lunedì 21 aprile 2014

LA REGOLA CARMELITANA Commento di Padre Antonio Sicari


 Osservazioni preliminari e qualche anticipazione 
Negli istituti religiosi la Regola segna il momento in cui il carisma originario viene in qualche modo “cristallizzato”, “formulato”, “plasmato”, affinché le generazioni successive possano essere garantite nella loro viva partecipazione allo stesso carisma.
Di solito un Fondatore mette per iscritto la Regola del suo Istituto, quando si rende conto che l’esperienza originaria si è dilatata, coinvolgendo collaboratori e discepoli, e che è giunto il momento di fissare le intenzioni originarie della propria opera, segretamente dettate dallo Spirito Santo.
Una volta che la Regola esce, in maniera definitiva, dal suo cuore e dalle sue mani, Egli la offre ai suoi figli come cosa “santa”, intoccabile ­–espressione della volontà stessa di Dio– non per un indebito processo di sacralizzazione, ma perché essa custodisce il dono divino e le divine intenzioni dello Spirito. 
Anche a questo riguardo, la situazione carmelitana è anomala: quella che in seguito verrà approvata dai Pontefici come Regola è, all’inizio, una semplice “norma di vita” scritta, tra il 1206 e il 1214, da Alberto degli Avogadro, Patriarca di Gerusalemme. E Alberto, a sua volta, si basa, nello scriverla, su un progetto (“propositum”) indicatogli dagli stessi eremiti. 
Al termine della nostra analisi vedremo che tale “anomalia” corrisponde perfettamente all’altra anomalia di cui abbiamo già parlato: come, infatti, le origini del carisma carmelitano devono essere rintracciate più in un Luogo che in un Fondatore (anche se vengono subito personalizzate in due archetipi: Elia e Maria), e come tali origini consistono in una possente risalita verso l’Origine stessa dell’Alleanza (in tutte le sue declinazioni: da quella cosmica, a quella vetero-testamentaria, a quella cristiana), così la Regola carmelitana non farà altro che organizzare, nella maniera più semplice, un discorso strutturato e normativo sul «grande e universale comandamento» che chiede alla creatura la massima intimità, possibile su questa terra, col suo Dio.
Vedremo che, anche in questo caso, i carmelitani si troveranno ad ereditare –in maniera personalizzata ed esigente– il compito originario di ogni monaco (e in ultima analisi: di ogni cristiano), senza mai potersi rassegnare all’inevitabile decadenza che esso sempre subisce: chiamati dunque a costruire una storia in continua, paziente, inesorabile risalita verso l’Origine. 
Dicendo ciò, abbiamo in qualche modo anticipato le conclusioni cui ci ha condotto lo studio stesso della Regola, in modo che l’analisi che proponiamo risulti in qualche modo già ambientata. 
Brevi cenni storici 
La Regola Carmelitana giunge al termine di un’evoluzione –durata circa mezzo secolo– che si conclude con l’approvazione data dal Pontefice Innocenzo IV nel 1247. In tal evoluzione si possono distinguere tre fasi.
Le riepiloghiamo qui, anche se alcune notizie le abbiamo già apprese ricordando la «storia poetica e spirituale» dell’Ordine nei primi tre secoli della sua vita. 
1)      All’inizio c’è un “vissuto”: verso la fine del secolo XII, all’epoca della Terza Crociata (1189-1192) condotta dal Barbarossa, alcuni pellegrini-penitenti di origine latina (“conversi”) si raccolgono sul Monte Carmelo, presso la fonte notoriamente detta “di Elia”, per condurvi vita eremitica.
In quegli anni il Carmelo è uno dei pochi luoghi della Terra Santa in cui è ancora possibile realizzare una tal esperienza, perché la Montagna è protetta dai fortilizi militari del Regno Latino.
Abbiamo testimonianze certe della presenza di tali eremiti a partire dal secolo XIII.
Il racconto più celebre è quello di Giacomo da Vitry (Jacobus a Vitriaco), vescovo di Acri (Tolemaide) dal 1216 al 1228, il quale ha lasciato scritto nella sua Historia Orientalis:
«... Da ogni nazione che è sotto il cielo arrivavano nella Terra Santa pellegrini votati a Dio, e uomini religiosi attratti dal profumo di questi luoghi santi e venerabili... Inoltre certi santi uomini –rinunciando al mondo, accesi dal fervore della vita religiosa–sceglievano i luoghi più adatti in cui abitare, secondo le preferenze e i desideri di ciascuno. Alcuni, attratti dall’esempio del Signore, sceglievano quella solitudine tanto desiderabile che si chiama ‘Quarantena’, lì dove il Signore Gesù digiunò per quaranta giorni dopo il suo battesimo... Altri invece, a imitazione del santo anacoreta, il profeta Elia, preferivano condurre vita eremitica sul Monte Carmelo... vicino alla fonte detta appunto ‘di Elia’... e qui in piccole celle simili ad alveari, come api del Signore, accumulavano il miele divino della dolcezza spirituale...» (cc. 51 e 52).
In seguito, i documenti ufficiali dell’Ordine si riferiranno sempre, come a dei progenitori, a questi pellegrini “in sancta solitudine conversati”[1]
2)      Col tempo, questo “vissuto” giunse ad esprimersi come “propositum”, cioè come “progetto serio” di sequela di Cristo: gli eremiti del Carmelo, infatti, chiesero al Patriarca di Gerusalemme, Alberto degli Avogadro –che ricopriva anche le funzioni di Legato Pontificio– di volere stendere per loro una “Norma di vita”, basata appunto sul progetto che essi avevano, in qualche maniera, concordato. Sappiamo anzi che essi avevano già cominciato a riconoscere l’autorevolezza di un certo fratello B. (Brocardo?) che li rappresentava tutti.
La “Norma di vita” (“vitae Formula”) che essi chiedevano non era ancora una Regola, nel senso pieno e giuridico del termine, ma era già “più di un propositum”, e aveva lo scopo di raccogliere gli eremiti in un solo “collegium”, ecclesialmente riconosciuto e sottoposto a un preciso ordinamento giuridico. 
3)      In seguito, quando il Concilio Ecumenico Lateranense IV (1215) proibì la fondazione di nuovi Ordini religiosi, gli eremiti cominciarono a richiedere lettere e bolle pontificie di approvazione, mirate a sottolineare che l’esistenza del gruppo antecedeva la proibizione conciliare.
Intanto i “carmelitani” dovettero affrontare nel 1238 un traumatico “passaggio in Europa”, e i relativi problemi di adattamento. Finalmente, nel 1247, si giunse ad ottenere da papa Innocenzo IV una vera e propria “Regula confirmata et bullata”, la quale riconosceva i “fratelli del Carmelo” come vero e proprio Ordine religioso. Nel contempo, l’originale struttura eremitica, senza essere rinnegata, veniva comunque adattata e aperta anche a una certa “forma di vita apostolica”, simile a quella allora in uso tra i “mendicanti”.
Le più significative modifiche apportate da Innocenzo IV alla originale “norma albertina” furono:
-          l’elencazione esplicita dei tre voti monastici (“tria substantialia”),
-          la concessione di poter abitare anche nelle città,
-          la prescrizione della recita delle “ore canoniche”,
-          la prescrizione della mensa comune.
Altri piccoli ritocchi andavano ugualmente nella direzione di accentuare gli elementi cenobitici.
 Ai fini del nostro studio noi consideriamo, per ora, la Regola Carmelitana come un tutt’uno che trae la sua struttura essenziale dalla “norma” albertina, e trova la sua compiutezza nella formulazione definitiva approvata da Innocenzo IV.
Le distinzioni non ci sembrano rilevanti per quanto attiene l’interpretazione di fondo del documento.
 «Lettura» dello schema
 A - A1 ® Al saluto iniziale [c. 1] segue un breve Prologo [c. 2] a cui corrisponderà alla fine un Epilogo [c. 21]. Ambedue (prologo ed epilogo) trattengono, per così dire, nel loro abbraccio cristologico l’intera normativa, ma insieme la mantengono aperta alla Persona stessa del Signore Gesù: la “norma di vita” è così innestata nel grande e universale progetto cristiano della “obbedienza che è fede” (“obsequium Christi”) e nell’attesa del “ritorno del Signore” (“reditus/redditus”).
B – B1 ® ­  Il discorso sulla obbedienza –posto a modo di “grande inclusione” [cc. 3 e 19-20]– definisce l’abbraccio esistenziale in cui gli eremiti accettano di lasciarsi ecclesialmente custodire: tutte le disposizioni sono infatti contenute tra la norma iniziale che assegna un Priore al quale si deve promettere obbedienza [c.3] e la norma conclusiva che da un lato chiede al Priore di prestare un umile servizio evangelico alla maniera di Gesù  [c. 19] e dall’altro chiede ai frati di “onorare il Priore pensando Cristo che lo ha messo alla loro testa” [c. 20].
 C® Il rimanente corpo della Regola ha quindi, come suo cuore, il “Grande Precetto” che chiede agli eremiti la preghiera incessante, die ac nocte [cc. 8 e 9]. Attorno tale “Grande Precetto” si collocano, poi, con un ritmo ternario:
c1 ®  Tre norme che garantiscono le “strutture materiali” dell’eremo (anch’esse però hanno un senso spirituale), destinate a custodire lo spazio necessario alla «quiete» eremitica: distribuzione delle celle per mano del Priore [c. 5], stabilità e fedeltà alla cella [c. 7a], collocazione della cella del Priore alla porta dell’eremo [c. 7b];
c2 ®  Tre norme che descrivono le “strutture comunitarie” destinate a custodire e nutrire ecclesialmente la solitudine dell’eremita: la comunione dei beni [c. 10); la celebrazione eucaristica comunitaria [c. 12), le riunioni comunitarie e la correzione fraterna [c.13);
c3 ®  Tre norme che riguardano le “strutture interiori” della persona dei singoli eremiti, destinate a garantire l’equilibrio e le profondità di una vera hésychia: il digiuno e l’astinenza [cc.14 e 15], l’armatura e il combattimento spirituali [c.16], il lavoro e il silenzio [cc.17 e 18]. 
Da notare ancora che queste strutture –le prime tre preparatorie, e le altre destinate a far crescere e custodire l’attuazione del “grande precetto” della incessante preghiera– sono disposte in modo che la celebrazione Eucaristica si trovi collocata esattamente al centro di tutto lo schema[2].
 Verso una rinnovata interpretazione 
Per circa sette secoli tutti i commentatori della Regola carmelitana hanno  considerato come suo cuore e suo fulcro il precetto della “preghiera continua”, di cui si parla al c. 8: «Rimanga ciascuno nella sua cella, meditando giorno e notte la Legge del Signore e vegliando in preghiere» [3].
Questo stesso precetto fondamentale veniva poi –secondo le diverse epoche e le diverse sensibilità– interpretato o sulla base della originaria vocazione eremitica (tema dell’eremitismo interiore), o in paragone con i grandi archetipi della vicenda carmelitana (Elia e Maria), o in base alle esigenze ascetiche e spirituali di una così impegnativa vocazione, o insistendo sulle normative giuridiche-morali cui il carmelitano deve attenersi, o precisando i delicati rapporti che devono intercorrere tra le indicazioni contemplative e quelle apostoliche (anch’esse presenti nel testo originario), o approfondendo l’humus biblico in cui la Regola è radicata. 
Negli ultimi decenni sono state proposte nuove riletture che tendono a convergere verso una nuova percezione del carisma carmelitano[4].
Elementi nuovi da considerare ai fini di un’interpretazione più approfondita sarebbero:
-          il linguaggio medievale “latino-crociato” in cui il testo è composto, che evoca la centralità di Cristo, considerato allora dai pellegrini che si recavano a Gerusalemme come “Signore del luogo” al quale offrire la propria “milizia spirituale” (tema dell’obsequium e del servitium);
-          il primato della Parola che deve intimamente plasmare sia la comunità che la persona;
-          la centralità dell’Eucaristia come vertice della vita fraterna. 
Centro e cuore della Regola sarebbero pertanto i paragrafi 8-13, che l’autore avrebbe composto con l’intento di attualizzare, per gli eremiti del Carmelo, la vita della “primitiva comunità di Gerusalemme”, ideale che in quegli anni avrebbe nuovamente pervaso la coscienza della cristianità. 
Senza nulla togliere all’interesse che meritano alcune nuove suggestioni, le quali offrono utili integrazioni, a me sembra che non si possa e non si debba ridurre tutto agli aspetti e ai valori comunitari.
Il senso ovvio dei testi va rispettato per evitare di cadere –con una manipolazione forzata– nella genericità e di ritrovarsi così in mano soltanto delle indicazioni buone e necessarie per qualunque forma di vita cristiana. Ritorneremo sull’argomento, quando analizzeremo i testi relativi. 
Anche noi, tuttavia, pensiamo che l’interpretazione della Regola debba essere rinnovata –in base alla nuova sensibilità ecclesiale che è certo un segno dei nostri tempi–,  ma lo schema esposto già ci dice che è possibile farlo basandosi ancora sulla centralità (per tanti secoli intuita e insegnata) del precetto della «preghiera continua»
D’altronde sarebbe impossibile negare che questa centralità (anche se più o meno vissuta, secondo le diverse epoche e le varie vicende comunitarie e personali) ha comunque strutturato la coscienza e la stessa subcoscienza dei carmelitani d’ogni tempo. 
Crediamo anzi (e pensiamo si possa dimostrarlo) che tutta la complessa vicenda del Carmelo, nei secoli, ruoti attorno alla sfida e alla provocazione –accolta dai carmelitani– di volersi addossare in proprio un tale “precetto (umanamente) impossibile” che ha travagliato da sempre la coscienza di tutta la cristianità. 
E crediamo altresì che l’interpretazione che qui proponiamo sia esigita non solo da una tradizione assolutamente concorde, ma dalla stessa struttura che la Regola presenta, se la si considera senza pregiudizi.. 
«Lettura» dello schema 
A - A1 ® Al saluto iniziale [c. 1] segue un breve Prologo [c. 2] a cui corrisponderà alla fine un Epilogo [c. 21]. Ambedue (prologo ed epilogo) trattengono, per così dire, nel loro abbraccio cristologico l’intera normativa, ma insieme la mantengono aperta alla Persona stessa del Signore Gesù: la “norma di vita” è così innestata nel grande e universale progetto cristiano della “obbedienza che è fede” (“obsequium Christi”) e nell’attesa del “ritorno del Signore” (“reditus/redditus”). 
B – B1 ® ­  Il discorso sulla obbedienza –posto a modo di “grande inclusione” [cc. 3 e 19-20]– definisce l’abbraccio esistenziale in cui gli eremiti accettano di lasciarsi ecclesialmente custodire: tutte le disposizioni sono infatti contenute tra la norma iniziale che assegna un Priore al quale si deve promettere obbedienza [c.3] e la norma conclusiva che da un lato chiede al Priore di prestare un umile servizio evangelico alla maniera di Gesù  [c. 19] e dall’altro chiede ai frati di “onorare il Priore pensando Cristo che lo ha messo alla loro testa” [c. 20]. 
C® Il rimanente corpo della Regola ha quindi, come suo cuore, il “Grande Precetto” che chiede agli eremiti la preghiera incessante, die ac nocte [cc. 8 e 9]. Attorno tale “Grande Precetto” si collocano, poi, con un ritmo ternario:
c1 ®  Tre norme che garantiscono le “strutture materiali” dell’eremo (anch’esse però hanno un senso spirituale), destinate a custodire lo spazio necessario alla «quiete» eremitica: distribuzione delle celle per mano del Priore [c. 5], stabilità e fedeltà alla cella [c. 7a], collocazione della cella del Priore alla porta dell’eremo [c. 7b];
c2 ®  Tre norme che descrivono le “strutture comunitarie” destinate a custodire e nutrire ecclesialmente la solitudine dell’eremita: la comunione dei beni [c. 10); la celebrazione eucaristica comunitaria [c. 12), le riunioni comunitarie e la correzione fraterna [c.13);
c3 ®  Tre norme che riguardano le “strutture interiori” della persona dei singoli eremiti, destinate a garantire l’equilibrio e le profondità di una vera hésychia: il digiuno e l’astinenza [cc.14 e 15], l’armatura e il combattimento spirituali [c.16], il lavoro e il silenzio [cc.17 e 18]. 
Da notare ancora che queste strutture –le prime tre preparatorie, e le altre destinate a far crescere e custodire l’attuazione del “grande precetto” della incessante preghiera– sono disposte in modo che la celebrazione Eucaristica si trovi collocata esattamente al centro di tutto lo schema[5]
Verso una rinnovata interpretazione 
Per circa sette secoli tutti i commentatori della Regola carmelitana hanno  considerato come suo cuore e suo fulcro il precetto della “preghiera continua”, di cui si parla al c. 8: «Rimanga ciascuno nella sua cella, meditando giorno e notte la Legge del Signore e vegliando in preghiere» [6].
Questo stesso precetto fondamentale veniva poi –secondo le diverse epoche e le diverse sensibilità– interpretato o sulla base della originaria vocazione eremitica (tema dell’eremitismo interiore), o in paragone con i grandi archetipi della vicenda carmelitana (Elia e Maria), o in base alle esigenze ascetiche e spirituali di una così impegnativa vocazione, o insistendo sulle normative giuridiche-morali cui il carmelitano deve attenersi, o precisando i delicati rapporti che devono intercorrere tra le indicazioni contemplative e quelle apostoliche (anch’esse presenti nel testo originario), o approfondendo l’humus biblico in cui la Regola è radicata.
Negli ultimi decenni sono state proposte nuove riletture che tendono a convergere verso una nuova percezione del carisma carmelitano[7].
Elementi nuovi da considerare ai fini di un’interpretazione più approfondita sarebbero:
-          il linguaggio medievale “latino-crociato” in cui il testo è composto, che evoca la centralità di Cristo, considerato allora dai pellegrini che si recavano a Gerusalemme come “Signore del luogo” al quale offrire la propria “milizia spirituale” (tema dell’obsequium e del servitium);
-          il primato della Parola che deve intimamente plasmare sia la comunità che la persona;
-          la centralità dell’Eucaristia come vertice della vita fraterna. 
Centro e cuore della Regola sarebbero pertanto i paragrafi 8-13, che l’autore avrebbe composto con l’intento di attualizzare, per gli eremiti del Carmelo, la vita della “primitiva comunità di Gerusalemme”, ideale che in quegli anni avrebbe nuovamente pervaso la coscienza della cristianità. 
Senza nulla togliere all’interesse che meritano alcune nuove suggestioni, le quali offrono utili integrazioni, a me sembra che non si possa e non si debba ridurre tutto agli aspetti e ai valori comunitari.
Il senso ovvio dei testi va rispettato per evitare di cadere –con una manipolazione forzata– nella genericità e di ritrovarsi così in mano soltanto delle indicazioni buone e necessarie per qualunque forma di vita cristiana. Ritorneremo sull’argomento, quando analizzeremo i testi relativi. 
Anche noi, tuttavia, pensiamo che l’interpretazione della Regola debba essere rinnovata –in base alla nuova sensibilità ecclesiale che è certo un segno dei nostri tempi–,  ma lo schema esposto già ci dice che è possibile farlo basandosi ancora sulla centralità (per tanti secoli intuita e insegnata) del precetto della «preghiera continua»
D’altronde sarebbe impossibile negare che questa centralità (anche se più o meno vissuta, secondo le diverse epoche e le varie vicende comunitarie e personali) ha comunque strutturato la coscienza e la stessa subcoscienza dei carmelitani d’ogni tempo. 
Crediamo anzi (e pensiamo si possa dimostrarlo) che tutta la complessa vicenda del Carmelo, nei secoli, ruoti attorno alla sfida e alla provocazione –accolta dai carmelitani– di volersi addossare in proprio un tale “precetto (umanamente) impossibile” che ha travagliato da sempre la coscienza di tutta la cristianità. 
E crediamo altresì che l’interpretazione che qui proponiamo sia esigita non solo da una tradizione assolutamente concorde, ma dalla stessa struttura che la Regola presenta, se la si considera senza pregiudizi.. 
ANALISI E SPIEGAZIONE DELLA REGOLA 
Procederemo riprendendo successivamente le varie unità che si presentano con una certa evidenza agli occhi del lettore 
Saluto apostolico [c. 1] 
« [1] Alberto, chiamato per grazia di Dio ad essere Patriarca della Chiesa di Gerusalemme, ai diletti figli in Cristo B. e agli altri eremiti che dimorano sotto la sua obbedienza sul Monte Carmelo, presso la Fonte, salute nel Signore e benedizione dello Spirito Santo». 
La formula iniziale di saluto ha in sé inevitabilmente qualcosa di stereotipato, ma si sente in essa un tono biblico, simile a quello con cui S. Paolo iniziava le sue Lettere. Inoltre l’espressione “salus in Domino” (“salute nel Signore”) ha una sua particolare intensità: il significato si può, infatti, estendere fino ad augurare “la salvezza nel Signore”.
Allo stesso modo la “benedictio Sancti Spiritus” può estendersi fino a invocare dallo Spirito quel “carisma” di cui la Regola vuol essere espressione.
Inoltre il dono della Regola è inserito in un contesto di spirituale paternità-maternità: a nome della Chiesa-Madre, Alberto-Patriarca vuole prendersi cura degli «amati figli» che abitano sul Carmelo. 
A-A1: Prologo ed Epilogo (Tra l’obsequium Christi e il reditus/redditus Domini) 
– «[2] Molte volte e in molteplici modi i Santi Padri hanno stabilito come chiunque –a qualunque stato di vita [“ordine”] appartenga o quale che sia la forma di vita religiosa scelta– deve vivere in ossequio [“in obsequio”] di Gesù Cristo e a Lui servire fedelmente con cuore puro e buona coscienza. Ma poiché ci chiedete di darvi una formula di vita, in base al vostro ideale di vita [“propositum”], alla quale dovrete attenervi in avvenire: …»
– «[21] Vi abbiamo scritto brevemente queste cose allo scopo di stabilire la forma della vostra maniera di vivere. Se qualcuno poi vorrà dare di più, il Signore stesso al suo ritorno [“cum redierit”] lo ricompenserà [“reddet ei”]. Tuttavia si usi quella discrezione che è maestra di ogni virtù».  
Occorre anzitutto osservare che Prologo ed Epilogo hanno una duplice evidente funzione: da un versante essi racchiudono ed abbracciano il testo della Regola, dall’altro versante lo aprono e lo mettono in relazione con l’intera vicenda cristiana: ambedue infatti indicano Cristo come Signore della Chiesa e della Storia, a cui tutti i cristiani debbono guardare, per mettersi alla sua sequela in questa vita e per attenderLo, quando Egli ritornerà alla fine dei tempi. 

