sabato 14 febbraio 2015

VI Domenica T. O. - "LO VOGLIO: GUARISCI"


“LO VOGLIO: GUARISCI!"

Carissimi fratelli e sorelle,
subito dopo la presentazione di una “giornata tipo” di Gesù, la cui narrazione abbiamo ascoltato nelle due domeniche precedenti, l’evangelista Marco passa a raccontarci di una strepitosa guarigione operata da Gesù che tocca un lebbroso guarendolo. Così come abbiamo visto per il primo miracolo – la guarigione della suocera di Pietro -, anche quest’altro miracolo, questa volta strepitoso, nasconde un pregnante livello simbolico che completa il messaggio racchiuso nella guarigione della suocera di Pietro che – abbiamo visto – rimandava alla missione della comunità ecclesiale di mediare l’incontro dell’umanità con il Salvatore del mondo e alla potenza della risurrezione di Gesù che entrando nel cuore dell’uomo inabilitato dal peccato, lo rende capace di amare e quindi di servire.
In questo secondo miracolo vengono messi in risalto altri elementi dell’incontro della persona con il Salvatore del mondo e nei gesti di Gesù e del lebbroso si delinea un trasparente simbolismo penitenziale, che rimanda cioè alla celebrazione del sacramento della penitenza. Vediamo ora questi elementi.
• Il primo è senz’altro la grande fede del lebbroso che rompe tutti gli schemi e le imposizioni della legge ebraica per avvicinarsi a Gesù e chiedere la guarigione: “Se vuoi, puoi guarirmi”. Questa frase del lebbroso implica due aspetti: la consapevolezza del proprio male e la fiducia nella potenza di Gesù.
A) La consapevolezza del proprio male. Si tratta di lebbra. La lebbra nella Bibbia non ha semplicemente il significato di una malattia fisica, essa era considerata un segno di maledizione:
«Fra tutte le malattie, la lebbra era considerata dagli Ebrei quella che più rendeva impuro l’uomo, perché distruggendolo nella sua integrità e vitalità fisica, era per eccellenza segno del peccato e della sua gravità. Per questo, la lebbra non è mai considerata solo o principalmente da un punto di vista medico, ma riveste un carattere prevalentemente religioso. Solo così si spiegano le misure severe e repellenti che sono riportate nella prima lettura. Non si tratta semplicemente di misure profilattiche: tale isolamento mirava a preservare «la santità del popolo di Dio». La lebbra, segno del peccato, poneva l’uomo al di fuori della comunità del popolo di Dio, ne faceva uno «scomunicato». Per questo le guarigioni dalla lebbra, narrate dai vangeli — tenuto conto del contesto sociale presente nella prima lettura — diventano simbolo della liberazione dal peccato, segno e prova del potere di Gesù» – Centro Catechistico Salesiano
Quello che manca troppo spesso al penitente che oggi si confessa e chiede al ministro di Dio l’assoluzione dei propri peccati è la consapevolezza della gravità della propria situazione personale davanti a Dio, agli altri e a se stesso. Il lebbroso, invece, si rendeva conto benissimo — e non poteva non farlo —, della propria situazione affliggente: il dolore e il lezzo delle piaghe aperte, la condanna pubblica all’emarginazione lo costringevano a rendersi conto che aveva bisogno di essere guarito e mendicò con fede la guarigione a Gesù: “Lo supplicava in ginocchio”. Solo chi entra nella consapevolezza della gravità delle proprie colpe, sa chiedere con umile fede la propria guarigione, perché mancando la consapevolezza della gravità, manca anche la consapevolezza dell’importanza del dono di essere guariti. Chi considera peccato grave o mortale solo ammazzare, rubare e tradire il coniuge (tutti peccati che lui non fa), dovrà arrivare ad ammazzare qualcuno, o diventare ladro o a tradire il proprio coniuge per capire di aver bisogno di Gesù!
Occorre dunque stimolare in noi una maggior sensibilità al peccato, a ciò che esso rappresenta e provoca nella nostra vita, se vogliamo accostarci degnamente al sacramento del perdono e anche noi così poter supplicare in ginocchio il perdono di Dio. Questa opera di sensibilizzazione si attua in due momenti susseguenti. Il primo coinvolge la persona alla lotta al peccato mortale, ad ogni peccato mortale e peccato grave o mortale è anche la superstizione, lo spiritismo, la bestemmia, il mancare di rispetto ai propri genitori, odiare, rodersi nell’invidia e tutto l’ambito delicato e fragile della castità. Questa lotta fa diventare la persona, una persona spirituale, finché la persona non ha dichiarato guerra al peccato mortale, non è persona spirituale, è persona carnale (cf 1Cor 2,14). Normalmente questa lotta prende piede quando si prende sul serio la verità che ogni peccato mortale priva della grazia di Dio, della sua intimità e amicizia e apre le porte dell’inferno. Il primo e principale campo di battaglia dove si attua questa lotta sarà il mondo dei pensieri che è il luogo dove ha inizio ogni realtà di peccato: ogni azione peccaminosa è sempre preceduta da pensieri peccaminosi che hanno vinto la persona. Quando la persona incomincia a comprendere l’importanza del dominio del proprio mondo psichico, allora comincia ad essere spirituale.
