre stavo ordinando le sue poche cose, un foglietto cadde fuori dal suo taccuino: sopra c'era una preghiera per la conservazione della sua vita che la moglie gli aveva dato. Ciò mi colpì profondamente. Solo in quel momento capii che cosa avrebbe significato quella morte dal punto di vista umano.
da O.Carm

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