L’«obsequium Christi» [c. 2a]  

A chi comincia a leggere il testo della Regola balza subito agli occhi la scelta insistente e ripetuta di una terminologia senza limiti: “chiunque…, in qualsiasi stato di vita…, quale che sia la forma scelta…”.
Questa prima semplice osservazione impone già una certa critica su molte riflessioni che si sono fatte circa l’“obsequium Christi” da essa esigito.
A stretto rigore di termini, il tema dell’“obsequium Christi”, di cui qui si parla, è fuori della Regola, perché è più ampio.
O meglio: la Regola intende porsi come un’applicazione particolare (e particolarmente esigente) dell’obsequium chiesto a tutti i cristiani.  
Ed è subito, già a questo punto, che si mostra quanto possa rivelarsi distraente un troppo veloce ricorso alla «mentalità medievale» e al «linguaggio latino-crociato».
Si sostiene cioè che, in base a tale “mentalità” gli eremiti avrebbero percepito la loro vocazione alla maniera “feudale”: lottare (spiritualmente) per la liberazione della Terra Santa, “patrimonio del Signore Gesù”, e per la edificazione della Santa Gerusalemme. 
Pur senza negare la possibile esistenza di tali echi e di tali coloriture, non si deve mai dimenticare che l’originale lingua bibico-patristica rappresenta, in ogni epoca cristiana, quel particolare «dialetto comune», immediatamente percepito e comprensibile, che ha sempre permesso ai cristiani di ogni epoca di parlare lo stesso sostanziale linguaggio e di intendersi sulle questioni essenziali della loro comune fede, nonostante le abissali differenze di razza, cultura, mentalità, situazione storica e ambientale. 
Se c’è un’evidenza accuratamente sottolineata da Alberto di Gerusalemme è proprio l’universalità del suo rimando.
Lo sguardo del Patriarca non potrebbe essere più ampio: egli sta di fatto pensando a tutti i cristiani, senza distinzione alcuna, e ricorda che su tutti incombe la somma e beatificante regola di «vivere nell’ossequio di Cristo e prestargli fedele servizio». 
Per comprenderne dunque l’attuazione specifica che il Patriarca di Gerusalemme vuol proporre agli eremiti del Carmelo, è necessario anzitutto conoscere ciò che appartiene alla natura stessa dell’esperienza cristiana. 
Bisogna anzitutto osservare che il tema dell’«obsequium Christi» non è affatto secondario o accessorio nel pensiero neotestamentario, anzi esso esprime l’avvenimento stesso della fede.
L’espressione è tratta infatti dalla Seconda Lettera ai Corinti ed è una formulazione che occorre accuratamente esaminare.
Scrive dunque l’apostolo Paolo:
«In realtà, noi viviamo secondo la carne, ma non militiamo secondo la carne. Infatti le armi della nostra battaglia non sono carnali, ma ricevono da Dio la potenza di abbattere fortezze, distruggendo i ragionamenti cavillosi e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio e rendendo ogni intelligenza soggetta all’obbedienza di Cristo (“in captivitatem redigentes omnem intellectum in obsequium Christi”). Perciò siamo pronti a punire qualsiasi disobbedienza, non appena la vostra obbedienza sarà perfetta» (2 Cor 10,5), 
Il contesto paolino, come si vede, si accorda perfettamente al contesto della Regola che sta per parlare esplicitamente del “combattimento interiore” e dell’armatura spirituale che gli eremiti dovranno ingaggiare (cfr. c. 16), così come si accorda a quel contesto vagamente “feudale” e “crociato” che si vuol riconoscere sullo sfondo culturale e sociale del tempo in cui il nostro documento è stato composto. Ma è evidentemente il contesto biblico a prevalere. 
Ciò che l’Apostolo vuol insegnare è interamente giocato sulla contrapposizione di due parole greche: hypakoè (che in latino diventa a volte “obsequium” e a volte “oboedientia” )[8] e parakoè (che in latino diventa: “inoboedientia” ). 
Si tratta di un tema generale su cui egli insiste frequentemente, soprattutto quando parla della propria missione apostolica.
«Abbiamo ricevuto la grazia e l’apostolato in vista della obbedienza (“eis hypakoèn”) della fede di tutte le genti» –scrive Paolo all’inizio della Lettera ai Romani (1,5). E conclude la stessa lettera insistendo ancora: «Questo è il mio vanto in Gesù Cristo... Non oserei parlare se non di ciò che Cristo ha operato per mio mezzo, per condurre i pagani alla obbedienza (“eis hypakoèn”) in parole e opere» (15,18). 
L’espressione è tecnica, tanto che il verbo greco hypakùo traduce abitualmente l’ebraico “Shêma” (“Ascolta!” -cfr. Dt 6,4-8), verbo sacro per eccellenza, che esorta all’obbedienza incondizionata alla Alleanza. 
Hypakoè (obbedienza, ossequio) identifica dunque l’atteggiamento riverente e attivo di chi “accoglie la Parola di Dio attraverso l’udito e la traduce in pratica”, mentre parakoè (disobbedienza, mancanza di ossequio) è detta la posizione arrogante di chi “ode male” o “finge di udire” perché “non vuole trarre da ciò che ascolta quelle conseguenze pratiche per le quali la percezione uditiva diventa un vero e proprio ascoltare” [9]. 
Nel Nuovo Testamento hypakoè  “indica sempre la doverosa attenzione al messaggio evangelico”: a volte si esplicita che si tratta di “obbedienza a Cristo” (2 Cor 5,10), o “al suo sangue” (1 Pt 1,2) o di “obbedienza alla verità” (1 Pt 1,22); o di “obbedienza al Vangelo” (Rom 10,16; 2 Ts 1,8).
Altre volte si parla in maniera nuda di una “obbedienza” (hypakoè) nella quale si esprime la condizione stessa del credente[10], tanto che i cristiani possono essere persino definiti così: “figli dell’obbedienza (hypakoès) (1 Pt 1,14).
I fedeli di Roma, ad esempio, sono giustamente famosi dovunque per la loro “obbedienza” (hypakoè) (cfr. 16,19). 
Sullo sfondo di una tale terminologia sta il fatto che anche la missione e il sacrificio di Cristo sono stati anzitutto hypakoè, obbedienza, al Padre[11].
Perciò al radicale obbedire (hypakuein) di Cristo –“fatto obbediente (hypèkoòs) fino alla morte” (Fil 2,8)– fa riscontro l’obbedire (hypakuein) della comunità (Fil 2,12). 
Quando dunque si parla di quella “obbedienza della fede”, a cui tutte le genti sono ormai irrevocabilmente chiamate –formula che apre e chiude la grande lettera dogmatica Ai Romani (cfr. 1,5 e 16,26)– si tratta di un cosiddetto “genitivo epesegetico” che può essere reso o parlando di quella “obbedienza che è fede” o parlando di quella ”fede che è obbedienza”[12].
Contro tutto ciò sta anzitutto la disobbedienza (parakoè) di Adamo, da cui ogni altra disobbedienza discende, fino a documentarsi nella eventuale disobbedienza della comunità (cfr. 2 Cor 10,6). 
Torniamo ora a quell’obsequium Christi di cui parla la Regola Carmelitana considerandolo come dovere primario e universale dei cristiani, secondo l’insegnamento di 2 Cor 5,10. 
L’Apostolo si sentiva impegnato allora in una grande lotta: doveva usare le armi di Dio per condurre tutte le genti alla obbedienza della fede, “distruggendo i ragionamenti cavillosi e ogni baluardo innalzato contro la vera conoscenza di Dio” e “piegando ogni intelligenza all’ossequio (obbedienza) di Cristo”.
Egli doveva perfino annunciare il castigo di tutte le disobbedienze del mondo, ma per farlo doveva poter mostrare anzitutto “la perfetta obbedienza dei credenti”.
Ed è questo che egli chiedeva alla sua comunità: di collaborare con un’obbedienza perfetta, al grande combattimento missionario che egli doveva ingaggiare con tutte le genti.
Anche il Patriarca di Gerusalemme è impegnato nella stessa lotta[13], e chiede perciò agli eremiti che si sono a lui rivolti di volersi più generosamente impegnare nella battaglia della fede, votandosi alla suprema obbedienza dovuta a Cristo e alla sua Parola. 
«Servire a Lui, con cuore  puro e buona coscienza» [c. 2b] 
Anche la seconda citazione biblica, a cui l’autore della Regola si riferisce nel Prologo, per completare il suo pensiero, ha un humus “militaresco”.
Infatti l’espressione “servire a Lui fedelmente con cuore puro e buona coscienza” riprende il testo di 1 Timoteo 1,5:
«Ti ho raccomandato di invitare certuni a non insegnare dottrine diverse, e a non badare più a favole e a genealogie interminabili, che servono più a vane discussioni che al disegno divino manifestato nella fede. Il fine di questo richiamo però è la carità che sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera».
Sono espressioni che vengono riprese ancora, poco dopo, quando l’Apostolo raccomanda a Timoteo di «combattere la buona battaglia, con fede e buona coscienza, poiché alcuni l’hanno ripudiata, facendo naufragio nella fede» (1 Tim 1, 19-20). 
La predicazione e l’accoglienza della vera fede sono la grande preoccupazione soggiacente, ed è un compito che esige lotta e resistenza, ma esige ancor più che siano pure le radici del cuore e della coscienza. 
A tale purezza e rettitudine verso la Parola, –affinché sia davvero possibile l’ascolto più radicale e assoluto (in ciò consiste l’eremitismo)– Alberto impegna dunque i suoi eremiti. E anche ad essi consegnerà –come vedremo– la necessaria armatura. 
Per i monaci, inoltre, questa purezza, era considerata il fine immediato della loro militanza monastica.
Già Cassiano aveva insegnato ai primi monaci: «Il fine ultimo della nostra professione  è, come dici tu, il regno di Dio. Ma il fine immediato è la purità del cuore, senza cui non si può raggiungere il fine ultimo. Mettiamo allora ogni impegno per ottenere la purità di cuore. Se i nostri pensieri dovessero mai allontanarsene, riportiamo subito su di essa la nostra attenzione»[14]
Il Prologo della Regola Carmelitana ha, perciò, la funzione di inserire tutte le successive prescrizioni (in pratica: l’intera “norma di vita”) all’interno di quel compito cristiano primordiale che è «l’obbedienza della fede»: l’obsequium Christi a cui si piega con gioia ogni intelligenza credente. 
Ancor più: la «norma» che il Patriarca sta per donare agli eremiti del Carmelo si presenta essa stessa come un caso particolare (e particolarmente serio) di questa “grande Obbedienza”
Lo si vede dal fatto che l’obbedienza al Priore sta per essere chiesta ripetutamente, quasi ad abbracciare tutto il dettato, come “una grande inclusione” e, ancor più, dal fatto che il comando di “meditare giorno e notte la Legge del Signore” sta per essere posto come cardine di tutta la Regola. 
Il “ritorno” (“reditus-redditus”) dell’Epilogo [c. 21] 
Dell’epilogo dobbiamo parlare subito dopo il prologo perché –come abbiamo osservato– essi costituiscono assieme un abbraccio inclusivo, che ha lo scopo non solo di racchiudere l’intera “norma di vita” –incastonandola così nel tema della universale obbedienza cristiana– ma anche di mantenerla contemporaneamente aperta –da ambedue i lati– a quel rapporto personale con Cristo, che nessuna norma riesce mai ad esaurire. 
Come dunque il Prologo ha ricordato che non c’è altra legge superiore a quella dell’obsequium Cristi e del servizio fedele a Lui prestato con tutto il cuore, così l’Epilogo vorrà ricordare –prima di con-chiudere la Norma– che il cuore deve restare sempre proteso all’incontro col Signore che viene. 
Le prescrizioni contenute nella “norma di vita” (“conversationis vestrae formulam statuentes”), dunque, non impediscono la ricerca del di-più, motivato proprio dal fatto che si attende il ritorno di un Signore munifico che non si lascerà sopravanzare in generosità. 
C’è nell’epilogo un chiaro riferimento alla parabola del Buon Samaritano (cfr. Lc 10,35) il quale appunto promise all’albergatore di ritornare e di ripagare tutto ciò che costui avrebbe “speso in più”, in cure che avrebbe prestato al ferito, nella sua locanda. 
La Regola allora si chiude evocando sullo sfondo l’immagine di Cristo Buon Samaritano dell’umanità ferita (immagine molto amata dagli antichi Padri) [15].
 Ma è comunque nuova e stimolante –anche se appena accennata[16]– l’immagine di quel primo «eremo carmelitano» che fa quasi pensare all’ostello della parabola: ciascuno fratello infatti è stato portato in quella casa dal Signore Gesù per esservi guarito, e ciascuno deve ospitare l’altro senza lesinare sul prezzo delle cure, dato che il Signore ritornerà.
Purché il tutto accada in una casa saggiamente governata da quella “discrezione” senza cui non c’è né cura del presente né attesa del futuro.
 Il “reditus” (ritorno) del Signore (“ipse Dominus cum redierit...”) diventa così anche esperienza del “redditus” (ricompensa) da Lui promesso (“...reddet ei”).
Il gioco di parole è intenzionale dato che –nella lingua latina,[17]–, le due parole (reditus e redditus) finiscono per indicare la stessa cosa: il “ritorno”, inteso sia come nuova venuta (del Signore), sia come “resa”, “rientro di un bene”[18].
Ed Egli stesso si rivelerà come l’ineffabile ricompensa della nostra operosa obbedienza. 
Anche il tema del “reditus Domini” e quello del “redditus Domini” già annunziano temi che diverranno, nei secoli, sempre più tipici della spiritualità carmelitana[19]
Un’ultima annotazione possiamo ancora fare: l’autore conclude la Regola dicendo ai monaci d’aver voluto stabilire la «formula conversationis [vestrae]».
L’espressione era inevitabilmente destinata a richiamare loro –sempre a scopo conclusivo– l’insegnamento di S. Paolo che ai Filippesi diceva: «Conversatio nostra in coelis est » (3,20). Significativamente, le moderne versioni traducono così l’espressione biblica: «La nostra patria è nei cieli»
Alberto ricordava discretamente, a quegli esuli e pellegrini occidentali, che cercando il Carmelo, avevano soltanto voluto incamminarsi verso la Patria celeste, e che la «forma di vita» (“conversatio”) doveva sempre tendere all’ultima sacra “conversatio celeste”[20]
B-B1: Tra promessa e compimento (Il grande abbraccio dell’Obbedienza). 
Abbiamo appena visto che Prologo ed Epilogo rappresentano in qualche modo una “inclusione cristologica” dentro cui è incastonata la «Norma di vita»; e abbiamo osservato anche che si tratta di un “castone” più prezioso ancora della gemma, perché consiste in quella «obbedienza che è la fede» («obsequium») e in quella «attesa del Signore» di cui si sostanzia la speranza di tutti i credenti. 
Ma in qualche modo –proprio perché aperti sull’universale “norma cristiana”prologo ed epilogo restano estranei alla Regola: la abbracciano, per così dire, dall’esterno della sua struttura.
Esiste perciò, in maniera consequenziale, un’altra “grande inclusione” destinata direttamente a contenere ed esplicitare la “norma di vita”, applicando al caso particolare degli eremiti l’ossequio e l’attesa dovuti a Cristo. 
Si tratta dell’inclusione costituita dai capitoli 3 e 19-20 del testo albertino, che qui riproponiamo: 
«[3] In primo luogo stabiliamo questo [illud in primis statuimus]: che abbiate uno di voi come Priore, il quale venga eletto a tale ufficio o per consenso unanime, di tutti, oppure della parte maggiore e più matura: a costui ciascuno prometta obbedienza, e si impegni poi ad osservare l’obbedienza promessa con la verità delle opere, insieme alla castità e alla rinuncia alla proprietà».
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«[19] Tu poi, fratello B., e chiunque dopo di te sarà costituito Priore, dovrete sempre avere in mente, e praticare nelle opere, quello che il Signore dice nel Vangelo: “Chi vorrà essere il più grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vorrà essere il primo tra di voi, sarà vostro schiavo”».<                                                                                                                                                  
«[20] E anche voi, fratelli, onorate umilmente il vostro Priore, pensando –piuttosto che a lui– a Cristo che lo ha messo alla vostra testa e che dice ai responsabili delle Chiese: “Chi ascolta voi ascolta me e chi disprezza voi disprezza me”. In modo da non essere giudicati per averlo disprezzato, ma da meritare il premio della vita eterna per la vostra obbedienza». 
Che l’obbedienza sia concepita come la questione capitale –dal punto di vista più teologico che giuridico– è evidente da molteplici indizi.
L’incipit è solenne: l’«illud in primis statuimus» indica che tutta la precedente riflessione, in tutta la sua ampiezza[21], trova ora lo sbocco concreto e diventa operativa.
Addirittura l’autore non teme di sanzionare questa prima norma evocando l’avvertimento biblico di 1 Gv 3,18: «Figlioli, non amiamo solo a parole e con le chiacchiere, ma nei fatti e nella verità».
L’obbedienza richiesta e promessa dev’essere accuratamente provata con la verità dei fatti. 
Anche tale sottolineatura non è soltanto morale, ma cristologica.
Si sa come, già negli scritti dell’evangelista Giovanni, il termine “verità” tenda a identificare la Persona stessa di Gesù che si rivela, di modo che “fare la verità”, “operare nella verità” finisce per indicare cristianamente la fattiva adesione amorosa alla Sua persona.
L’antica “veritas operis” (verità dell’opera) nota anche ai pagani –con cui si indica sia l’oggettiva consistenza dell’azione, sia l’atteggiamento etico di chi dimostra con i fatti la verità delle proprie disposizioni– diventa cristianamente l’“opus Veritatis” (l’opera della Verità): l’opera che nasce dalla Verità personalmente incontrata e amata in Cristo, un’opera che è assieme dono e compito.
Non che provare la verità della propria promessa con le opere perda di valore. Il legislatore lo chiede infatti.
Ma il compiere le opere rimanda sempre –dal punto di vista cristiano– oltre la promessa fatta, rimanda alla Persona a cui la promessa è ultimamente rivolta.  
Il fondamento cristologico della prima norma della Regola [c. 3] non è tuttavia così evidente (se non per il fatto che essa nasce evidentemente dal comandamento supremo di vivere “in obsequio Iesu Christi”).
Esso risalta però, con tutta chiarezza, nella ripresa conclusiva, quando, sia il Priore che i Frati –pur diversamente coinvolti nel dramma dell’obbedienza– vengono esplicitamente e ugualmente assoggettati a Cristo Signore.
Il Priore deve avere la mente pervasa dal comando evangelico che non ammette altro primato che quello del servizio prestato alla maniera di Gesù –e anche questa persuasione deve incarnarsi nelle opere– mentre i fratelli devono “onorare umilmente” nel Priore quel Cristo che “lo ha messo alla loro testa” e che vuole essere personalmente “ascoltato e non disprezzato” nella persona stessa di chi esercita l’autorità nella sua Chiesa. 
La “grande obbedienza” che tutti devono al Signore Gesù s’incarna dunque nell’intero gruppo di eremiti carmelitani chiamato a diventare un polo obbediente a Cristo proprio attraverso la reciprocità che si instaura tra il Priore e i fratelli.
-          Il Priore vivrà la sua funzione autorevole obbedientemente: senza che alcuno possa sminuirla o “disonorarla”, ma rendendola egli stesso –nei pensieri e nelle opere– un servizio dovuto a Dio.
-          I fratelli vivranno la loro sottomissione al Priore obbedientemente: senza distogliersi dal riferimento immediato alla Persona di Cristo (“Christum potius cogitantes”), ma pure senza negare alla persona del Priore l’onore dovuto a Gesù stesso che in lui sceglie di farsi ascoltare e venerare. 
Il Priore dunque si conforma obbedientemente a Cristo–Servo (il che nulla deve togliere alla sua autorevolezza), e i fratelli obbedientemente lo riconoscono.
Solo se questo polo obbediente (costituito dal priore e dai fratelli, come da due metà di un unico frutto) si comporrà armonicamente –nella perfetta adesione delle due parti, ma anche nella pienezza della forma destinata a ciascuna parte– la “grande obbedienza” accadrà e da essa dipenderà il destino dei fratelli.
Infatti, lo “iudicium de contemptu”[22] o la “merces vitae aeternae” –condanna in giudizio per aver disprezzato (Cristo) o premio della vita eterna– dipenderanno, da allora in poi, per quegli eremiti, dalla stretta “obbedienza” che essi liberamente chiedono e accolgono dalle mani del patriarca Alberto.  
Voler sminuire questa forte relazione verticale (in direzione di Cristo Signore) in nome di una fraternità scoperta come “nuovo valore”[23] significherebbe non comprendere la struttura portante della Regola che, al contrario, intende proprio innestare decisamente la vita dei primi eremiti carmelitani nel tessuto della grande obbedienza cristiana, in cui consiste la Fede (“obsequium Christi”), offrendo opportune e totalizzanti mediazioni ecclesiali. 
La questione del Priore, e dell’obbedienza a lui dovuta, descrive la prima di queste mediazioni, ma l’autore non ha alcuna intenzione di addolcirla simbolicamente.
Si può dire anzi che egli ricerchi una certa voluta durezza che traspare nel linguaggio cui ricorre tutte le volte che deve parlarne:
-          l’avere un Priore è la questione primaria («Illud in primis statuimus...»);
-          «tutto deve procedere secondo il suo libero volere e le sue disposizioni» («de arbitrio[24] et dispositione ipsius cuncta procedant»);
-          tutto deve passare per le sue mani («omnia... distribuantur unicuique per manum Prioris»);
-          bisogna sempre attenersi alle sue decisioni e avere la sua licenza («sicut per dispositionem Prioris...», «nec liceat... nisi de licentia Prioris...»).
-          E infine tutti i fratelli devono onorarlo umilmente («humiliter») guardando non alla sua persona, ma a Cristo che lo ha posto a loro capo («Christum potius cogitantes qui posuit illum super capita vestra»)[25] e che considera come rivolti a Sé l’attenzione obbediente o il disprezzo, che ricevono i suoi ministri. 
Da tutto ciò dipende, poi, il “giudizio finale” a cui i fratelli saranno sottoposti da Dio («iudicium de contemptu» o «aeternae vitae mercedem»). 
Certo la Regola chiede anche ripetutamente che il Priore agisca con l’assenso degli altri frati, o almeno «della parte più matura», ma ha di mira più l’aiuto che i fratelli devono prestare al loro Superiore, che la limitazione dell’autorità.
L’assenso o il consenso dei fratelli è un aspetto di quell’abbraccio ecclesiale (caratteristico di ogni comunità religiosa, come lo fu della primitiva comunità cristiana) teso a impedire che l’autorità degradi in autoritarismo, e che l’obbedienza si corrompa nell’irresponsabilità.
 Anche prestare o negare il proprio assenso è una maniera di obbedire, come lo è (per il superiore) chiedere il contributo dei fratelli e valorizzarlo nella decisione da prendere. 
Ma la concezione dell’autorità resta «forte», perché tende inesorabilmente allo scopo del garantire la più totale e generosa obbedienza a Cristo. E che questa visione forte fosse ben nota, anche nel tempo in cui la vita religiosa si esprimeva in forme nuove, secondo l’ideale della fraternità, è ben dimostrato da certi documenti coevi.
Dei frati francescani Tommaso da Celano scriveva: «L’obbedienza non aveva ancora finito di parlare che già i frati erano corsi ad obbedire». L’idea del frate “obbediente come un cadavere” è già presente negli insegnamenti di S. Francesco.
E il “Maestro delle Vele” non temerà di raffigurare, nella Basilica del Santo di Assisi, questa allegoria: l’Obbedienza, in vesti femminili, pone un giogo sul collo del fraticello, mentre col dito sulle labbra gli chiede di tacere, accettando in silenzio il peso del comando.
Come si vede, pur in clima di fraternità mendicante, non si era per nulla lontani dal linguaggio della nostra Regola che sceglie la dura formula «Cristo ha imposto [il Priore] sulle vostre teste»[26].
Ma ogni durezza era riscattata da un’antichissima tradizione spirituale, risalente già alla Scrittura e agli antichi Padri, che nell’obbedienza vedeva non solo una necessità ascetica, ma la ricostruzione del mondo paradisiaco: la possibilità di tessere nuovamente –assieme al Figlio di Dio crocifisso– quel dialogo col Padre malamente interrotto alle origini.
Che le cose stiano così risulta non solo dalla nuda analisi dei testi, ma anche dall’intenzione che traspare da tutta la composizione. 
Finora abbiamo visto:
-          che l’obbedienza della fede, dovuta a Cristo, descrive per così dire il tessuto generale dell’intera Regola Carmelitana, la cui trama si esprime appunto in un composito intreccio di mediazioni;
-          che la mediazione più generale, destinata a custodire la vita dell’intera comunità e dei singoli eremiti, è appunto l’obbedienza a un Priore, “pensato e onorato” con lo sguardo rivolto a Cristo che lo costituisce. 
Dobbiamo ora giungere al cuore della questione: il motivo per cui la vita viene così custodita è che essa dovrà, a sua volta, scorrere tutta intera nella obbedienza a un “Grande Precetto”: quello della “preghiera continua”. 