Il secondo momento di questa lotta avviene quando la persona, essendosi stabilizzata nella vittoria al peccato grave, comprende sempre più e meglio che Gesù è morto straziato per i suoi peccati, tutti i suoi peccati, piccoli e grandi. Allora la persona comincia ad essere più delicata e allarga la lotta anche ai peccati lievi o veniali, sempre più e meglio motivata dall’amore per Gesù che dalla paura della propria possibile condanna all’inferno.
B) Il secondo aspetto della fede del lebbroso e quello della fiducia nella potenza di Gesù. Continuando il parallelismo tra la persona del lebbroso e quella di chi si accosta al sacramento della penitenza, bisogna rilevare come quest’ultima debba portare nel cuore la certezza di fede che Gesù è l’unico Salvatore del mondo, che Gesù è il Figlio di Dio e ha il potere – Lui solo! – di guarirla e liberarla da ogni male e peccato. Fiducia, fiducia illimitata, assoluta e incondizionata a Gesù e totale diffidenza in se stessi e nella propria capacità di bene: questo è uno dei segreti per fare una buona ed efficace confessione.
• Il secondo elemento importante della guarigione del lebbroso è il comportamento di Gesù che «mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, guarisci!”».
A) “Mosso a compassione”. La “compassione” è il sentimento proprio di Dio verso l’umanità, per “compassione” il Padre mandò suo Figlio ad incarnarsi, per “compassione” degli uomini il Figlio si è fatto uomo e propriamente il frutto di questa “compassione” è stato il dono del loro Amore che è il loro stesso Santo Spirito. Nella parabola del buon samaritano (cf Lc 10,29ss) Gesù spiegherà come la “compassione” rende prossimi ad ogni uomo che s’incrocia e del quale ci si fa carico, con larghezza d’amore, delle sue necessità. Ed è Lui, Gesù, il “Buon Samaritano” del mondo che di tutti ha “compassione” e si fa carico con infinito e smisurato amore. Di questa “compassione” deve essere segno, segno buono ed efficace, il confessore e tale egli potrà esserlo solo se intimamente unito a Gesù, sentirà in se stesso la “compassione” di Questi per quel povero uomo, quella povera donna che in ginocchio davanti a lui sta invocando il perdono di Dio. Questa “compassione” di Gesù non potrà allora non trasparire dal suo sguardo, dalle sue parole e da ogni suo gesto che diventa così canale che trasporta sensibilmente la “compassione” di Gesù per quel povero peccatore o per quella povera peccatrice.
B) “Stese la mano e lo toccò”. Gesù, “Buon Samaritano” del mondo, si fa carico dei mali dell’umanità, la sua “compassione” è piena, totale, perfetta, per cui Egli non semplicemente guarisce, ma si fa anche carico dell’altrui lebbra! Sì, infatti è così! Toccare un lebbroso significava contrarre la lebbra, partecipare alla sua sorte di escluso, emarginato, scomunicato, condannato a vivere “fuori dall’accampamento”:
«La guarigione operata da Gesù dice qualcosa di più della semplice liberazione da una malattia e della riammissione nel seno della comunità. Egli si rende partecipe della situazione del lebbroso; toccandolo con la sua mano, in qualche modo contrae la sua stessa impurità… In questo gesto Gesù appare come colui che “si è caricato delle nostre sofferenze”: ha contratto, Lui, il male disgregatore delle forze vive dell’uomo e così ci ha guariti nella radice del nostro essere. Si ha qui una prima realizzazione della profezia del Servo di Iahvè che si presenta con l’aspetto di un lebbroso perché si è addossato i nostri peccati e, conseguentemente, il loro castigo (cf Is 53,3-12). Questo si realizzerà alla lettera nella sua passione quando sarà portato a morire assieme ai malfattori, “fuori dell’accampamento”, fuori delle mura della città» – Centro Catechistico Salesiano