C:   Il «Grande Precetto» della Regola  

«[8] Ciascuno rimanga nella propria cella, o in prossimità di essa, giorno e notte meditando la Legge del Signore e vegliando in preghiere, a meno che non si sia occupati in altre giuste incombenze». 
Parliamo di “grande precetto” per introdurre correlativamente il tema della “grande obbedienza” che la Regola ha di mira.
L’obsequium Christi, chiesto agli eremiti, dovrà avere, infatti, questa precisa connotazione vocazionale: obbedire al comando evangelico circa la “preghiera ininterrotta”. 
Si tratta di un precetto totalizzante, di un comando radicale, di una Parola esclusiva e sostanziale che chiede di essere accolta: la formulazione è talmente onnicomprensiva (“die ac nocte”) che antecede qualsiasi successiva –opportuna o necessaria– limitazione. Il testo originario della Regola deve prudentemente aggiungere la chiosa «nisi aliis iustis occasionibus occupentur» («a meno che i fratelli non si trovino occupati in altre giuste incombenze»), ma la norma resta in qualche modo indipendente dalle inevitabili e limitanti contingenze della vita. 
Ai fratelli eremiti viene comunque assegnato un compito che, per sua natura, non ammette interruzioni., proprio perché si tratta della grande sfida che ha travagliato continuamente il cristianesimo: il comando di Gesù di “pregare sempre”. 
Non si comprende nulla della Regola Carmelitana, né delle successive vicende dell’Ordine nei secoli, se non si comprende questa radice drammatica: che l’Ordine si è sempre sentito vocazionalmente legato a questa “impossibile sfida” contenuta nella sua Regola.
Si tratta di una sfida che ha travagliato prima l’intero monachesimo –per non dire: l’intero cristianesimo– ma da cui quegli antichi eremiti carmelitani, e poi i loro successori, si sono sempre sentiti provocati, perfino quando le circostanze della vita non sembravano (e forse non erano più) adeguate a raccoglierla. 
Ritorneremo con più decisione su questo argomento, dopo aver analizzato più a fondo il senso del precetto. 
I riferimenti biblici 
Iniziamo dai riferimenti biblici di cui il “Grande Precetto” si sostanzia. 
1.      «Meditare giorno e notte nella Legge del Signore» 
E’ un’espressione che si ritrova quasi identica all’inizio di due libri biblici significativi: quello di Giosuè e quello dei Salmi
-          Libro di Giosuè: «Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa Legge, anzi mediterai su di essa giorno e notte, perché tu cerchi di agire secondo quanto vi è scritto, perché allora tu porterai a buon fine le tue imprese e avrai successo...» (1,8).
E’ importante osservare il contesto in cui questo comando si inserisce: il popolo eletto è finalmente giunto in vista della terra promessa e, sotto la guida di Giosuè, deve finalmente iniziare la grande lotta di conquista.
Al condottiero Giosuè –e per suo mezzo all’intero popolo– Dio pone una sola condizione per garantire il suo aiuto divino: un’assoluta fedeltà alla Legge.
Gli ripete dunque quello che ha già detto a Mosè: «Non deviare da essa né a destra né a sinistra!» (Dt 5,32; 29,8).
Affinché questa “rettitudine” sia possibile il libro della Legge deve restare sempre davanti agli occhi e sulle labbra: oggetto di una ininterrotta meditazione[27].
In prospettiva c’è il premio della “terra” che dev’essere conquistata e assegnata come “sacra eredità”[28]. 
-          Salmo: «Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi / non indugia sulla via dei peccatori / e non siede in compagnia degli stolti; / ma si compiace della Legge del Signore, / e medita la sua Legge giorno e notte» (1,2).
Il valore di questa citazione sta nel fatto che il Salmo 1 deve essere considerato come la prefazione di tutto il Salterio, consistente nella descrizione delle “due vie” che si aprono davanti all’uomo: o la compagnia degli stolti e degli empi, che conduce a rovina, o la solitudine di colui che “sta sempre col Signore” familiarizzandosi con la sua Parola e cercando la felicità da Lui promessa ai suoi eletti.
Sono parole che non soltanto descrivono esattamente –nella sua radicalità– la vicenda vocazionale degli eremiti del Carmelo (che erano appunto “conversi” o “poenitentes”), ma anche la loro quotidiana pratica di vita: essendo appunto il Salterio (che quelle parole introducono), lo strumento che assicura la meditazione dell’eremita, e gli permette di colloquiare con Dio: di “compiacersi della sua Legge” e di “meditare giorno e notte”.  
2.      «Vegliare in preghiere giorno e notte» 
«Die ac nocte in lege Domini meditantes et in orationibus vigilantes».
L’espressione è congegnata in modo che anche il «vegliare in preghiere» sembra dover accadere «notte e giorno».
Viene in mente il consiglio di Cassiano ai suoi monaci (che J. Soreth ripeterà poi commentando la Regola Carmelitana):  «Lascia che il sonno ti vinca mentre mediti [il versetto: “Il nostro aiuto è nel nome del Signore”] così che, formato da questo esercizio incessante, tu possa cantarlo perfino mentre dormi»[29].
A. Ballestrero la spiegherà così: «L’incessante “vigilia in orationibus” non può non diventare la traduzione di profondi desideri che sorgendo dal centro dell’anima, dilagano in tutta la vita e gradatamente la trasfigurano: non più un semplice vivere terreno, ma la trepida attesa dell’amorosa presenza di Colui che, nascosto, nutre ed alimenta la perenne “vigilia d’Amore”»[30].            
L’espressione è tratta dalla Prima Lettera di Pietro, ma risente anche della Lettera agli Efesini di Paolo (cc. 5-6). Osserviamo le fonti bibliche: 
-          Prima Lettera di Pietro: «Poiché Cristo soffrì nella carne..., armatevi degli stessi sentimenti di lui... Basta col tempo trascorso nel soddisfare le passioni del paganesimo vivendo nelle dissolutezze, nelle crapule, nei bagordi, nelle ubriachezza... La fine di tutte le cose è vicina. Siate dunque prudenti e vigilanti per le preghiere» (4,7).
Il testo originale parla più precisamente di quella sobrietà nel bere che garantisce la vigilanza. Contro di essa sta quell’ubriachezza sfrenata e licenziosa, disposta a ogni vizio, a cui segue un ottuso torpore che impedisce la vita dello Spirito nell’uomo. 
-          Anche l’Apostolo Paolo insegna: «Non ubriacatevi di vino che porta alla sfrenatezza, ma siate ricolmi di Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni e cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore Gesù Cristo» (Ef 5,18).
Tema ripreso, poco più avanti, con insistenza nella stessa Lettera: «Prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito che è la Parola di Dio. Pregando continuamente in spirito con ogni sorta di preghiere e suppliche, e vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e preghiera per tutti i santi...» (6,17-18). 
Che Alberto di Gerusalemme abbia sotto gli occhi anche questi testi di S. Paolo, che oppongono la freschezza orante dell’uomo colmo di Spirito Santo allo stolto torpore di colui che è divenuto preda delle proprie dissolutezze, è provato dal fatto che egli sta per citare e commentare lungamente proprio il capitolo 6 della Lettera agli Efesini, per proporre agli eremiti la “armatura spirituale” di cui devono lasciarsi rivestire. 
Spesso nel Nuovo Testamento vengono confrontati questi due gruppi di termini:
-          da un lato: ubriachezza, lussuria, sonno, tenebre, sconfitta;
-          dall’altro: sobrietà, veglia, preghiera, lotta vittoriosa, luminosità e gioia spirituale. 
Il tutto rimanda ancora all’«attesa del ritorno del Signore», considerata componente essenziale dell’intera vita cristiana, che nelle veglie oranti trova la sua più acuta manifestazione.
 Ma non bisogna tuttavia dimenticare che gli eremiti sono considerati in una categoria a parte (come i primi apostoli il giorno di Pentecoste): essi sono infatti –come diceva S. Macario– «uomini ebbri di Dio»[31]. 
Ma ecco ciò che più importa: il testo classico della Scrittura, in cui vanno poi a convergere assieme tutte le indicazioni fin qui date, è indubbiamente il capitolo conclusivo della Prima Lettera ai Tessalonicesi:
«Ma voi fratelli non siete nelle tenebre... siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte né delle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobri. Quelli che dormono infatti dormono di notte, e quelli che si ubriacano si ubriacano di notte. Noi invece che siamo del giorno dobbiamo essere sobri, rivestiti della corazza della fede e della carità, e avendo come elmo la speranza della salvezza» (1 Ts 5,4-8). 
Ed è a questo punto che troviamo la formula-cardine di tutta la questione:
«Siate sempre lieti, pregate senza interruzione, in ogni cosa rendete grazie. Questa è la volontà di Dio in Gesù Cristo verso di voi» (1 Ts 5,16-17). 
Materialmente questa citazione di S. Paolo non si trova nella Regola Carmelitana (dove è invece riportata la formula salmodica, più monastica, del “meditare giorno e notte”), ma basta conoscere almeno un po’ la storia della spiritualità per sapere che le due formule si equivalgono nel contenuto.
La formulazione paolina ha in più il tono impellente e definitivo del Nuovo Testamento ed è addirittura rivolta a tutti i cristiani. Essa fa dunque meglio percepire quale sia la “questione capitale”. 
Il comando paolino ed evangelico della «preghiera incessante» travagliò da subito la coscienza di tutti i cristiani, e venne messo a tema con particolare assolutezza da tutti coloro che si sentirono via via chiamati, nel corso dei secoli, a una speciale sequela di Cristo, e dunque anche a una più radicale obbedienza.
In particolare, era cosa assolutamente ovvia che questo fosse il “grande precetto” per chiunque sceglieva la vita monastica in genere, ed eremitica in specie.
Per Alberto di Gerusalemme e gli eremiti del Carmelo era pleonastico ricordarlo formalmente: ma tutto il linguaggio della Regola (lo vedremo soprattutto nei capitoli 16,17,18, dedicati esplicitamente a riassumere la dottrina spirituale dell’eremitismo) appartiene al grande dibattito circa la «preghiera incessante»[32]
3.      La recita dei Salmi e dei Pater 
Nonostante che il comando di meditare e pregare si estenda «al giorno e alla notte» –e intenda, come vedremo tra breve, prescrivere la preghiera incessante– la Regola non tralascia di precisare come distribuire la recita dei Salmi lungo le ore del giorno e della notte “secondo le prescrizioni dei Santi Padri e l’approvata consuetudine della Chiesa”.
Inoltre insegna come tale recita possa essere sostituita –da chi non sa leggere– con quella di un congruo numero di «Pater noster».[33] 
In realtà la ripetizione, a cadenze prestabilite e frequenti, dei Salmi e dei Pater non viene qui considerata come comando –oltre il quale ci sarebbe soltanto un libero sovrabbondare– ma come intelaiatura necessaria, di base, per supportare, con un necessario ancoraggio biblico l’adempimento del “grande precetto” che la Regola intende più propriamente prescrivere. 
Il grande precetto della «preghiera incessante» 
Anzitutto una giusta precisazione.
Volendo noi parlare del comando della «preghiera incessante», perché ne parliamo come del “grande precetto”, dando quasi l’impressione di voler usurpare una terminologia che riguarda invece la Carità? 
Che il più grande comandamento della Nuova Legge sia quello di “amare Dio con tutto il cuore, tutta l’anima e tutte le forze” nessun cristiano ha mai potuto metterlo in dubbio.
Ma i cristiani furono subito di una consequenzialità sconcertante[34].
«La misura di amare Dio –commentò Origene– è quella di amarLo senza misura»[35].
Ma se questo è vero, allora occorre amarlo sempre, ad ogni istante di vita.
E che altro è la preghiera se non la ricerca di togliere ogni impaccio a questo amore? se non l’innalzarsi impetuoso verso un rapporto sempre più totale e amoroso con Lui?.
Così emerse subito violentemente nella coscienza cristiana il dovere di obbedire al comando di «pregare senza interruzione» che San Paolo aveva ricordato con tante formule[36], e che trovava riscontro nell’insegnamento esplicito di Gesù: «Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre senza stancarsi...» (Lc 18,1)
A questo punto nasceva però il problema di come conciliare questo “comandamento dell’Amore” –divenuto comandamento di “pregare incessantemente”– con gli altri precetti della vita cristiana: quello dell’amore del prossimo, in primo luogo; ma anche quelli legati ai doveri del proprio stato.
E c’era in ogni caso il problema di come conciliare la “preghiera continua” con le mille esigenze –spesso inevitabili– della vita[37].
La soluzione si incanalava evidentemente su due strade: una per i semplici cristiani e per i responsabili delle chiese, che dovevano fare i conti con la complessità della loro vita e dei loro doveri, l’altra per i monaci che ricevevano appunto la vocazione di staccarsi da tutto per attendere “soli, a Dio solo”. 
Per i monaci, il problema –chiaro nei termini vocazionali– si poneva solo in termini psicologici e sperimentali: si trattava anzitutto di come poter riempire di preghiera tutti gli spazi e i tempi interiori; in secondo luogo si trattava di imparare a pregare anche durante i tempi e gli spazi che si dovevano comunque concedere ad altre necessarie attività (fisiche, manuali), e perfino durante il sonno.
Su questa strada i monaci svilupparono una tale conoscenza del cuore e della mente, e di tutti i meccanismi dell’io (anche dell’inconscio), e di tutte le tecniche di dominio del proprio corpo –e perfino del mondo materiale– da fare impallidire i nostri più moderni esperti, dando origine a quella corrente spirituale detta, in maniera generale: Esicasmo[38]. 
Ma è sull’altra strada –quella per così dire laicale– che la questione ricevette le sue più acute delucidazioni, proprio perché le più geniali menti cristiane (da Origene a Basilio, ad Agostino di Ippona, a Tommaso d’Aquino) si preoccuparono di insegnare a tutti i cristiani la possibilità di obbedire a quel totalizzante precetto circa la preghiera.
Accadde così una interazione che dev’essere attentamente osservata, anche ai fini della comprensione della Regola Carmelitana e della evoluzione storica dell’Ordine. 
Fu la dottrina generale che i Padri della Chiesa elaborarono per tutti a fare da quadro di riferimento, nel senso che ai monaci venne lasciato quel di-più che era ottimale secondo le diverse vocazioni e situazioni comunitarie e personali, con possibilità continua di rivedere la questione secondo l’evolversi della loro situazione esistenziale.
Accadde cioè qualcosa di simile a ciò che traspare dalle indicazioni che Paolo dà alla donna vedova nella sua Prima Lettera a Timoteo (testo che anticamente veniva molto citato a mo’ di esempio): «La donna veramente[39] vedova, rimasta sola, ha riposto la speranza in Dio e si consacra alla orazione e alla preghiera giorno e notte» (5,5).
E’ un’altra delle poche citazioni bibliche in cui si parla di “pregare giorno e notte” –tema affine a quello della preghiera continua– e il suo scopo è evidente: per la donna rimasta vedova, la cessazione dei doveri e delle preoccupazioni legate alla famiglia deve necessariamente produrre una maggiore invasione di preghiera che tende ad avvolgere l’intera esistenza (“giorno e notte”).
E’ esattamente ciò che i monaci sceglieranno di fare: non in base a una coniugalità mancata, ma in seguito a una “verginità” liberamente e appositamente scelta. 
I monaci dunque (a partire dagli eremiti che erano, per definizione, i più votati all’hésychia) erano chiamati a questo: a una preghiera “ininterrotta”; non però alla maniera di tutti i cristiani (facendo cioè diventare preghiera la vita), ma alla maniera loro propria: facendo diventare vita la preghiera
Evidentemente –per certi aspetti o certe evoluzioni (là dove le necessità della vita o i doveri della carità apostolica tendevano a imporsi)– anche i monaci finivano per rientrare nell’alveo comune. 
1.      L’alveo comune: la vita come preghiera incessante 
C’è un antico testo attribuito ad Origene che ha il vantaggio di commentare proprio la formula scelta nella Regola Carmelitana. 
«“Il giusto si compiace nella legge del Signore, e medita sulla sua Legge notte e giorno” (Sal 1,2). Medita giorno e notte la legge del Signore non colui che si impadronisce con la memoria delle parole della legge, senza compierne le opere da essa comandate, ma colui che ha preso l’abitudine di ruminare quelle parole in modo da giungere alle opere corrispondenti, fin quando –attraverso l’esercizio continuo delle opere conformi alla Legge –egli diventa docile nel compiere tutto ciò che si addice a una vita perfetta secondo la Legge. E’ in questa maniera che gli sarà possibile “meditare la Legge di Dio giorno e notte”. Un simile uomo, sia che mangi o che beva o qualsiasi cosa faccia, fa tutto–come dice il divino Apostolo– a gloria di Dio. Perfino durante il sonno che egli prende per necessità, la sua attenzione (a Dio) influisce ancora, e influenza perfino i suoi sogni. E’ così che si risolve il problema posto dal comando dell’Apostolo: “Pregate senza interruzione”. Come si può pregare quando si dorme, o quando ci si occupa dei doveri verso il prossimo, o quando ci si deve occupare dei bisogni del proprio corpo? Sì, su questa questione noi affermiamo: l’uomo perfetto grida verso Dio, gli chiede di accordargli i doni migliori, agendo sempre in conformità con la Legge»[40]. 
L’argomentazione classica di Origene –che sarà poi sempre ripresa– è la seguente: «Le opere virtuose e l’osservanza dei precetti fanno parte della preghiera: colui che unisce la preghiera alle opere comandate e le opere alla preghiera, prega incessantemente. Solo così è realizzabile il precetto di S. Paolo confermato dalle parole di Gesù. Tutta la vita del santo dunque è come una sola grande preghiera, di cui ciò che noi chiamiamo abitualmente preghiera è solo una parte»[41]. 
Lo stesso insegnerà Afraate (uno dei più grandi rappresentanti della spiritualità siriaca), il quale tuttavia si premurerà di aggiungere: «Ho scritto che fare la volontà di Dio è preghiera, e mi sembra esatto. Ma ciò non vuol dire che tu debba rilassarti nella preghiera e cedere alla pigrizia! Nostro Signore ha detto: Pregate senza stancarvi. Applicati dunque alla veglia, caccia via la sonnolenza e la pesantezza. Sta’ vigilante notte e giorno, e non scoraggiarti»[42]
E S. Agostino di Ippona convincerà allo stesso modo l’Occidente, con la sua Lettera a Proba[43], che gli atti di preghiera non possono essere ininterrotti, ma può essere ininterrotta la causa che produce questi atti, cioè l’amore.
Dottrina così ripresa da S. Tommaso d’Aquino: «La causa della preghiera è il desiderio della carità (“desiderium charitatis”). E’ da questo desiderio che deve venire la preghiera. Tale desiderio in noi deve essere continuo sia attualmente che virtualmente. Infatti la forza di questo desiderio resta in tutto ciò che noi facciamo per Amore: dobbiamo fare tutto a gloria di Dio... E’ in questo che la preghiera deve essere continua. Ed è per questo che S. Agostino dice nella sua Lettera a Proba (c. IX): “E’ nella fede, nella speranza e nella carità che noi preghiamo di un perpetuo desiderio”»[44]
Fu comunque il grande Basilio a dare le formulazioni più precise e coerenti.
La preghiera è essenzialmente domanda. «Ma non dobbiamo limitare le nostre domande a ciò che diciamo con la bocca... la preghiera avrà il suo pieno senso a partire dal proposito della nostra anima, a partire dalle nostre azioni virtuose che si distendono su tutta la vita. “Sia che mangiate, sia che beviate, tutto fate a gloria di Dio” (1 Cor 10,31). Sei seduto a tavola? Prega. Portando il pane alla bocca, rendi grazie a Colui che te l’ha dato. Bevi del vino per rinvigorire il tuo corpo indebolito? Ricordati di Colui che te ne ha fatto dono per rallegrare il tuo cuore e dar conforto alla tua debolezza. Ti è passato il bisogno di mangiare? Fa’ che non ti passi il bisogno del tuo Benefattore. Quando indossi il tuo abito, ringrazia Colui che te lo ha donato. Quando ti avvolgi nel mantello, accresci il tuo amore per quel Dio che ti ha provveduto di vesti appropriate sia per l’estate che per l’inverno... Finisce il giorno? Ringrazia Colui che ti ha dato il sole per illuminare il tuo lavoro diurno, e ti ha dato il fuoco per rischiarare la notte... Così tu pregherai senza interruzione, non in parole, ma unendoti a Dio con tutta la condotta della tua vita. In tal modo essa sarà una preghiera continua e incessante»[45]
Si tratta insomma della preghiera continua intesa come «continuo ricordo di Dio». L’amico di Basilio, Gregorio di Nazianzo, diceva con una formula splendida: «Bisogna ricordarsi di Dio più spesso di quanto non si abbia bisogno di respirare»[46]
Deve trattarsi evidentemente di un ricordo efficace che spinge all’opera buona e la accompagna. Così la vita intera diventa preghiera, soprattutto quando l’uomo –sempre più maturo e sempre più figlio– impara ad obbedire a tutte e tre le parti dell’insegnamento paolino: «Siate lieti nel Signore; pregate incessantemente; ringraziate Dio (“fate eucaristia”) di ogni cosa» (1 Ts 5,17)
S. Giovanni Crisostomo insegnava ai suoi fedeli che la preghiera è continua quando dà luce e sapore a tutta l’esistenza:
«La preghiera, o dialogo con Dio, è un bene sommo. E’ infatti una comunione intima con Dio. Come gli occhi del corpo, vedendo la luce, sono rischiarati, così anche l’anima che è tesa verso Dio viene illuminata dal bene ineffabile della preghiera. Dev’essere, però, una preghiera non fatta per abitudine, ma che proceda dal cuore. Non deve essere circoscritta a determinati tempi e ore, ma fiorire continuamente, notte e giorno. Non dobbiamo, infatti, innalzare il nostro animo a Dio solamente quando attendiamo, con tutto lo spirito alla preghiera. Occorre che, anche quando siamo occupati in altre faccende –sia nella cura dei poveri, sia nelle altre attività, magari impreziosite dalla generosità verso il prossimo– abbiamo il desiderio e il ricordo di Dio, perché insaporito dall’amore divino come da sale, tutto diventi cibo gustosissimo al Signore dell’universo. Possiamo godere pienamente di questo vantaggio, anzi goderne per tutta la vita, se a questo tipo di preghiera dedichiamo il più possibile del nostro tempo»[47]. 
2.      L’alveo monastico: la preghiera incessante come vita 
Aver richiamato questo insegnamento-base, comune tra gli antichi Padri, valido per ogni cristiano, ha una importanza che non ci stancheremo di ricordare.
E’ perché l’intera vita cristiana può diventare preghiera, che alcuni possono tentare (per grazia di Dio) una strada ancora più vertiginosa: fare della preghiera la loro vita.
Ma siccome questo tentativo non potrà mai essere compiuto (ma soltanto ottimale)[48], la via comune (vita come preghiera) interverrà sempre a riequilibrare –la dove sarà necessario– il tentativo più vertiginoso.
Questo tentativo venne dunque chiamato fin dall’inizio del monachesimo: hésychia.
S. Macario precisava: «Il monaco è detto monaco per questo motivo: giorno e notte si intrattiene con Dio, e non pensa ad altro che alle cose di Dio»[49].
Ai fini della nostra analisi circa la Regola carmelitana, vale la pena sottolineare alcuni punti: 
a)      In tutta la tradizione cristiana antica, hésychia[50] ed eremitismo (o anacorési) sono praticamente sinonimi; descrivono la stessa scelta esistenziale: la ricerca della solitudine e della quiete esteriore ed interiore per dedicarsi esclusivamente al rapporto con Dio, nella ininterrotta preghiera.
Che Alberto di Gerusalemme, dovendo scrivere una “norma di vita” per gli eremiti carmelitani, pensi e si esprima in termini “esicastici” non è un’opinione, ma è per noi una certezza, almeno tanto quanto era per lui una necessità. L’esicasmo è sempre stato, in ogni epoca e fino ai nostri giorni, il linguaggio proprio e la spiritualità propria dell’eremitismo. Ciò è d’altra parte documentabile, come vedremo, a partire dal testo stesso della Regola[51]
b)      L’hésychia –ricerca ed esperienza spirituale propria dei monaci in genere e degli eremiti in specie– consisteva di questi elementi:
-          La «quiete (hésychia) esteriore» che esige: la lontananza dal mondo e dai contatti con altri uomini, la “permanenza nella propria cella” e il silenzio pressoché totale;
-          La «quiete interiore» che si ottiene liberandosi da tutte le «sollecitudini del mondo», e dagli attaccamenti ad esso; imparando la vigilanza (“nepsis”) che comincia come sobrietà nel cibo e nelle bevande, come abitudine alla veglia, e diventa prima custodia del cuore, liberazione da fantasie e pensieri malvagi e importuni, lotta contro gli assalti di Satana, e quindi attenzione costante a Dio.
-          E infine: la preghiera ininterrotta. L’hésychia prepara il clima adatto a tale preghiera, e da tale preghiera essa viene continuamente generata. E’ la preghiera intesa come compito a cui dedicare l’intera esistenza, ma secondo la sottolineatura “monastica” di cui stiamo parlando: che sia cioè la preghiera stessa a diventare “vita” impregnando di sé i giorni e le notti, gli spazi esteriori ed interiori dell’orante.
Dunque: non si tratta solo –come è invece chiesto a tutti gli altri cristiani– di riempire la vita con alcuni momenti espliciti di preghiera e con opere buone accompagnate dal “ricordo di Dio”, fino a che la vita diventi tutta preghiera. Si tratta più precisamente ed esplicitamente di una preghiera i cui atti tendono ad aumentare sempre più fino a sommergere, nei limiti del possibile, l’esistenza. Si tende in conclusione alla più perfetta e attuale unione con Dio, possibile in questa vita. 
I maestri più esigenti al riguardo erano stati  Cassiano e Giovanni Climaco, e vale la pena accennare brevemente alla loro dottrina. 
Cassiano, dopo aver vissuto a lungo tra i monaci dell’Egitto, si trasferì a Marsiglia dove fondò l’abbazia di S. Vittore, divenendo promotore e padre del monachesimo occidentale. Ha dunque una particolare importanza perché è lui che eredita tutta la riflessione spirituale dell’oriente e la trasferisce in occidente. Ecco alcuni dei suoi testi più celebri: 
«Fine unico del monaco e perfezione del cuore consistono in questo: tendere con perseveranza a una preghiera continua ininterrotta e –per quanto lo consente la fragilità umana– raggiungere l’immutabile tranquillità dello spirito e una stabile purezza»[52]. 
«In che cosa consiste la preghiera perfetta, e come deve essere per essere incessante?
Ciò avverrà quando sarà perfettamente esaudita la preghiera che il Salvatore ha fatto al Padre suo per i discepoli: “Padre, che l’amore con il quale mi hai amato sia in essi, e che essi siano in noi. Che siano una cosa sola. Come tu, o Padre, sei in me e io in te, anch’essi siano una cosa sola in noi”. Questa preghiera del Salvatore, che non può non essere esaudita, sarà realizzata in noi quando l’amore perfetto con cui Dio ci ha amato per primo sarà collocato nel fondo del nostro cuore, sì che noi l’amiamo come Egli ci ama. Ciò potrà accadere solo quando tutto ciò che noi amiamo, tutto ciò che noi desideriamo, tutto ciò che noi cerchiamo, tutto ciò che noi ci auguriamo, tutto ciò che pensiamo, tutto ciò che vediamo, tutto ciò che diciamo, tutto ciò che speriamo non sarà altro che Dio; quando l’unità del Padre col Figlio e del Figlio col Padre si effonderà nel nostro spirito e nel nostro cuore. Cioè: quando l’amore che noi abbiamo per Lui sarà continuo e inseparabile come quello che Egli ha per noi... E’ questo lo scopo che si deve proporre un eremita (...). Lo scopo di ogni perfezione è che l’uomo, spogliandosi giorno dopo giorno di tutto ciò che ha di carnale e di terreno, si innalzi sempre più verso le cose spirituali, fino a che tutte le sue opere, tutti i suoi pensieri, tutti i movimenti del suo cuore non divengano altro che una sola e ininterrotta preghiera»[53]. 
Giovanni Climaco è invece un autore del VII secolo che nel medioevo conobbe una straordinaria fortuna. Egli dedica alla questione dell’hésychia il XXVII grado della sua Scala Paradisi in cui tratta «Della sacra hésychia del corpo e della mente».  
Egli mostra di conoscere tutte le possibili motivazioni che possono spingere l’uomo alla ricerca della solitudine (comprese quelle più meschine e “malate”) ma sa che ne esiste una splendida e altissima: la motivazione di coloro che «impazziti d’amore per Dio, e trovando in questo amore delizie e dolcezze ineffabili, sposano per così dire questa sacra solitudine».
Secondo una sua definizione, l’amante dell’hésychia è «uno spirito valoroso e inflessibile, che monta insonne la guardia, alla porta del proprio cuore...»[54]. 
Per Giovanni Climaco si tratta di una «perpetua adorazione in presenza di Dio: che il ricordo di Gesù si unisca al tuo respiro, e allora conoscerai l’utilità dell’hésychia»[55].
 «L’esicasta è colui che può dire, con la Sposa del Cantico dei Cantici: “Io dormo ma il mio cuore veglia”»[56].
In breve: l’esicasta è un uomo «fatto preghiera» per vocazione. 
3.      Prime conclusioni 
 A questo punto non è così difficile accorgersi di come tutta la Regola che Alberto propone agli eremiti carmelitani sia una tessitura dei più antichi e profondi temi dell’esicasmo, anche se nel nostro Legislatore opera l’evidente persuasione che l’Hésychia sia possibile ad ogni vero spirituale, e che anzi, alcuni elementi cenobitici, servono ad equilibrare opportunamente quell’antico e totalizzante ideale. 
Si sente già avvenuta la riflessione del grande Basilio[57], e già consolidata la lunga esperienza del cenobitismo occidentale, che lo spinge a far custodire tutto il programma interiore dell’esicasmo dall’obbedienza e da alcune essenziali strutture di vita comune. 
Tuttavia, nonostante le spinte in senso cenobitico, Alberto non intese affatto snaturare quella rinascente esperienza eremitica.
Per salvarne il nucleo essenziale, doveva però mettere al centro della Regola, in maniera quasi assoluta, il precetto della “ininterrotta preghiera” (e del “restare sempre nella propria cella”) e corredarlo con la più antica e tradizionale dottrina circa il silenzio (la “cellula portativa[58]”), la “nepsis” (sobrietà-vigilanza per la preghiera), e la “militia” (combattimento spirituale).
E’ ciò che il Patriarca fece con ammirabile equilibrio[59]
Ma che cosa imponeva esattamente il precetto della Regola di «meditare giorno e notte nella Legge del Signore e vegliare nelle orazioni»? 
L’espressione «Meditare notte e giorno la Legge del Signore» era ricorrente nella spiritualità cristiana, per indicare una dedizione instancabile allo studio della Scrittura e alla preghiera.
Possiamo, ad esempio, ricordare quel che Possidio scrive nella sua Vita di S. Agostino: «Ricevuta la grazia (del Battesimo) deliberò, con altri concittadini ed amici suoi, datisi parimenti al servizio di Dio, di tornare in Africa, alla propria casa e alla propria campagna. Qui giunto, vi dimorò circa tre anni; rinunziò ai suoi beni... e viveva per Dio, nei digiuni, nelle preghiere, e nelle opere buone, meditando giorno e notte nella Legge del Signore» (3,1-29). Lo stesso Agostino nel De Trinitate confessava: «Medito nella Legge del Signore, se non giorno e notte, almeno tutte le particelle di tempo che posso e scrivo le mie meditazioni perché la dimenticanza non le cancelli»[60].  
Piuttosto fu la parola «meditare» che col tempo ricevette un significato sempre più pregnante e onnicomprensivo.
Gli esperti medievalisti spiegano che –al tempo in cui la nostra Regola venne scritta–meditare significava «leggere un testo con tutto il proprio essere» (J. Leclercq).
Si partiva da un testo sacro, soprattutto dai Salmi[61]: le parole venivano pronunciate in modo che le labbra le assaporassero, le orecchie le udissero obbedientemente, la memoria le trattenesse gelosamente, il cuore le amasse, l’intelligenza le comprendesse, la volontà decidesse di metterle in pratica.
Tutto l’essere era dunque teso ad esercitare una «memoria totale»: ai lunghi tempi esplicitamente dedicati a tale meditatio, si aggiungeva inoltre la costante ripetizione dei versetti più significativi a modo di giaculatorie che potevano accompagnare qualsiasi altra necessaria attività e perdurare anche nell’attesa del sonno, e perfino introdursi profondamente in esso.
Le espressioni della Scrittura, in tal modo, finivano per imprimersi nella memoria al punto tale che esse pian piano sostituivano le espressioni profane e comuni, e costituivano un vero e proprio nuovo linguaggio[62].
La Regola alluderà anche a questo, quando esorterà gli eremiti dicendo: «Che la Parola di Dio dimori abbondantemente nella vostra bocca e nei vostri cuori. E tutto quello che dovete fare, fatelo nella Parola del Signore» [c.16]. 
Venivano così a intrecciarsi due movimenti che poi fluivano ininterrottamente l’uno nell’altro: all’inizio c’era l’obbedienza dell’io che si inclinava sempre più alla «meditatio» con tutte le sue capacità fisiche e psichiche, fino a renderla simile al respiro; poi era il cuore –il centro più profondo dell’io– a lasciare scaturire da sé la preghiera che lo inabitava. 
Da tutto ciò che abbiam detto ci pare di poter tranquillamente concludere che il comando di «Meditare giorno e notte nella Legge del Signore e vegliare in preghiere», appare veramente come l’unico cuore della Regola Carmelitana, non perché si vogliano escludere altre vitali pulsazioni, ma semplicemente perché la Regola prevede che tale esperienza abbracci e accompagni, letteralmente e realisticamente, tutto il tempo e tutte le attività dell’eremita
Resta tuttavia la necessità di ambientare l’osservanza di un tale impegnativo precetto in modo da renderla possibile e fruttuosa. 
c1:  Tre «strutture materiali», dispositive  
Si tratta di strutture destinate a preparare lo “spazio vitale” in cui gli eremiti possano vivere la loro ininterrotta preghiera. Esse infatti precedono[63] il “grande Precetto”: 
«[5] Inoltre, nel luogo in cui avrete scelto di abitare[64], ognuno di voi abbia una singola cella separata, in base all’assegnazione delle celle disposta dal Priore, con l’assenso degli altri frati o della parte più matura di essi.
[6] Bisogna però che mangiate assieme ciò che vi sarà dato, ascoltando qualche brano della Sacra Scrittura, in un refettorio comune, purché lo si possa fare agevolmente.
[7] a) Non sia permesso a nessun fratello di mutare il posto che gli è stato assegnato, o di scambiarlo con un altro fratello, se non con il permesso del Priore in carica.
b) La cella del Priore sia presso l’ingresso [dell’eremo] affinché egli possa accogliere per primo coloro che dovessero giungervi.
c) E tutto ciò che dovrà essere fatto[65] lo si faccia secondo il libero volere di lui, e la sua decisione». 
Le tre disposizioni riguardano, come si vede, lo spazio esteriore dell’eremo.
Esso diventa ora uno spazio sacro: è la “terra promessa” che un nuovo Giosuè distribuisce agli eletti[66] perché possano finalmente osservare, in santa tranquillità e letizia, la Legge di Dio. 
Nel sec. XV –spiegando proprio questo passo della Regola– il Priore Generale J. Soreth– si esprimerà appunto così: «La cella è terra santa e luogo santo, dove il Signore e il suo servo si parlano nel segreto, come l’amico fa con l’amico».
Più ancora (come accade nella Scrittura), la terra santa si personalizzerà nel «grembo santo», nella «sposa fedele», nel «Tempio inabitato», con evocazioni tipicamente neotestamentarie e mariane:
«La cella riscalda il figlio della grazia come frutto del suo seno, lo nutre, lo abbraccia e lo conduce alla pienezza della perfezione, rendendolo degno dell’intimità con Dio… [Nella cella] l’anima fedele si unisce frequentemente al Dio vivo, come la Sposa si accompagna allo Sposo. Le cose celesti si uniscono alle terrene e le umane alle divine. Per il servo di Dio, la cella  è come il Tempio del Signore…»[67]
L’avere “una cella assegnata” –e il non poter cambiare posto, se non con una nuova assegnazione­– risponde evidentemente anche a criteri pratici, disciplinari, ma nulla è senza significato spirituale, là dove si tratta della più totale spoliazione per disporsi all’unione orante con Dio.
Allo stesso modo, il fatto che la cella del Priore sia collocata “all’ingresso” dell’eremo evoca l’immagine evangelica di Cristo “porta dell’ovile”.  
Più precisamente però viene qui ripresa la norma della più celebre Regola di Pacomio: «Se qualcuno si avvicina alla porta del monastero, volendo rinunciare al mondo ed essere aggregato al numero dei fratelli, non abbia la libertà di entrare. Prima si avvisi il Priore del monastero…». E’ lui che deve ammettere eventuali visitatori e nuovi fratelli, in modo che l’accoglienza sia un abbraccio paterno e un paterno discernimento. 
Di fatto le tre disposizioni ne introducono una più universale ancora: una formula onnicomprensiva che mira ad abbracciare tutte le altre eventuali questioni che dovessero sorgere: «E in seguito tutto ciò che dovrà essere fatto (quae agenda sunt cuncta…) lo si faccia secondo il libero volere di lui, e la sua decisione» [c.7c].
Vedremo tra poco che Alberto ripeterà, quasi alla lettera, la formula «quaecumque agenda sunt», ma per insegnare che «tutto dev’essere fatto nella parola del Signore» [c.16].
L’accostamento ricorda ancora una volta che «la volontà del Priore» ha ormai a che fare con «la parola di Cristo»: ad ambedue è dovuta la stessa obbedienza.  
Se ora si guarda attentamente alla maniera in cui la Norma è congegnata, ci si accorge che le prime tre disposizioni servono tutte a preparare, a difendere e a riempire di significato propriamente teologico il verbo “maneant”, con cui si apre, subito dopo, la formulazione del grande Precetto: «Maneant singuli in cellulis suis...», con l’aggiunta di quel «die ac nocte» che –così com’è collocato– potrebbe riferirsi non solo al dovere di “meditare” (“die ac nocte meditantes”), ma anche all’obbligo di non lasciare mai la propria cella (“... in cellulis suis die ac nocte”)[68]. 
Abbiamo già visto come il tema della hésychia (“quiete” che la cella deve garantire) venne da subito finalizzato al raggiungimento di quella divina unità che Gesù offrì ai discepoli nell’ultima sera della sua vita: «Come tu, o Padre, sei in me e io in te, così siano anch’essi in noi una cosa sola» (Gv 17,21).
L’esicasta –diceva Giovanni Climaco– è stimolato e confortato dalla preghiera con cui Gesù ha chiesto al Padre di accoglierci “nella loro unità”.
Questa preghiera è il motivo e la giustificazione della sua esistenza, il suo ideale di vita.
Ma essa è preparata dalla fortissima insistenza con cui Gesù ha chiesto ripetutamente ai discepoli di “rimanere in lui”.
A nessun eremita poteva perciò sfuggire il ruolo che il verbo “rimanere” ha negli ultimi discorsi di Gesù[69], e che continua ad avere negli scritti in cui l’Apostolo ci parla della Carità di Dio nella quale occorre sapere “restare”[70].
Secondo S. Cesario di Arles il motivo per cui il monaco doveva restare nella sua cella era quello di “implorare con continue preghiere la visita del Figlio di Dio”[71], e quindi di non mancare all’appuntamento.
E gli studiosi dicono che tutta l’antica letteratura monastica è attraversata da questo consiglio, così diffuso che non si sa nemmeno più a chi attribuirlo: «Resta seduto nella tua cella, e la cella ti insegnerà ogni cosa». 
Il tema del “rimanere” nella propria cella era perciò carico di evocazioni spirituali e di contenuti pedagogici.
«Come i pesci muoiono se restano fuori dall’acqua, così i monaci che si attardano fuori della cella», diceva il grande Antonio, patriarca del monachesimo[72]
La formulazione di Alberto sta tra l’antico noto aforisma di S. Pier Damiani che insegnava: «L’abitudine di stare nella propria cella fa sì che essa diventi dolce per il monaco, mentre l’inquieto vagare gliela rende odiosa» («Consuetudo facit monacho cellulam dulcem, vagatio facit horribilem»)[73], e la serena ammonizione che più tardi darà l’Imitazione di Cristo: «La cella continuamente abitata diventa sempre più dolce»[74].
Per tre volte, in pochissime righe, ritorna il termine “singuli” che sottolinea la scelta profondamente eremitica[75], rispetto al quale la cella –nonostante le apparenze– sta da correttivo: perché è la cella a indicare e fissare il luogo dell’appuntamento con Dio, il luogo dell’incontro inevitabile, il luogo del rapporto unitivo.
Senza la cella e la sua “mistica sponsale” –di cui già parlava Giovanni Climaco– la solitudine è ripiegamento malato su se stessi, che genera la tristezza e la incapacità di radicarsi, di “restare”. 
L’ Ignea Sagitta spiega:
«Lo Spirito Santo, lui che sa quel che conviene a ciascuno, avrebbe ispirato senza motivo la nostra Regola, là dove dice che ciascuno di noi deve avere la sua celletta separata? Non parla di celle vicine, ma separate le une dalle altre, affinché lo Sposo celeste e la sua Sposa –l’anima contemplativa– possano qui colloquiare nella pace di un intimo dialogo»[76]. 
Ciò che invece si oppone al “rimanere nella propria cella” non è evidentemente l’insorgenza di particolari necessità, ma più precisamente l’acedia, il «taedium cordis».
Il monaco che “vaga” triste e ozioso è anzitutto un monaco annoiato del suo Dio, e che dunque consuma nel cuore –come diceva Macario il Grande– «adulterio nei riguardi di Lui»[77].
La cella altro non è –nella tradizione esicasta, soprattutto eremitica– se non il riflesso esterno della cella del cuore: se quella esterna e vuota e abbandonata, ciò significa che quella interna è invasa e devastata.
Perciò i commentatori carmelitani insisteranno: «Cerca di avere una cella esteriore e una interiore; l’esteriore è la casa nella quale abita la tua persona, l’interiore è nella tua coscienza nella quale deve abitare Dio bene addentro ai tuoi sentimenti… Ama dunque la tua cella interiore e ama quella esteriore: onorale tutte e due!»[78]. 