Il rituale della penitenza prevede proprio che il sacerdote “stenda le mani sul penitente”, quasi a rinnovare il gesto di Gesù sul lebbroso con cui si fece carico della sua lebbra. Bisogna quindi che, perché quel gesto sia vero, il sacerdote si faccia carico del peccato di chi assolve in nome di Gesù, in che modo? Con una vita sempre maggiormente inserita nella Passione d’amore di Gesù per questa umanità, portando i suoi penitenti nella propria preghiera, in particolare nell’offerta quotidiana del sacrificio del Cristo rinnovato nella s. Messa che celebra e con un suo sempre maggior impegno personale nel cammino della santità.
C) “Lo voglio, guarisci”. E il lebbroso guarì. È questo il desiderio di Dio: guarire tutti i suoi figli. Dio non vuole figli malati, ma sani. Vuole figli vivi e sani, cioè capaci di amare: “Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione” (1Ts 4,3). Qualunque sia il male spirituale che affligga il povero peccatore o la povera peccatrice che si accosta al tribunale della misericordia, esso può essere debellato, guarito, sconfitto: non c’è situazione di peccato, male morale e spirituale che possa essere più forte della potenza della risurrezione di Gesù. Infatti, se il suo toccare il lebbroso esprimeva tutta la forza della sua “compassione” che Lo portò a morire come un lebbroso “fuori dall’accampamento”, la Sua voce che ordina al lebbroso di guarire dalla sua lebbra, porta in sé tutta la potenza della Sua risurrezione, quella potenza che ribaltò la pietra del sepolcro e rese vivo per sempre il Suo corpo massacrato e svenato d’amore.
Per cui questa fiducia deve avere il penitente che si accosta contrito al sacramento della penitenza e questa fiducia deve comunicare chi l’amministra. Fiducia che troppo spesso viene sminuita e debilitata dallo scoraggiamento in cui può trovarsi – e spesso si trova – il penitente o la penitente a causa del fatto che nonostante ripetute confessioni, non riesce a uscir fuori da una determinata situazione di peccato. Questo scoraggiamento conduce non poche persone ad allontanarsi dal sacramento perché ritenuto inefficace, ma non è così. Il sacramento, infatti è sempre efficace e vince e distrugge il nostro peccato, ma rimane in noi la debolezza che, se non viene ben sorretta dall’aiuto della preghiera e della s. comunione e dalla fuga delle occasioni di peccato, c’inclina a ricadere. Proprio per questo il nostro Gesù ha voluto che questo sacramento lo potessimo ricevere sempre, senza nessun limite di ripetizione, volendo anche più volte al giorno, perché Lui conosce la nostra “debolezza” (Eb 5,2) e sempre viene incontro ad essa con la sua forza d’amore che ci fa nuovi (cf Ap 21,5), sempre e comunque, ogni volta e tutte le volte ridandoci fiducia e grazia. E quello che dà più gioia a Gesù e vedere che noi crediamo a questo suo amore viscerale ed esagerato che ha per noi. Allontanarsi dal sacramento perché non si riesce a correggersi, apparentemente a molti sembra essere un atto di rispetto del sacramento, in realtà è un non credere a questo amore troppo grande di Gesù e ancor di più e in verità, più spesso ancora è anche un non volersi nuovamente umiliare davanti ad uomo raccontando i propri fallimenti. L’esperienza poi ci dice che, se il penitente persevera nell’umile confessione e nella speranza, viene il momento in cui si attua in lui la liberazione totale e il Signore lo fa riposare sulle alture (cf Sal 18(17),34).
Questa speranza deve avere nel cuore il penitente e ancor più il sacerdote che l’assolve e che dovrebbe esortarlo così come faceva il P. Pio Bruno Lanteri che diceva a se stesso prima ancora che a colui che confessava:
«Impara ad andare avanti anche con mancamenti e debolezze, e non fermarti mai per colpa loro nel mezzo del tuo cammino. Infatti, se non sai bene quest'arte, che è la più difficile, rischi di tornare indietro. Tu, invece, presupponi pure che hai da commettere molti mancamenti e peccati, perché servire Dio senza di essi si fa solo in Cielo. Per questo devi imparare a cadere sì, ma a alzarti subito, a domandare perdono senza meravigliarti né rammaricarti, né venir meno, per molti e grandi che siano i tuoi sbagli e peccati. Umiliati e piangi pure, ma alzati presto, anzi subito se ci riesci, perché questa è grande sapienza e mezzo ottimo per andare avanti».
La Vergine Maria, nostra Madre e Maestra di vita spirituale e l’esempio dei Santi dei quali desideriamo diventare imitatori (II lettura), ci aiutino ad introdurci sempre più e meglio e con più amore nel cammino della nostra santificazione.
Amen.
j.m.j.

da | pasomv.it

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