c2:   Tre strutture comunitarie

 

Sono strutture di sostegno ecclesiale per l’osservanza del “grande Precetto”: 

«[10] Nessun fratello dica di possedere qualcosa di proprio, ma tutto sia in comune tra voi, e ciò di cui ognuno ha bisogno –tenendo conto dell’età e delle necessità dei singoli– verrà distribuito a ciascuno per mano del Priore, vale a dire per mezzo del fratello a cui egli avrà dato l’incarico.
[11] Se ne avrete necessità, vi sarà lecito tenere asini o muli, come anche qualche allevamento di animali o volatili.
[12] L’oratorio sia costruito in mezzo alle celle –se si può farlo agevolmente– e qui, alla mattina di ogni giorno, dovrete radunarvi per partecipare alla solenne celebrazione della S. Messa, se si può farlo comodamente.
[13] La domenica, o in altro giorno se è necessario, vi riunirete assieme per trattare della osservanza Regolare [“custodia Ordinis”] e della salute spirituale delle vostre anime. In tale occasione saranno corrette con carità le trasgressioni e le colpe che si fossero eventualmente riscontrate in qualche fratello». 
Queste strutture comunitarie sono state molto rivalutate ai nostri giorni, al punto che alcuni commentatori vedono in esse il vero cuore della Regola, soprattutto perché descriverebbero «l’ideale di Gerusalemme e della comunità cristiana primitiva», che tornava in voga nei primi secoli del secondo millennio.
La Gerusalemme «storica e simbolica» (geografica e celeste) darebbe al progetto di vita della Regola uno schema vitale di fondo. 
Si può convenire sul fatto che l’ideale della «comunità cristiana primitiva» sia sotteso, a quello della vita consacrata, in ogni tempo e in tutte le sue forme, soprattutto da quando è in atto l’esperienza cenobitica (della «vita comune», appunto).
Fu già Cassiano a darle esplicitamente, come fondamento biblico, i testi di Atti 2,42-47 e 4,32-35[79].
I simboli della Gerusalemme biblica e celeste ­–attinenti alla perfetta e beata comunione, concordia, letizia, pace che devono regnare tra i fratelli– sono anch’essi comuni e universali.
Non si vuole certo negare l’esistenza di questi modelli e simboli nella Regola Carmelitana.
Le citazioni indirette dei celebri testi degli Atti degli Apostoli (2,45; 4,32.35) lo dimostrano. 
E, tuttavia, è necessario sottolineare che essi sono messi appunto come sostegno e difesa ecclesiali per permettere l’accoglienza e la pratica del “grande precetto” della preghiera ininterrotta che però riguarda il singolo fratello eremita. Né poteva essere diversamente, se di eremitismo si trattava.
Si può aggiungere anche, se si vuole, che quei modelli comunitari e “gerosolimitani” possono anche essere considerati come “la patria” ecclesiale e ideale a cui ogni eremita deve sempre tendere.
Ma il “pregare” di cui si tratta nella Regola non è un generico e comunitario ascolto della Parola, né il ritrovarsi assieme per celebrare l’Eucaristia, né l’avere tutto in comune o l’essere un cuor solo e un’anima sola: è il personale “meditare e vegliare in preghiere” che abbraccia tutto l’essere e tutto il tempo di ogni singolo fratello. 
In conclusione, ogni commento e illustrazione tesi a valorizzare meglio anche gli aspetti comunitari della Regola Carmelitana, ci sembrano accettabili, ma a patto che non si voglia giungere, ad ogni costo, a conclusioni arbitrarie o generiche: e tali ci sembrano quelle che pretendono finalizzarne tutte le prescrizioni alla edificazione della comunità, attorno all’Eucaristia. 
Dire, come fanno alcuni, che «il cuore mistico della Regola Carmelitana sta nell’Eucaristia e nella correzione fraterna» è un’affermazione vera solo in senso generale: in quanto, cioè, l’appartenenza al corpo eucaristico-ecclesiale di Cristo è essenziale per tutti i cristiani, ed è per tutti lo scopo dell’esistenza. 
Ma il cuore “proprio” della Regola Carmelitana sta nella ricerca dell’isolamento per l’orazione contemplativa, anche se si tratta di una solitudine ecclesialmente nutrita e custodita.
Non è perciò giusto giudicare come “lettura antropocentrica, individualistica e persino isolazionistica…”, la tradizionale (e attualissima!) lettura che identifica il centro della Regola nel «grande precetto» dell’orazione continua[80]. 
Rifarsi alle “strutture di comunione” per offrirle come itinerario mistico, contrapposto a quello segnato da una preghiera personale (che resterebbe invece isolata, disincarnata, individualistica, narcisistica ecc. ecc.), vuol dire produrre la contrapposizione in maniera ideologica e artificiale.
In realtà tali strutture sono sostegno e frutto della preghiera personale. 
Tra l’altro è interessante osservare che: 
-          la prima “struttura comunitaria” richiesta è quella della comunione dei beni materiali presenti nell’eremo: né appropriazione, né uso che vada oltre la necessità, né disponibilità indiscriminata, ma pacata e attenta “distribuzione a ciascuno del necessario per mano del Priore o di un suo incaricato”. Il tema teologico della povertà e quello ecclesiale della fraterna condivisione dei beni si intrecciano con il tema teologico dell’obbedienza, in un’unica icona familiare-eucaristica. 
-          La seconda struttura è quella dell’oratorio da costruirsi in mezzo alle celle in vista del convenire dei frati eremiti per la solenne celebrazione dell’Eucaristia.  L’eremo intero viene così trasfigurato in un unico Tempio, e il cammino mattutino dei singoli fratelli (dalla cella all’oratorio) dà quotidianamente una evidenza anche materiale alla tendere di ciascuno verso Cristo Eucaristia, fatto “centro del loro cosmo e della loro storia”
Il convenire –prescritto dalla Regola– descrive dunque la comunità nel suo farsi; il che non avviene perché gli eremiti si incamminano gli uni verso gli altri, rinunciando in qualche misura alla loro solitudine –né materialmente né spiritualmente– ma perché ciascuno è attratto inesorabilmente da un Centro che è il Cristo vivente nell’Eucaristia. Si può dire, a buon diritto, che la «comunione fraterna» è una sovrabbondanza, una sorpresa, un dono risultante dal Dono a cui tutti tendono.
L’Oratorio verso cui ci si incammina –dalla circonferenza delle celle disseminate­ al Centro sacro– permette di realizzare l’unità e di celebrarla.
Abbiamo già osservato, inoltre, che, in tal modo, l’Eucaristia è collocata al centro della Regola, anche dal punto di vista della struttura del testo, così come dev’essere collocata –anche materialmente– al centro dell’Eremo.
Non di un vertice si tratta, ma proprio di una profondità che, essendo quotidianamente disponibile, tutto attrae continuamente a sé, affinché tutto in essa si versi e si “consumi”.
Nel Carmelo, questa centralità profonda dell’Eucaristia, prevista dalla Regola, resterà anche negli atteggiamenti di tanti suoi santi.
Quando Santa Teresa d’Avila si impegnerà nella Riforma del suo Ordine Carmelitano –tentando di «tornare alle origini»– darà istintivamente alla «centralità» dell’Eucaristia non soltanto un’evidenza teologica e devozionale, ma perfino una evidenza strutturale: comincerà sempre le sue fondazioni con la gioia e la fierezza di mettere al centro «una iglesia mas adonde haya Santissimo Sacramento»[81]. E questo pensiero basterà a compensarla di ogni travaglio[82].
Si può dire –in senso ideale– che Teresa, in ogni sua fondazione, non solo costruirà un oratorio in mezzo alle celle, come la Regola comanda, ma edificherà le celle attorno all’oratorio, sua prima preoccupazione e vanto
E il giovane Giovanni de Yepes, studente a Salamanca, si sceglierà una celletta stretta e buia  solo perché, da una finestrina, può contemplare il Tabernacolo[83]. 
-          La terza struttura è data da altre periodiche (domenicali) riunioni degli eremiti che convengono per trattare «sulla maniera di custodire il [proprio] Ordine [cioè lo stato di vita ormai scelto] e sulla salute spirituale delle [loro] anime», oltre che per l’eventuale correzione fraterna. Questa volta sì, si può dire che gli eremiti si cercano tra loro (ma è evidentemente un “frutto” della celebrazione eucaristica). Ma non è una contraddizione con ciò che abbiamo appena detto. 
Proprio perché tutte le strutture –anche quelle comunitarie– tendono alla maturazione del singolo orante è necessario che si operi assieme un discernimento circa la loro efficacia.
La stessa Regola che Alberto consegna agli eremiti esige da essi una custodia, e la necessità di una verifica periodica.
Come si vede l’eremitismo, senza essere intaccato, si lascia proteggere da quelle strutture cenobitiche tradizionali che impediscono il deterioramento della solitudine stessa, la sua oggettiva “pericolosità”[84] che i Santi Padri conoscevano bene. 
Richiamare una certa centralità dell’ideale eucaristico-comunitario –anche nella Regola Carmelitana– è sempre importante, quando si tratta di sottolineare lo specifico dell’eremitismo cristiano che è tale solo se –come diceva Evagrio Pontico alla fine del IV secolo– fa del monaco un essere «separato da tutti e unito a tutti»[85].
Apparente contraddizione che l’eucaristia risolve, come ha esemplarmente mostrato, ai nostri tempi, Charles de Foucauld. 
c3: Tre «strutture interiori» 
Sono indicazioni su come la personalità dell’eremita debba sapersi strutturare, per una progressiva maturazione.
Esse descrivono la cosiddetta «cella del cuore», in parallelo con le prime tre norme dedicate alla cella materialmente intesa.
Gli studiosi fanno osservare che Alberto conosceva con tutta probabilità l’opera di Ugo de Fouilloy, molto diffusa allora tra i Canonici Regolari (e intitolata appunto De claustro animae[86]) secondo cui la cella del cuore la si edifica e la si custodisce con gli stessi elementi citati nella nostra Regola: il combattimento spirituale, il lavoro e il silenzio[87]
Poiché questi “elementi” non sono espressi tanto come «norme», ma piuttosto alla maniera di piccoli trattati spirituali, citiamo separatamente i tre brani della Regola
Digiuno e Astinenza 
«[14] Il digiuno lo osserverete ogni giorno, eccetto la domenica, dalla festa dell’Esaltazione della santa Croce fino alla domenica di Pasqua, a meno che la infermità o la debolezza fisica, o qualche altra giusta causa, non consigli di tralasciare il digiuno, perché la necessità non ha legge».
«[15] Vi asterrete dal mangiar carne, a meno che non dobbiate prenderla come rimedio in caso di infermità o debolezza. E poiché, in caso di viaggi, vi accadrà spesso di dover chiedere ospitalità, per non essere di aggravio ai vostri ospiti, potrete mangiare cibi preparati con carne. Anche viaggiando per mare vi sarà lecito cibarvi di carne». 
Il digiuno e l’astinenza delle carni sono, da sempre, mezzi ascetici ben noti a chiunque voglia vincere il dominio ingiusto che il corpo esercita sulla anima, e la materia esercita sullo spirito.
Sono sempre stati raccomandati e praticati, anche al di fuori della tradizione ebraico-cristiana. 
La Chiesa ha tenuto tali pratiche in grande conto e le ha raccomandate soprattutto ai monaci.
Il canone IV del Concilio di Calcedonia insegnava: «I monaci devono aver caro il raccoglimento (“quietem diligere”, amare cioè l’hésychia) e attendere solo al digiuno e alla preghiera…»[88].  
Oggi c’è chi vuol vedere in queste pratiche antiche una concezione dualista dell’uomo, e un certo disprezzo della materia.
In realtà si tratta di realismo, nei riguardi della corruzione a cui l’intera creazione è stata ormai assoggettata.
Chiunque si voglia accostare a Dio esperimenta subito quanto la materia tenda a dominare malamente l’io corporeo-spirituale e ad alterare il miracoloso equilibrio con cui il Creatore aveva immaginato, al principio, la sua creatura.
Più ancora: quando l’uomo cerca di accostarsi un po’ più intimamente al suo Dio, vede subito illuminata la propria originale (anche se non totale) corruzione, a partire dal primo peccato.
Ed è ben vero che tale corruzione è ormai radicata soprattutto nello spirito, ma è il corpo a mantenere l’uomo legato alla corruzione dell’intero cosmo, ed è attraverso la materia che lo spirito viene sempre nuovamente aggredito. 
Col digiuno e l’astinenza perciò l’uomo orante da un lato esperimenta umilmente la propria debolezza davanti a Dio e, dall’altro, prende posizione contro la corruzione della materia: non per un istinto di disprezzo, ma per riconquistarla a una originaria purezza. 
E’ vero tuttavia che anche queste pratiche ascetiche possono, alla lunga, rivoltarsi contro l’uomo.
Cassiano già spiegava saggiamente ai suoi monaci che «i digiuni eccessivi fanno male tanto quanto la ghiottoneria»[89]
Ma è necessario scendere ancor più in profondità. 
Nella Regola Carmelitana, digiuno e astinenza sono anzitutto un metodo per accompagnare Gesù nel suo cammino verso la Croce e per disporsi alla festa della Resurrezione.
La norma, infatti, sottolinea subito una particolare visione del tempo: l’anno eremitico, per così dire, è diviso in due parti più o meno uguali, e al centro c’è la Pasqua.
I sei mesi (circa) che la precedono sono per gli eremiti una lunga quaresima, tempo del digiuno e dell’attesa dello Sposo, secondo il ritmo previsto dal Vangelo: «Possono forse gli invitati a nozze digiunare mentre lo Sposo è con loro? Verranno però i giorni quando lo Sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno» (Mt 9, 15). 
Digiunando e facendo penitenza, l’eremita obbedisce, anche temporalmente e fisicamente, al comando evangelico di «seguire il Maestro portando la propria Croce» per poter alla fine «risorgere con Lui» e vivere come con-risorti. 
Già S. Giovanni Damasceno aveva detto che il motivo per cui l’asceta mortifica i suoi sensi sta in questo: disporre il corpo affinché l’anima credente possa «vedere il Risorto sfolgorante»[90]
La Regola è in questa pura linea patristica.
D’altra parte si noterà che la data d’inizio del “grande digiuno” è anch’essa segnata da una festa gloriosa: «l’Esaltazione della S. Croce» e ciò deve ricordare all’eremita che la croce cristiana è ormai in ogni tempo gloriosa e va abbracciata con animo lieto.
E se la Pasqua annuale era un vertice isolato nello scorrere dei mesi, ad ogni settimana ritornava, anche per l’eremita, la festa domenicale a concedere l’interruzione del digiuno e il ricordo della sua quotidiana finalità. 
Una finalità che, come abbiam visto, consiste nella adesione totale a Cristo Signore. 
Di S. Francesco –che viveva proprio in quegli anni in cui gli eremiti carmelitani ricevevano la loro Regola– si raccontava che egli era come la vedova povera del Vangelo: «Aveva solo due spiccioli, il corpo e l’anima, e li offriva a Cristo in ogni istante: il corpo con il rigore del digiuno e l’anima con l’ardore della carità».
D’altra parte ogni eremita sarebbe stato pronto a sottoscrivere quello che lo stesso Santo di Assisi insegnava allora:
«Nessuno si deve vantare di ciò che può fare anche un peccatore: questi può digiunare, pregare, piangere, e macerare la propria carne. Una cosa sola è a lui impossibile: essere fedele al Signore. Ecco dunque di che cosa dobbiamo gloriarci: di dar Gloria al Signore e di attribuire a lui ogni bene, dopo che lo abbiamo servito fedelmente»[91].
Il significato più profondo del digiuno sta dunque nella «trasmutazione» del cibo: si passa dal cibo fisico a quello spirituale, dal pane terreno al vero pane (la Parola di Dio, l’Eucaristia).
Il digiuno è, per così dire, il risvolto ascetico del mistero della transustanziazione. 
Anche l’astenersi dalle carni era prescritto non tanto per povertà, quanto perché nella «carne» era visto lo «spessore» della corporeità, e “astenersene” significava riconoscere uno spessore ancora più grande alla “Parola di Dio” che si è fatta nostro cibo: era un segno di fede e di obbedienza, anche fisica, alla “Parola”.
E che gli scopi «spirituali» della norma fossero quelli decisivi lo si vede da un particolare che affiora ripetutamente: il legislatore non la urge mai in maniera rigida, severa, materiale –come se si trattasse di sfuggire a una contaminazione– ma ne chiede l’osservanza dolcemente, anticipando egli stesso tutti i casi in cui la norma potrebbe essere di aggravio, e dovrà quindi essere disattesa. 
Armatura e combattimento spirituali 
L’eremita orante, che digiuna lungamente e si astiene sempre dal cibo «più carnale»[92], non dimentica comunque mai che la sua battaglia è soprattutto spirituale. Già il verbo askéo –da cui il tradizionale termine Ascesi– indicava “l’esercitarsi alla guerra”. Ed è l’armatura necessaria che ora viene descritta: 
«[16] Poiché la vita dell’uomo sulla terra è una prova, e coloro che vogliono piamente vivere in Cristo subiscono persecuzione, e anche il diavolo, vostro avversario, si aggira come leone ruggente, cercando chi divorare, mettete ogni sollecitudine nel rivestirvi dell’armatura di Dio, in modo da poter resistere alle insidie del nemico. I fianchi devono essere cinti col cingolo della castità; il petto deve essere difeso da santi pensieri, perché sta scritto: il pensiero santo ti custodirà. Deve essere indossata poi la corazza della giustizia, per amare il Signore Dio vostro con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze, e il vostro prossimo come voi stessi. Bisogna imbracciare, in ogni circostanza, lo scudo della fede, nel quale possiate far spegnere tutte le frecce infuocate del maligno: senza la fede, infatti, è impossibile piacere a Dio.
Anche l’elmo della salvezza va messo sul vostro capo, in modo che possiate sperare la salvezza dall’unico Salvatore che salva il suo popolo dai peccati. Infine la spada dello Spirito, che è la Parola di Dio, dimori con abbondanza nella vostra bocca e nei vostri cuori. E tutto ciò che dovrete fare fatelo nella Parola del Signore». 
Anzitutto si tratta di ben identificare i protagonisti della lotta che viene annunciata.
Essa è già radicata nella vita stessa, nella sua qualità –ormai inevitabile– di prova rischiosa.
Ma ancor più, la lotta si scatenerà come persecuzione inevitabile «a causa di Cristo e della sequela» e come avversità del demonio che si aggira ferocemente in cerca di prede umane.
Ed ecco il primo avvertimento: a combattere devono essere persone innamorate di Cristo: “qui pie volunt vivere in Christo: coloro che vogliono vivere in Cristo con attaccamento filiale”.
Non ci sono propriamente nemici e non c’è persecuzione, se prima non c’è questa «pietas» che lega indissolubilmente i discepoli al loro Signore, ed è questo attaccamento che subisce aggressione e che, quindi, si arma per difendersi dai persecutori e da Satana. 
Poiché si tratta della lotta che gli eremiti dovranno sostenere nella loro solitudine, non possiamo non ricordare che le «tentazioni nel deserto» sono diventate un tema classico per la gioia di artisti e psicanalisti, ma gli antichi Padri sapevano, con molto realismo, quale fosse la loro origine.
Al contrario di chi immagina che, nel deserto, sia la «privazione delle forme» a produrre dei mostri spaventosi, i Padri ritenevano invece che fosse il chiasso del mondo (l’abbondanza delle forme) ad occultare i demoni che vagano per città e coscienze, e a farli prosperare tra la svagata incoscienza degli uomini.
Nel deserto, invece, il demonio è costretto a venire allo scoperto ed è combattuto a viso aperto; nella «città» si mimetizza e vince. 
Alberto descrive la lotta dal punto di vista delle armi che occorre indossare per vincerla, offrendo una sua libera raccolta di citazioni e reminiscenze bibliche. 
Il testo base a cui si egli rifà è comunque quello di Efesini 6,11-17:
«Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di carne e di sangue, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano le regioni celesti. Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi: cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito che è la parola di Dio»
E’ bene sottolineare subito le differenze: nella Regola di Alberto si parla del «cingolo della castità», non di quello della «verità»; si aggiunge la «maglia di ferro dei santi pensieri»; si omette l’accenno ai calzari (lo zelo per la predicazione evangelica), e si precisa il richiamo alla “spada della Parola”, spiegando che essa deve dimorare abbondantemente nella bocca e nel cuore, per penetrare  poi in tutte le azioni della vita.
Sono differenze di facile spiegazione: il testo paolino (che riguarda l’intera vita cristiana vista in prospettiva di lotta escatologica) subisce le modifiche necessarie per adattarlo alla situazione e alla spiritualità eremitico-monastica. 
Abbiamo dunque:
-          ai fianchi il cingolo (“balteo”) della castità;
-          sul cuore la maglia di ferro dei santi pensieri,
-          sulle spalle e sul petto la corazza della giustizia,
-          al braccio lo scudo della fede,
-          sul capo l’elmo della salvezza,
-          e, come arma di combattimento, la spada della Parola di Dio. 
Ma c’è ancora una osservazione da fare: il testo con cui S. Paolo ha descritto l’armatura e la lotta del cristiano non è, di per sé, il primo punto di riferimento. E’ certamente interessante ricordare che S. Paolo, quando scriveva agli Efesini, viveva materialmente legato ad un soldato romano, di cui continuava ad osservare l’armatura. 
Ma già nella Scrittura era possibile trovare la descrizione di Dio che scende in campo come un guerriero vittorioso a difesa del suo popolo.
Scriveva Isaia annunciando il Messia venturo: «Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia / cintura dei suoi fianchi la fedeltà» (Is 11,5); «Dio si è rivestito di giustizia come di una corazza / e sul suo capo ha posto l’elmo della salvezza…» (Is 59,17). E il libro della Sapienza annunciava: «Egli prenderà per armatura la sua gelosia…/ Indosserà la giustizia come corazza / e si metterà come elmo un giudizio infallibile / prenderà come scudo una santità inoppugnabile…» (Sap 5, 17a).
La reminiscenza delle stesse immagini, o di altre simili, serviva a non far dimenticare che l’uomo combatte in nome di un Dio che per primo è venuto vittoriosamente in suo soccorso. 
Ma vediamo più da vicino la descrizione che ne fa il Patriarca di Gerusalemme: 
-          Il «cingolo della castità» richiama evidentemente l’antica persuasione che la prima lotta del monaco sia contro il demone della lussuria: «i lombi» possono anche essere l’immagine degli strati profondi del nostro essere –come qualcuno ama sostenere– ma sono anzitutto realisticamente il luogo dove ferve fisicamente la pulsione sessuale.  Nei “Detti dei Padri del deserto[93], che esemplificano la vita e le esperienze dei primi eremiti e monaci cristiani, i racconti di tali tentazioni –e cedimenti e vittorie– sono pieni di realismo e di suggerimenti che descrivono le protezioni e le difese con cui bisogna «cingersi» nella lotta. Tra tutte le indicazioni ne emerge una sostanziale: la tentazione accade attraverso la produzione di immagini e forme allettanti –apparentemente vitali, ma in realtà corrotte– prodotte congiuntamente dal corpo, dalla fantasia, dalla memoria. Il deserto sembra all’inizio favorire un loro soprassalto e incremento, ma ciò deriva in realtà dal taglio radicale operato. Ma non bisogna confondere questo fenomeno di reazione –che chiede appunto una armatura e una lotta– con quello di un deserto che non è più tale perché volutamente popolato di immagini e forme sempre nuove, e sempre più sottilmente accarezzate. Su ciò bisognerebbe oggi molto riflettere e discernere. 
-          La «maglia di ferro» con cui l’antico guerriero difendeva il petto e il cuore è invece costituita dai «santi pensieri»: la persuasione è quella che si ritrova già nei Vangeli: «è dal cuore dell’uomo che provengono i pensieri malvagi… che rendono immondo l’uomo» (cfr. Mt 15,19)[94]. Il cuore è la sede dei pensieri coltivati e divenuti intenzioni: se queste sono cattive tutto l’uomo diventa impuro e malvagio; se sono buone e sante tutto l’uomo trova custodia e salvezza. E’ interessante osservare che la citazione positiva offerta dalla Regola (“il pensiero santo ti custodirà”) è quasi impossibile trovarla nella Scrittura, ma se ne trovano invece molte che indicano la rovina provocata dai pensieri malvagi[95], e tali pensieri sono sempre difformi dal pensiero di Dio. Non solo, ma sono pensieri che pretendono competere con quelli di Dio e accusare Dio di ingiustizia. Il «pensiero santo» è insomma quello che nasce nel cuore dell’uomo per prossimità, sintonia, conoscenza e amore delle «sanctae cogitationes» («santi disegni») che Dio ha nei riguardi delle sue creature e del suo popolo.
A mio parere, l’indicazione del Legislatore (che ha aggiunto, di suo, questa componente dell’armatura) non riguarda ancora la «purezza del cuore e dei comportamenti» –una estensione cioè di quella castità di cui ha appena parlato– ma riguarda la “difesa vocazionale”: l’eremita deve mantenere il proprio cuore (i propri pensieri e i propri progetti) nell’ambito dei pensieri e dei progetti di quel Dio che lo ha chiamato in solitudine, per vivere in intimità orante con Lui. Si tratta della «affezione vocazionale» del cuore proteso ad amare e coltivare pensieri e intenzioni corrispondenti alla chiamata di Dio.
In particolare, poiché si tratta di vocazione eremitica, i «santi pensieri» sono quelli che mantengono il monaco nell’atteggiamento contemplativo (cioè: quei pensieri che costituiscono anch’essi una «cella isolata» dove accade il dialogo amoroso), mentre «i pensieri malvagi» sono raffigurazioni, suggestioni, divagazioni ragionamenti che impregnano l’anima e la distraggono dal suo amoroso dialogo con Dio. 
-          La «corazza della giustizia» va poi indossata per difendere l’intera parte superiore del corpo. La citazione esplicita del duplice Comandamento dell’Amore ci dà la chiave per comprendere di quale giustizia si stia parlando. Non si tratta –come qualcuno pensa– della «disposizione a dare a ciascuno il suo», cioè della giustizia intesa come virtù che spinge a dare a Dio e al prossimo l’amore loro dovuto. L’autore è completamente immerso nella mentalità biblica che vede la giustizia di Dio (anch’Egli, come abbiamo visto, indossa questa corazza) e quella dell’uomo come adesione assoluta alla Alleanza sponsale: Dio è giusto perché è indissolubilmente fedele alla carità che ci ha giurato; l’uomo è giusto se a tale carità risponde con fedele dedizione. Avvolto di carità ­verso Dio e verso il prossimo­, l’eremita è tutto difeso e tutto raccolto. Altrove S. Paolo parlerà anche esplicitamente della «corazza della fede e della carità» (1 Ts 5,8). ­
-          Lo «scudo della fede» deve essere continuamente a portata di mano dell’eremita: esso, una volta imbracciato, copre tutta la persona e la difende dalle «frecce di fuoco» scagliate dal nemico. Sembra quasi che la fede debba essere una barriera destinata a proteggere la carità del monaco e il suo ardore, dal fuoco diabolico continuamente scagliato da lontano contro di lui. Solo se protetto da una fede inattaccabile, l’eremita «piace a Dio», anche se il demonio lo bersaglia con le sue frecce insidiose e divoranti. E’ interessante ricordare che proprio in quegli stessi anni in cui scriveva Alberto, un monaco del Monte Athos insegnava ai suoi discepoli: «Lanciate le frecce della fede contro il Malvagio in modo da vincerlo. Esse sono digiuno, veglie, preghiere, lacrime, penitenza, umiltà, ubbidienza…»[96].  
-          L’ «elmo della salvezza» deve poi proteggere il capo. La citazione biblica (che chiede di sperare «in un unico Salvatore») ci aiuta a capire il significato di tale indicazione: poiché c’è un solo Salvatore, solo da Lui può giungere la salvezza e solo in Lui bisogna sperare. Occorre perciò guardare attentamente nella Sua direzione, bisogna aspettarlo e bisogna ­–come dice altrove la Scrittura­– “alzare il capo perché la nostra salvezza è vicina”. Il capo che si erge con fierezza é la parte più esposta del corpo, ma se si erge “aspettando la salvezza”, “in direzione dell’unico Salvatore che viene”, allora esso è protetto come da un elmo sicuro[97]. Il legislatore non poteva certo dimenticare un altro testo in cui l’apostolo Paolo aveva ripreso e approfondito il tema; concludendo la sua Prima Lettera ai Tessalonicesi –dopo aver descritto tutto un contesto di “vigilanza” e “sobrietà” (contesto che i monaci e gli eremiti avrebbero poi fatto proprio) Paolo aveva insegnato: «…Dobbiamo essere sobri, rivestiti con la corazza della fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza». Ma veglie e sobrietà avevano uno scopo direttamente cristologico: «Poiché Dio non ci ha destinati alla collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi perché sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con Lui» (1 Ts 5,7-10). 
La struttura teologale portante è stata così descritta, e l’uomo nuovo è garantito nella sua vita. Ma che cosa deve accadere a questa «nuova e casta creatura», chiamata da Dio, la quale nel deserto vive solo di «carità, fede e speranza»? 
-          L’ultima arma, decisiva per la sua lotta, è la «spada spirituale della Parola di Dio». Essa dovrà essere abbondantemente nel cuore e nella bocca dell’eremita. La prima immediata impressione del lettore –la difficoltà a immaginare una spada impugnata dalla bocca e dal cuore– dev’essere confermata: la spada di cui si parla non è un’arma che deve essere brandita verso il prossimo (nella predicazione, nella correzione, o simili)[98], ma è esattamente la Parola di Dio pronunciata e meditata dall’eremita orante (e che perciò «dimora abbondantemente nel cuore e nelle labbra») che in tal modo diventa per lui una spada che scende nell’intimo. Infatti è questo il senso dell’unico altro testo biblico in cui la Parola viene paragonata a una spada: «la Parola di Cristo è viva, efficace più tagliente di ogni spada a doppio taglio, e penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, e scruta i pensieri e i sentimenti del cuore» (Ebr 4, 10). E si tratta significativamente di una citazione che si conclude descrivendo la creatura tutta scoperta agli occhi e al giudizio di Dio: «Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a Lui dobbiamo rendere conto» (Ebr 4,13). 
Alberto non insiste su questo: lascia che la reminiscenza (chiaramente evocata dal richiamo alla «spada dello Spirito») faccia da sé il suo corso, ed esplicita invece la citazione di Col 4,16: «La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente… E tutto quello che fate in parole e in opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di Lui grazie a Dio padre» (Ef 4,16-17). Alberto si limita a riprodurla indicando ancora una volta l’ideale eremitico che sta descrivendo: il monaco arricchisce la sua bocca e il suo cuore con la Parola di Dio, questa penetra in lui come una spada che gli scruta le viscere[99], ma gli concede poi la grazia di fare tutto «in verbo Domini: nel nome del Signore Gesù». 
Così Alberto ha finito di adattare per i carmelitani la citazione di S. Paolo sull’armatura e la lotta del cristiano. E non ci sorprendiamo scoprendo che tale citazione dell’Apostolo (Ef 6,11-17) si apre appunto sul “grande Precetto” che dice: «Pregate incessantemente» (Ef 6,18). 
Lavoro e silenzio 
«[17] Dovete avere qualche lavoro da fare, affinché il diavolo vi trovi sempre occupati, e non trovi, a motivo del vostro ozio, un qualche adito per entrare nelle vostre anime. In ciò avete sia l’insegnamento che l’esempio dell’Apostolo Paolo, nella cui bocca parlava Cristo: Dio lo ha posto e lo ha dato come predicatore e dottore delle genti, nella fede e nella verità, e seguendolo non potrete sbagliare. “Nel lavoro e nella fatica –egli dice– abbiamo vissuto tra voi, lavorando notte e giorno, per non essere di aggravio a nessuno di voi. Non che non ne avessimo il diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. Infatti, quando eravamo presso di voi, questo vi ripetevamo: che se qualcuno non vuol lavorare, non mangi. Abbiamo infatti sentito dire che alcuni tra voi vagano inquieti senza far nulla. Scongiuriamo ed esortiamo questi tali, nel nome del Signore Gesù Cristo, a mangiare il loro pane lavorando in silenzio”. Questa via è santa e buona, camminate in essa».
«[18] Raccomanda inoltre l’Apostolo il silenzio, quando comanda di osservarlo lavorando. Anche il Profeta afferma: “Il silenzio è il custode della giustizia”, e ancora: “nel silenzio e nella speranza starà la vostra fortezza”. Perciò stabiliamo che, dalla fine di Compieta fino a dopo aver recitato l’ora Prima del giorno seguente, osserviate il silenzio. Nel restante tempo, benché l’osservanza del silenzio non sia richiesta con altrettanto rigore, bisognerà tuttavia guardarsi con molta attenzione dal parlar molto, poiché è scritto –e lo insegna anche l’esperienza– che “quando si parla molto non manca la colpa”, e anche: “chi è sconsiderato nel parlare, ne sentirà danno”. E inoltre: “Chi parla molto ferisce la sua anima”. E il Signore dice nel Vangelo: “Di ogni parola oziosa che gli uomini avran detto, renderanno conto nel giorno del giudizio”. Perciò ciascuno pesi le sue parole e metta giusti freni alla sua bocca, per non scivolare e cadere a causa della propria lingua, e la sua caduta sia insanabile e mortale. Ciascuno dunque custodisca, come dice il profeta, la sua condotta, per non peccare con la lingua, e si studi di osservare con diligenza e attenzione il silenzio che è custode della giustizia». 
Lavoro e silenzio sembrerebbero due indicazioni diverse e distanti tra loro, se non fosse che la parola «silenzio» è posta come cerniera per ambedue questi capitoletti.
Il c.17 si conclude con la raccomandazione di «lavorare in silenzio», il c.18 si apre riprendendo ed ampliando la indicazione. Ancor più importante è sottolineare che il termine greco usato per richiedere questo caratteristico e sacro silenzio è esattamente hésychia, quello che identificava anticamente la stessa vita eremitica e il suo progetto. Ma a sua volta tale quiete (hésychia) nella lingua monastica medievale era detta anche “otium”, da qui il facile equivoco in cui alcuni avrebbero potuto perdersi: credere che quiete e lavoro fossero tra loro incompatibili, come già alcuni cristiani di Tessalonica –al tempo di Paolo– avevano considerato incompatibile l’attesa del ritorno di Cristo con l’impegno terreno (2 Ts 3,8-12). C’erano stati così in quella Chiesa “alcuni che vagavano inquieti senza far nulla” e l’Apostolo aveva dovuto portare ad esempio se stesso che in quella comunità aveva vissuto “nel lavoro e nella fatica lavorando giorno e notte”, nonostante il già gravoso impegno della predicazione.  
Ciò che anzitutto impressiona è la solennità con cui il capitolo sul lavoro viene introdotto: viene citato il comandamento esplicito dell’Apostolo –il quale viene presentato con tutti i titoli di onore che egli rivendicava[100]– e le sue parole vengono lungamente riportate, alla lettera. Inoltre la stessa formula totalizzante già usata per la preghiera “die ac nocte” viene ora usata –senza temere contraddizioni– a riguardo del lavoro a cui l’Apostolo si è dedicato “giorno e notte” per essere di esempio. 
Il comando della Regola che abbina il lavoro al silenzio dipende dunque dal tema soggiacente dell’ «otium monasticum» che non è affatto “l’ozio del ricco e del potente” o “la decisione di non lavorare”, o “una fuga dalla dura realtà della condizione umana”, ma una realtà carica di benessere e perfino di “attività”.  
Le precisazioni riportate sono di J. Leclercq, il quale spiega:
«Otium indica un intero ordine di attitudini e di attività, meglio definibile col termine di esicasmo, mutuato dalla tradizione cristiano-orientale. Questa parola deve essere intesa realmente e praticamente come riposo della mente (quies mentis)… Lo spirito che è in stato di riposo si immerge nell’ascesi, si nutre nella quieta vita del monastero (quies claustralis) e porta al silenzio interiore, alla pace del cuore e alla serena contemplazione (quies contemplationis). Il contenuto di questa esperienza è stato spesso descritto in maniera affascinante da molti che l’hanno vissuta. Essa è attiva, dinamica, coinvolge tutto e, nello stesso tempo, è una grazia (…). L’otium non deve [però] essere idealizzato come una felicità immediata, né lo si deve considerare separato dal labor, l’altra esigenza di ogni vita umana, sia essa laica o monastica. Un aspetto complesso da trattare e da comprendere è costituito dalla relazione tra lavoro e ascesi, due realtà entrambi multiformi. La principale caratteristica del lavoro monastico è l’autodominio, la ricerca della pace interiore, del superamento di sé»[101]
Il monaco infatti è fuggito dalla città dove dominano gli affari (neg-otia, così chiamati appunto perché impediscono la tranquillità dell’anima e immergono nell’affanno), ma non per questo egli si perde in quella otiositas (di cui parla appunto la Regola) che già S. Benedetto definiva «inimica animae». Questa genera noia, tedio, accidia, e apre le porte alle suggestioni diaboliche. Nella Regola il precetto del lavoro ha appunto come obiettivo immediato l’impedire a Satana ogni adito: «che il demonio trovi i monaci sempre occupati».
Il monaco ozioso è disponibile ad ogni tentazione. Inoltre diventa un peso per la comunità, con la sua pigrizia e col suo inquieto vagare, e l’ozio toglie dignità perfino al cibo che egli prende senza averlo pagato col sudore della sua fronte. 
Altra cosa è invece amare quell’otium monasticum di cui si è parlato, alla cui realizzazione concorre essenzialmente la silenziosa e quieta applicazione di ciascuno al suo lavoro.
Il lavoro (all’inizio ci si riferiva soprattutto a quello manuale) educa anche il corpo all’obbedienza –al ritmo dettato dall’opera e dalla sua compiutezza– e non ostacola, anzi asseconda la contemplazione. Il lavoro è, per così dire, la preghiera delle mani e dei muscoli che s’accompagna a quella della bocca e del cuore. Esso deve «occupare» il corpo dell’eremita, così come la Parola di Dio deve «occupare» la sua anima: ambedue sono fonte di vera «quiete». 
Anzi, può accadere a volte che sia proprio il lavoro a dover equilibrare una contemplazione che rischia di spiritualizzarsi eccessivamente.
«Quando ti sembra che il tuo spirito sia trascinato verso le vette da una forza invisibile –insegna Gregorio il Sinaita– non aggiungervi la fede, ma costringiti a lavorare!»[102].
In fondo, è sulla base di una incredibile saggezza del genere che si spiega come mai la Regola Carmelitana non trovi alcuna contraddizione –come abbiamo già osservato– nel fatto di comandare «die ac nocte» sia la preghiera che il lavoro. 
Abbiamo così compreso il legame profondo che Alberto pone tra il lavoro e il silenzio degli eremiti.
Al tema del silenzio è comunque destinato un altro lungo[103] capitolo tutto racchiuso da una citazione biblica ripetuta due volte, all’inizio e alla fine: «Il culto della giustizia è il silenzio». L’inclusione è evidentemente voluta e dev’essere pertanto rilevante. Lo vedremo tra breve. 
«Nel silenzio e nella speranza sta la vostra forza» è un’altra citazione biblica, messa a fondamento del discorso, il cui contesto parla di conversione: «Così dice il Signore Jahvé, / il Santo d’Israele / Se vi convertirete e starete nella quiete / sarete salvi; / nel silenzio e nella speranza / starà la vostra forza» (Is 30, 15).
In questa formula –così pregnante che gli studiosi vi vedono «la sintesi del messaggio rivolto dal Profeta ai suoi contemporanei»­– gli eremiti (“conversi”, per vocazione) avevano il ricordo della loro originale chiamata: quella che li aveva decisi ad abbandonare il tumulto del mondo, volgendosi esclusivamente a Dio, convertendosi a Lui solo.
Le ordinazioni sul silenzio che occorre osservare (soprattutto nelle ore notturne) sono rafforzate con riflessioni sapienziali. Il molto parlare –mentre distrae l’eremita da quel Dio a cui egli si è unicamente rivolto– provoca dissipazione e rovine: peccati, malessere, ferite nell’anima, oziosità, irresponsabilità, l’essere di scandalo a se stessi, fino alla rovina mortale.
Col «molto parlare» l’eremita si è rivolto sconsideratamente e tragicamente alle creature, ha abbandonato «la quiete contemplativa», non ha «custodito la sua via». In una parola: dimentica la sua conversione e abbandona la strada che ha intrapreso.
Una particolare attenzione si prestava allora alla questione delle «parole oziose», proibite da Gesù: parole che impediscono allo spirito il suo giusto «lavoro», quello che  solo nel silenzio può accedere.
S. Basilio Magno nelle sue Regole brevi dava questa interpretazione: «In generale, sono parole oziose tutte quelle che non servono in nulla al fine che ci si è proposti nel servizio di Dio». E aggiungeva che sono parole che «rattristano lo Spirito Santo»[104]
Ora possiamo meglio comprendere quella citazione di Isaia, ripetuta perché serva da inclusione al capitolo sul silenzio: «Il silenzio è custode della giustizia».
L’importanza di essa appare solo se viene collocata nel suo contesto, letto come lo leggevano allora Alberto e gli eremiti:
«Alla fine sarà effuso su di noi lo Spirito dall’alto; / e il deserto diventerà un Carmelo / e il Carmelo si cambierà in selva. / Nella solitudine abiterà il giudizio / e la giustizia dimorerà nel Carmelo / e l’opera della giustizia sarà la pace, / e il culto della giustizia sarà il silenzio e la sicurezza per sempre» (Is 32, 15-17).
Di fatto la Regola si è conclusa[105]: ora lo sguardo di Alberto va sul mistero del Carmelo e sul suo simbolismo biblico, carico di esigenze e di responsabilità, ed egli lo offre agli eremiti.
Il silenzio adorante –la «quies contemplativa»­– deve essere dunque l’atmosfera propria del Carmelo. Ed essa custodirà la «giustizia» e ne sarà a sua volta custodita.
L’eremita sa già (dalla descrizione della “santa armatura”) che la giustizia consiste nell’osservanza del sommo Comandamento dell’Amore. Se questa giustizia «dimorerà sul Carmelo» ­­–e il silenzio la custodirà– la santa Montagna sarà «un giardino»: un luogo paradisiaco, la terra promessa, il monte dell’Alleanza
La Regola (che esprime il «carisma originario») e il Luogo santo (che è «custode originario» di tale carisma) si sono idealmente ricongiunti. 
Conclusione volutamente Mariana 
Che ne è, al termine di questo commento nel quale non abbiamo quasi mai incontrato il nome di Elia e di Maria, di quella persuasione incantata, propria delle Leggende Carmelitane, di avere un’origine lontana che si perde nel Carmelo-Paradiso, dove Elia educò i primi monaci e Maria li scelse come fratelli e figli? 
Non è meglio restare soltanto al nudo documento della Regola, e considerare il Patriarca Alberto di Gerusalemme, alla stregua di Fondatore, come qualcuno suggerisce? 
Certo la Regola è il documento storico più antico che possediamo, ma non dobbiamo dimenticare che anch’esso presenta subito quella anomalia che abbiamo già osservato: Alberto non fu fondatore perché non fu depositario del carisma, né lo condivise con i frati.
Per di più, abbiamo visto che la Regola non fa altro che strutturare, in maniera rapida, quel problema drammatico dell’orazione ininterrotta che ha sempre travagliato i veri cristiani e i monaci in particolare: «amare Dio con tutto il cuore, l’anima e le forze, intrattenendo con Lui un ininterrotto e amoroso dialogo orante»
E poiché, sul Carmelo quegli eremiti si trovavano ad essere eredi dello stesso Fondatore del monachesimo (di Elia) e familiari della purissima creatura che più arse d’amore divino (Maria), si trovarono anche ad ereditare la più antica e radicale sfida della fede, senza potere né volere sottrarsi.
Quel «luogo sacro» e quelle «auree leggende» rappresentarono così per la Regola un terreno di coltura[106] continuamente dissodato e arricchito. 
Tutto ciò che abbiamo descritto sulla «storia poetica e spirituale» dei Carmelitani, nei primi tre secoli, offrì dunque alla Regola –scarna nella sua semplicità e nella sua bella nudità– un’ambientazione vitale, teologica, mistica perfino, come si addiceva a un Ordine che, nella Chiesa, doveva prendersi cura particolare del culto contemplativo alla Madre di Dio e di donare a tutti i fedeli una continua vivente esegesi del Cantico dei Cantici[107]
Ma che ne è della persuasione di Giovanni Baconthorpe di poter leggere la Regola Carmelitana sulla falsariga della vita di Maria?
«Forse –ha lasciato scritto il P. Anastasio Ballestrero, concludendo un suo commento alla Regolale pagine vibranti del Doctor Resolutus che commentano la Regola modellandola sulla vita della SS. Vergine, hanno il dono di una intuizione profonda e sublime»[108]
L’aggancio più forte per questa «meditazione mariana» sulla Regola e sulla natura dell’Ordine Carmelitano, gli autori l’hanno sempre trovata in quella norma che dice: «La Parola di Dio dimori nel vostro cuore in tutta la sua ricchezza» [16], addolcendo maternamente l’immagine originaria della Parola che penetra e ferisce come una spada. 
Il Priore generale dell’Ordine Beato J. Soreth spiegava nel secolo XV ai suoi frati:
«La Regola dice: “La Parola di Dio dimori in tutta la sua ricchezza sulla vostra bocca (cioè nella predicazione) e nel vostro cuore (cioè: ruminandola). Proprio come la Beata Vergine Maria, Patrona dell’Ordine che “serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore”»[109]
Torniamo così alla nostra persuasione iniziale.
I carmelitani hanno amato da sempre –come immagine descrittiva del proprio «tipo umano»– l’icona della Vergine dell’Annunciazione che riceve la Parola nel grembo e le obbedisce, con l’anima e con il corpo. E la hanno sempre trovata perfettamente aderente al “cuore” della loro Regola.
Forse solo un’altra icona li ha affascinati di più: quella di Maria che li porta nel grembo come ha portato nel grembo Gesù.
Ed anche di questo parlava la loro Regola, quando descriveva l’eremo e la cella come un grembo caldo che doveva formarli come figli di Dio. 
Perciò ci sembra giusto concludere anche questo commento ritornando al clima che abbiamo respirato raccontando la primitiva «storia spirituale e poetica» dei Carmelitani.     
E lo facciamo ascoltando il nostro più grande poeta mariano che parla all’Ordine, usando le stesse espressioni che Gesù uso per affidare la Santa Vergine al discepolo prediletto: 
«Guarda tua Madre, o venerabile assemblea del Carmelo; anche se è la madre di tutti per svariate ragioni, è particolarmente tua Madre. Quindi amala, venerala come se fosse ovunque presente; da questo momento prendila nella tua casa, perché un giorno ella possa ricevere te nella gloria»[110]
E di sé, autobiograficamente, il poeta dice quel che ogni carmelitano vorrebbe poter affermare:
«Tutto ciò che sono, tutto ciò che valgo –lo confesso di tutto cuore– lo devo a Maria… Fin dai primi giorni della mia infanzia mi ha ricevuto, benché indegno, nel suo grembo e mi ha portato nella terra del Carmelo, perché possa abitare tutti i giorni della mia vita  nella casa di mia Madre. Mi ha coperto col suo manto bianco come la neve; mi ha nutrito, mi ha irrobustito, mi ha coronato col suo titolo glorioso»[111].
 
Indice
Osservazioni preliminari e qualche anticipazione……………1         
Brevi cenni storici……………………………....…………2
Testo della Regola Carmelitana………………....…............4
Schema grafico della Regola……………........……………6
«Lettura» dello schema……………………...……………7
Verso una rinnovata interpretazione……………………….8
 ANALISI E SPIEGAZIONE DELLA REGOLA
Saluto apostolico [c. 1]……………………………………9
A-A1: Prologo ed Epilogo
(Tra l’obsequium Christi e il reditus/redditus Domini)…….10

 

L’«obsequium Christi» [c. 2a]………………………………10

«Servire a Lui, con cuore  puro e buona coscienza» [c. 2b]….13
Il “ritorno” (“reditus-redditus”) dell’Epilogo [c. 21]……….....14
B-B1:  Tra promessa e compimento
(Il grande abbraccio dell’obbedienza)……………………….16

 

C:   Il «Grande Precetto» della Regola…………………….......20

I riferimenti biblici………………………………………………........21
1.      «Meditare giorno e notte nella Legge del Signore»….21
2.      «Vegliare in preghiere giorno e notte»………………23
3.      La recita dei Salmi e dei Pater………………………24
Il grande precetto della «preghiera incessante»……..24
1.      L’alveo comune: la vita come preghiera incessante…..26
2.      L’alveo monastico: la preghiera incessante come vita…28
3.      Prime conclusioni………………………………………31
c1: Tre «strutture materiali», dispositive…………………33
c2: Tre strutture comunitarie……………………………… 36
c3: Tre «strutture interiori»………………………………40
Digiuno e Astinenza……………………………………......40
Armatura e combattimento spirituali………………………..42
Lavoro e silenzio ………………………………………….47
Conclusione volutamente Mariana



[1] Così si esprime la Rubrica prima delle Costituzioni di Londra del 1281. 
[2] Si trova infatti al centro delle tre strutture centrali (c2), quelle “comunitarie” che offrono il sostegno ecclesiale: il sostegno del “corpo di Cristo”.
[3] Secondo la numerazione in paragrafi abitualmente adottata dai Carmelitani Scalzi.
[4] Cfr. soprattutto C. Cicconetti, La Regola del Carmelo. Origine, Natura, Significato, Roma 1973 e AA.VV., La Regola del Carmelo oggi (a cura di B. Secondin), Roma 1983.
[5] Si trova infatti al centro delle tre strutture centrali (c2), quelle “comunitarie” che offrono il sostegno ecclesiale: il sostegno del “corpo di Cristo”.
[6] Secondo la numerazione in paragrafi abitualmente adottata dai Carmelitani Scalzi.
[7] Cfr. soprattutto C. Cicconetti, La Regola del Carmelo. Origine, Natura, Significato, Roma 1973 e AA.VV., La Regola del Carmelo oggi (a cura di B. Secondin), Roma 1983.
[8] Si noti che i due termini latini usati per tradurre il greco hypakoè, cioè oboedientia, (da ob-audio) e obsequium (da ob-sequor), si riferiscono ai due atteggiamenti fisici con cui il discepolo manifesta il suo attaccamento al Maestro e la sua dipendenza da lui: ascoltandolo attentamente (“ob-audire”) e camminando sulle sue orme (“ob-sequi”). Il termine obbedienza è la traduzione letterale del greco hypakoè.  Ma le due formulazioni (“oboedientia” – “obsequium”) si equivalgono: la sequela fisica era infatti anticamente la maniera con cui il discepolo si metteva alla scuola di un Maestro per ascoltare e apprendere i suoi insegnamenti.   
[9] Cfr. Kittel, Grande Lessico del Nuovo Testamento.
[10] Cfr. Rom 15,18; 2 Cor 7,15.
[11] Cfr. Rom 5,19; Ebr 5,8.
[12] Cfr. anche il testo di Atti 6,7: “Grande era la turba dei sacerdoti che obbediva alla fede” (6,7).
[13] Alberto morrà il 14 settembre 1214, ucciso, durante una processione, dal Maestro dell’Ospedale di S. Spirito, da lui ripreso per condotta immorale.
[14] Conlatio Abatis Moysis, I-II (Sources Chrétiennes, 42).
[15] S. Agostino insegnava a percepire dovunque questa santa prossimità di Cristo: «Tutto il genere umano è quell’uomo che giaceva lungo la strada semivivo, abbandonato dai ladri. Il sacerdote e il levita lo disprezzarono, ma un samaritano di passaggio gli si accostò per curarlo e prestargli soccorso. Lontano da noi, immortale e giusto, Egli discese fino a noi, che siamo mortali e peccatori, per diventare prossimo a noi… Perciò, fratelli, rallegratevi: dovunque e per tutto il tempo che starete in questo mondo, “Il Signore è vicino. Non angustiatevi per nulla» (Disc. 171,5: PL 38, 935).
[16] Le Regola parla soltanto di eremiti che liberamente «danno di più» –certamente in fatto di osservanza– e che il Signore Gesù saprà alla fine ricompensare. Ciò non toglie che l’immagine evangelica evocata sia quella del Buon Samaritano che ricompensa il «di-più» speso dall’albergatore per il povero ferito di cui nessuno si è preso cura.  Offrire tale immagine conclusiva a degli eremiti ai quali si chiedeva la più profonda meditazione della parola di Dio, significava certo suggerir loro anche opportune riflessioni sul «di-più» esigito dalla carità. Perciò riteniamo legittima la attualizzazione che ne facciamo. Ci piace pensare che forse si tratta di un lontano anticipo di quella tematica –che i mistici carmelitani esalteranno­– della «contemplazione ecclesiale»: di quella preghiera contemplativa che sa includere in sé tutte le preoccupazioni per l’umanità-chiesa dolorante.
[17] Reditus da redire: ritornare, e redditus da reddere: restituire.
[18] L’aspetto superficialmente mercantilistico dell’immagine è totalmente riscattato dalla persuasione che il Signore Gesù ha tutto acquistato con il suo stesso sangue (anche le nostre “opere”) e Egli è divenuto assieme Colui che ci ripaga e Colui col quale siamo interamente ripagati.
[19] Ricordiamo la splendida preghiera di S. Teresa di Lisieux: «Alla sera di questa vita comparirò davanti a te a mani vuote, perché non ti chiedo, Signore, di contare le mie opere… Voglio ricevere dal tuo Amore il possesso eterno di Te stesso. Non voglio altro trono e altra corona che Te, o mio Amato» (Pr 6).
[20] Un celebre carmelitano dei nostri tempi, il p. Bartolomeo M. Xiberta, parlando a delle contemplative dirà semplicemente: «Lo spirito del Carmelo sta nella pratica letterale del detto di S. Paolo: “La nostra conversazione è nei cieli” (Fil 3,20)».
[21] Ripensa a tutta l’analisi, appena fatta, sul tema dell’obsequium Christi.
[22] Nel linguaggio biblico lo “iudicium de contemptu” evoca il processo al quale sono sottoposti i trasgressori dell’Alleanza con Dio.
[23] C’era stato, negli scorsi decenni, da parte di alcuni commentatori, un marcato tentativo di sminuire la portata di questi fondamentali paragrafi della Regola Carmelitana: il Priore starebbe a indicare “simbolicamente” nient’altro che “la opzione per la vita comunitaria”, e la obbedienza a Lui dovuta altro non sarebbe che il simbolo della “fedeltà” di tutti i fratelli a tale opzione. In seguito altri commentatori si sono espressi con maggior prudenza, ma continuando comunque a sostenere che il progetto evangelico, sotteso alla Regola Carmelitana, non è quello Pater-filius –proprio del monachesimo benedettino– ma quello frater-frater tipico di un ideale cosiddetto “gerosolimitano” che sarebbe stato molto in auge in quegli anni di fioritura delle fraternità mendicanti.
In realtà la “Norma di vita” che il Patriarca Alberto diede agli eremiti segnò proprio il passaggio da una concezione genericamente fraterna del vivere –in cui già esisteva un fratello B. al quale si prestava una qualche obbedienza– a una concezione più marcatamente ministeriale dell’autorità: il fratello B. diventa allora “Priore”, rivestito di una autorità analoga a quella propria dei ministri della Chiesa (cfr. c. 20). Tuttavia chi insiste sulla obbedienza che i fratelli devono ai fratelli, dice una cosa molto importante: senza un tessuto evangelico di obbedienze reciproche, infatti, la figura del Priore perde la sua caratteristica di «Presenza» cristologica, e la sua autorità rischia –a seconda delle situazioni– di cadere o nel dispotismo o nella desistenza.
[24] Si noti che nel linguaggio giuridico del tempo l’arbitrium indica “un potere personale tenuto interamente nelle proprie mani”.  Questo la Regola riconosce al Priore.
[25] A volte questa espressione viene indebitamente semplificata come se l’autore dicesse: «Non bisogna considerare tanto la persona del priore, quanto la Persona di Cristo che egli rappresenta». Il testo però dice esattamente: «i fratelli non devono pensare al Priore, ma a Cristo che lo ha posto alla loro testa». Il riferimento a Cristo non deve servire per oltrepassare il “segno” del Priore, ma per ricordare l’origine divina del segno stesso.
[26] Finora abbiamo tradotto, più delicatamente: «Cristo lo ha messo alla vostra testa». Ma, come si vede, le formule originali hanno sempre un maggior peso di realismo figurativo. Si noti d’altra parte che la Regola Carmelitana usa senza ambagi il titolo “Priore” che il francescanesimo invece proibisce proprio per sottolineare la “fraternità” (cfr. Regola 1221, 6,3), preoccupazione che gli eremiti evidentemente non hanno espresso nel loro proposito. Tutto il contesto mostra invece che la concezione propria di Alberto è quella monastica: obbedienza come “auditio fidei” (l’«ascolto della fede»).
[27] Sia gli antichi ebrei che gli antichi eremiti realizzavano questa “meditazione” a partire da un fisico tenere “davanti agli occhi e sulle labbra” (con la lettura, la memorizzazione e la “ruminazione”) il Libro sacro. Significativamente la BJ, al posto di “medita”, traduce: “mormora. Si trattava di un “borbottare” sottovoce per facilitare la memorizzazione.
[28] Anche se non è provato che tra gli eremiti del Carmelo ci fossero dei crociati che, disgustati, avevano abbandonato le armi per intraprendere il combattimento spirituale e una conquista spirituale della “terra promessa” e “santa”, è indubbio che la situazione del tempo favoriva queste connotazioni. La “norma di vita” composta da Alberto ha, come vedremo, molti ed espliciti riferimenti a tale lotta sacra, il cui premio è la conquista del “Carmelo” (il “giardino dell’alleanza”) (Cfr. nn. 16-17-18).   
[29] J. Soreth, Expositio paraenetica Regulae, cap. 18, ed. Parigi 1625.
[30] L’eremitismo della Regola Carmelitana, in Ephem Carm., 1 (1948)  p. 254.
[31] Omelia 18,7.
[32] Del resto, il capitoletto della Regola in cui si prescrive di “meditare giorno e notte” ha normalmente questo titolo redazionale: «De iugi oratione». Lo stesso accade nei Commenti.
[33] La questione della recita delle “ore canoniche”, alla maniera dei chierici, verrà posta solo in seguito, dalle modifiche che saranno apportate da Papa Innocenzo IV.
[34] Ed è al contrario triste, oltre che gravemente significativo, che i cristiani della nostra epoca parlino facilmente del comandamento della Carità senza nemmeno percepire quanto radicalmente vi sia implicata la questione della preghiera.
[35] «Est autem ordo et mensura charitatis huiusmodi, verbi grazia: “Deum diligere” nullus modus, nulla mensura est, nisi haec sola: ut totum exhibeas quantum habes»  (In Cant., III): «Puoi osservare il comando di amare Dio secondo una sola misura e una sola maniera: esprimere tutto l’amore che hai».
[36] Quella di 1 Ts 5,17 è la più breve e assoluta, ma si possono citare ancora sia l’esempio dato dall’Apostolo (1 Ts 1,2: «Ringraziamo sempre Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere, continuamente memori di voi davanti a Dio»; 2,12: «noi ringraziamo Dio continuamente»; Rom 1,10: «Io mi ricordo sempre di voi nelle preghiere, chiedendo sempre nelle mie preghiere»; Fil 1,3-4: «Ringrazio il mio Dio... Pregando sempre con gioia per voi, in ogni mia preghiera...»; Col 1,3: «Noi rendiamo continuamente grazie a Dio, Padre...), sia altre pregnanti formulazioni (Rom 12,12: «Siate perseveranti nella preghiera...»; Ef 6,18: «Pregate incessantemente, con ogni sorta di preghiere...»; Ef 5,18: «...Rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore Gesù Cristo»).
[37] E’ interessante osservare come è attorno a questo appassionante problema che viene avviato nel cristianesimo il dibattito su una miriade di questioni che saranno poi affrontate in maniera analitica, e alle quali si daranno svariare soluzioni: eremitismo e/o cenobitismo; vita attiva e/o vita contemplativa; preghiera e/o lavoro manuale; metodi e/o tecniche di preghiera ecc.
[38] Con questa parola non intendiamo riferirci a quel «metodo di preghiera, basato sulla invocazione indefinitamente ripetuta del nome di Gesù, la cui forma è stata codificata negli ambienti monastici del Monte Athos, nei secoli XIII e XIV, dove ha preso a volte l’aspetto di una tecnica psicosomatica per la preghiera», ma al suo «senso primario, proprio e tradizionale (secondo cui l’Esicasmo) è in realtà un sistema particolare di spiritualità talmente antica che coincide con le origini stesse del monachesimo orientale, dato che si trova già nettamente attestato negli Apoftegmi e nelle Vite dei Padri del deserto ed è raccomandato da numerosi autori dell’epoca patristica». «L’esicasmo antico si presenta come una dottrina che abbraccia tutto il complesso della vita eremitica cristiana, nei suoi rapporti esteriori e interiori e nel suo progetto fondamentale di unirsi a Dio per mezzo della contemplazione» (P. Adnès, Hésycasme, in  Dictionnaire de Spiritualité, VII, 382-399).
[39] Dal contesto si intende: una donna rimasta senza marito e senza figli.
[40] PG 12,1088 A B.
[41] De oratione,  XII.
[42] Demonstrationes IV,16.
[43]  PL 33, 493-507. Notissima è anche questa bella espressione del Santo di Ippona: «Il tuo desiderio è sempre davanti a Lui, e se continuo è il tuo desiderio, continua è anche la tua preghiera» (In Ps 38,14).
[44] Summa Th., II-II, q. 83, a. 14.
[45] Hom. 5: PG, 31, 244 A D.
[46] Oratio Theol. I,4: PG 36,16 B.
[47] Hom. VI De oratione: PG 64, 462-466.
[48] Si conosce l’esistenza di una setta di “euchiti” o messaliani, condannati poi come eretici, che col miraggio di una preghiera mentale ininterrotta rifiutavano ogni lavoro e la stessa pratica sacramentale, e cercavano di raggiungere una identificazione con Dio.
[49] Cfr. P. Evergetinos, Synagoge, I, p. 75 b, ss.
[50] Per tutte le questioni qui ricordate cfr. I. Hausherr, Hésichasme et prière, (Orientalia Christiana Analecta) 176, Roma 1966.
[51] La distanza di tempo non deve farci dimenticare la prospettiva propria di Alberto di Gerusalemme: agli inizi del secolo XIII la vita monastica è quasi interamente cenobitica, ed essa ha assorbito, ormai da alcuni secoli, anche la sostanza dell’antico esicasmo, un tempo quasi esclusivamente eremitico. Ora trovando in Palestina quei “nuovi eremiti”, Alberto deve, per così dire, rintracciare per loro –a partire dall’esperienza monastica cenobitica che è stata anche la sua– gli elementi essenziali dell’antico ed originario esicasmo.
[52] Conl., 9,2.
[53] Conl. 10,6.
[54] PG 88, 1097ab.
[55] PG 88,1112c.
[56] PG 88, 1100a.
[57] Nel passato alcuni autori hanno affermato la dipendenza della Norma vitae data da Alberto dalla Regula Basilii, giungendo fino ad affermare che questa sarebbe stata la prima Regola professata dagli eremiti. E’ una persuasione significativa, anche escludendo una dipendenza esplicita.
[58] Cioè: il silenzio permette all’eremita di restare nella propria cella interiore (come se la portasse sempre con sé) anche quando deve uscire dalla cella visibile per motivi di carità o di opportunità.
[59] Nell’ottimo lavoro di C. Cicconetti, La Regola del Carmelo. Origine - Natura - Significato, c’è il capitolo III della Parte II in cui l’autore rintraccia certi testi paralleli o affini al nostro, in altre fonti legislative. Ma la preoccupazione dell’autore si limita al problema se si debba o no riconoscere una qualche dipendenza da “fonti” a cui il Patriarca Alberto avrebbe attinto. La risposta è giustamente negativa, ma l’ottica è parziale. Il fatto è che tutti i testi attingono alla comune fonte dell’antico esicasmo. Ed è interessante osservare come Albero ne ricomponga il primitivo tessuto eremitico, pur un po’ corretto dalla successiva e già consolidata esperienza monastico-cenobitica.
Tra i paralleli interessanti ricordiamo:  l’espressione di Cassiano secondo cui «i monaci egiziani si dedicavano notte e giorno alla lettura delle Divine Scritture e al lavoro manuale» (De institutis coenobiorum l. II,5: PL 49,85); la Regola di Grandmont che prescrive: «La vita vostra e di ogni eremita deve consistere in questo: praticando l’orazione ininterrotta, e distogliendovi dal tumulto del mondo col silenzio, “riposare” nelle vostre celle» (PL 204, 1154).
[60] De Trin. 1,3,5.
[61] Ricordiamo ancora che la formula «meditare giorno e notte nella Legge del Signore» è appunto nel Salmo 1 che funge da introduzione a tutto il salterio.
[62] Da ciò dipende che, a volte, certi scritti medievali (soprattutto d’origine monastica) sembrano una continua citazione della Scrittura (la stessa Regola di Alberto ne è un esempio), ma propriamente non si tratta né di citazioni né di allusioni, ma di una nuova e spontanea «maniera di parlare» appresa attraverso la continua “ruminazione della Scrittura.
[63] Per ora tralasciamo il c. 4, aggiunto successivamente. Lo riprenderemo quando descriveremo il passaggio dei carmelitani in Occidente.
[64] La precisazione: «nel luogo che avrete scelto per abitare» è posteriore e risente già della necessità di abitare anche luoghi non del tutto adatti alla vita eremitica.
[65] Secondo alcuni commentatori la frase si riferirebbe soltanto a ciò che bisognerà decidere nei riguardi dei nuovi arrivati, ma, anche in tal caso, è evidente che la formulazione è stata volutamente marcata e assolutizzata, a scopo pedagogico.
[66] Bisogna ricordare che il precetto centrale di “meditare giorno e notte sulla Legge del Signore” è rivolto, nella Scrittura, a Giosuè, prima della conquista e della distribuzione della terra promessa.
[67] J. Soreth, Expositio paraenetica Regulae, cap. 13; ed. Parigi 1625, pp. 111-116.
[68] Considerare ciò una sottigliezza, significa non sapere quale potenza evocativa avessero un tempo per gli eremiti simili formule. E i Carmelitani ne hanno avuto a lungo coscienza, secondo quanto testimoniava nel secolo XVII il Ven.le P. Tommaso di Gesù: «Che le parole “die ac nocte” debbano essere riferite ad ambedue le parti della frase è evidente per unanime consenso e interpretazione dell’Ordine».
[69] «Rimanete in me ed io [rimango] in voi. Come il tralcio non può portar frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite e voi i tralci. Chi rimane in me e io [rimango] in lui porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla… Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete e vi sarà dato… Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osservate i miei comandamenti rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15,4-10).
[70] «Dio è amore. Chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Gv 4, 15).
[71] Codex Regularum, I, 354.
[72] I Padri del deserto. Detti, Città nuova ed., Roma 1972, p. 53.
[73] De contemptu saeculi, 25.
[74] «Cella continuata dulcescit...» (1,20,5).
[75] Nell’espressione «singuli singulas habeant cellulas separatas» tre parole su cinque rafforzano fino all’estremo la richiesta di solitudine. Anche l’eremitismo permette molteplici tipologie al suo interno. La Norma di Alberto indica la forma di abitazione «più solitaria», nonostante altre indicazioni vadano poi in senso cenobitico.
[76] Ignea sagitta, cap.VIII. L’autore –Nicolò il Gallico, ex Superiore Generale dei Carmelitani che sofferse come un tradimento il passaggio dell’Ordine dall’eremitismo alla forma mendicante del vivere– vedeva ancora nella stretta solitudine della cella la condizione necessaria per il realizzarsi di quella «vocazione paradisiaca» che l’Ordine raccontava nelle sue sante «leggende»: «Nella cella ci viene mostrata la soave contemplazione, tesoro inestimabile e incomparabile, per far sì che, disprezzando totalmente le cose terrene e caduche, il nostro animo con libertà e fervore si dedichi totalmente alla sua ricerca […]. Nella solitudine della cella, lontani dalle vanità del mondo, otteniamo le vere delizie del paradiso che rallegrano e rafforzano il nostro uomo interiore, al punto che il suo desiderio è sempre allo stesso tempo assetato e sazio» (Ivi, cap. IX).
[77] Hom. XXVI, 12.
[78] J. Soreth, cit…, p. 116.
[79] Conl., XVIII,6 (S.C., 64).
[80] Il P. Jérome de la Mère de Dieu nel suo commento La Règle du Carmel, pubblicato nel 1956, si esprimeva così: «Secondo il parere di tutti, di assolutamente tutti i commentatori, questo precetto è quello centrale: questa è veramente l’opinione generale, assoluta, e chi non ammette questo non comprende niente del Carmelo. Il precetto de jugi oratione indica anche il fine dell’Ordine e, allo stesso tempo, la sua essenza e la sua natura intima» (p.56).
[81] Fondazioni 3,10.
[82] «Non ho mai lasciato una fondazione per paura dei travagli, benché i viaggi mi ripugnassero assai, specie se lunghi. Appena mi mettevo in cammino –pensando a Colui nel cui servizio faticavo, e al fatto che in quella casa si sarebbe lodato il Signore e si sarebbe posto il Santissimo Sacramento– tutto mi pareva poca cosa» (Fondazioni 18,5).
[83] P. Crisogono di Gesù, Vita di S. Giovanni della Croce,  Roma 1984, p.69.
[84] San Tommaso d’Aquino definisce la solitudine «periculosissima» e insegna che «solitudo competit jam perfectis»  (Summa th., II-II, q. 188, a. 8.
[85] De oratione 124.
[86] PL, 176, 1017-1182.
[87] V. Mosca, Alberto Patriarca di Gerusalemme, ed. Carmelitane, Roma 1996, p. 464, nota 294.
[88] COD 89.
[89] Conl. II,16.
[90] Domenica di Pasqua, Canone dell’Orthros, ode I,2.
[91] S. Bonaventura, Leggenda maggiore.
[92] L’astinenza è appunto basata su tale naturale percezione.
[93] O.c., pp. 92-122.
[94] Cfr. Mc 7,21; Lc 2,35, 24,38; At 8,22. Un antico trattato, probabilmente di Evagrio Pontico, portava questo titolo significativo: «De diversis malignis cogitationibus» (PG 79, 1199-1234.
[95] Forse l’espressione era presente in una antica versione (non nella Vulgata) di Prov 2,11. Troviamo invece: «I pensieri malvagi allontanano da Dio» Perversae cogitationes separant a Deo» - Sap 1,3). Cfr. anche: Gen 6,5; 8,21; Sal 118,118; Prov 6,18; 15,5.26; Is 55,7 ecc.
[96] Cfr. L’amore della quiete, Edizioni Qiqajon, Bose 1993, p. 117.
[97] Da notare anche, come fa S. Giovanni della Croce nella sua Notte Oscura, che l’elmo, una volta indossato, lascia solo lo spazio per vedere. Così la speranza ci difende da tutto e ci permette di vedere solo quel Dio a cui tendiamo.
[98] Assumerà questo significato quando il testo verrà applicato alla predicazione della Parola.
[99] Si può dire che nell’armatura tutta fatta per difenderlo, la spada (di Dio!) ha invece il compito di ferirlo.
[100] Cfr. 1 Tim 2,7: «Della testimonianza [di Cristo] sono stato fatto banditore e apostolo… Maestro dei pagani nella fede e nella verità».
[101] Umanesimo e cultura monastica, ediz. Jaca Book, Milano 1989, p. 139ss.
[102] De vita contemplativa 10.
[103] Relativamente al breve testo dell’intera Regola, i due capitoletti, sul lavoro e sul silenzio, occupano una gran parte.
[104] PG, 31, 1197 D.
[105] I capitoletti conclusivi sull’obbedienza (nn. 19 e 20) e l’epilogo (n.21) non introducono nuovi temi, ma riprendono quelli iniziali con funzione di «inclusione».
[106] Abbiamo visto anzi che la spiritualità e i racconti del De institutione primorum monachorum, scritti nel sec. XIV, furono ritenuti per secoli la Regola primitiva, risalente addirittura al V secolo.
[107] E’ quello che accadrà –come vedremo– con S. Giovanni della Croce, e con la serie di grandi anime-spose che il Carmelo offrirà alla Chiesa.
[108] Cfr. Lo spirito della Regola, in Vita Carmelitana, 8 (1946) pp. 42-65.
[109] J. Soreth, cit… cap. 38. G. Baconthorpe, nel suo commento mariano della Regola, esemplificava citando ripetutamente il Magnificat che sgorgò dal cuore di Maria, un cuore colmo della “Parola di Dio”.
[110] De patronatu… f. 253 r.
[111] De Patronatu… f. 221r.

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