giovedì 28 novembre 2013

Il mistero del Natale parte seconda S. Edith Stein [Teresa Benedetta della Croce ocd]

Essere una cosa sola in Dio
Essere una cosa sola con Dio: questa è la prima cosa. Ma una seconda ne segue immediatamente. Se nel corpo mistico Cristo è il capo e noi le membra, allora noi siamo membra gli uni degli altri, e tutti insieme siamo una cosa sola in Dio, una vita divina. Se Dio è in noi e se egli è amore, allora non possiamo che amare i fratelli. Per questo il nostro amore del prossimo è la misura del nostro amore di Dio.
Ma si tratta di un amore diverso dall’amore naturale per gli uomini. L’amore naturale si dirige verso questo o verso quello, verso chi è a noi legato da vincoli di sangue, da affinità di carattere o da interessi comuni. Gli altri sono "estranei", di essi "non ci importa alcunché". Per il cristiano non esiste alcun "estraneo". Cristo è venuto per i peccatori e non per i giusti. E se il suo amore vive in noi, allora agiamo come lui e andiamo dietro alla pecorella smarrita.
L’amore naturale tende ad avere per sé la persona amata e a possederla nella maniera più indivisa possibile. Cristo è venuto per riportare al Padre l’umanità perduta; e chi ama col suo amore vuole gli uomini per Dio e non per sé. Questa è naturalmente nello stesso tempo la via più sicura per possederli eternamente; quando infatti abbiamo posto in salvo una persona in Dio, siamo con lei in Dio una cosa sola, mentre il desiderio di conquistarla conduce spesso – anzi prima o poi sempre – alla sua perdita. Ciò vale per l’altrui anima come per la propria e per ogni bene esteriore: chi si dedica alle cose esteriori per conquistarle e conservarle, le perde. Chi ne fa dono a Dio, le guadagna.
"Sia fatta la Tua volontà!"
Tocchiamo così un terzo segno della figliolanza divina. Essere una cosa sola con Dio, il primo. Il fatto che tutti sono una cosa sola in Dio, il secondo. Il terzo :"Da questo riconoscerò che mi amate, se osserverete i miei comandamenti". Essere figlio di Dio significa camminare dando la mano a Dio, fare la volontà di Dio e non la propria,riportare nelle sue mani ogni preoccupazione e speranza, non affannarsi più per sé e per il proprio futuro. Questa è la base della libertà e della gioia del figlio di Dio.
La vita divina che Cristo accende nell'anima è la luce che è venuta a rischiarare le nostre tenebre...
[dipinto di Hans Mëmling]
Tutti conoscono la parabola degli uccelli del cielo e dei gigli del campo. Ma quando incontrano una persona che non possiede alcun bene, non ha alcuna pensione e alcuna assicurazione e tuttavia va incontro serena al suo futuro, scuotono il capo come se si trovassero di fronte a un tipo strano. La fiducia in Dio rimane incrollabile solo se essa include la disponibilità ad accogliere qualunque cosa dalla sua mano. Dio solo infatti sa quel che è bene per noi. E se un giorno per noi dovessero esser meglio la miseria, la privazione, anziché un reddito sicuro, oppure l’insuccesso e l’umiliazione al posto dell’onore e del prestigio, dovremmo tenerci pronti anche a questo. Se lo facciamo, allora possiamo vivere il presente senza lasciarci turbare dal futuro.
Il "sia fatta la tua volontà", in tutta la sua estensione, deve essere il criterio della vita cristiana. Esso deve scandire la giornata dal mattino alla sera, il corso dell’anno e tutta la vita. E deve quindi essere anche l’unica preoccupazione del cristiano. Tutte le altre il Signore le prende su di sé.
Chi appartiene a Cristo deve vivere tutta la sua vita. Deve maturare fino all’età adulta di Cristo, imboccare un giorno la via della croce, dirigersi al Getsemani e al Golgota. E tutte le sofferenze che provengono dall’esterno sono un nulla a paragone della notte oscura dell’anima, allorché la luce divina non brilla più e la voce del Signore tace. Perché fa così? Siamo qui di fronte ai suoi misteri, misteri che non possiamo penetrare fino in fondo. Un pò però li possiamo già perscrutare.
Dio è divenuto uomo per farci di nuovo partecipare alla sua vita. Partecipazione che era al principio e che è l’ultimo fine. Ma nell’intervallo c’è ancora qualcos’altro.. Cristo è Dio e uomo, e chi vuol partecipare alla sua vita, deve prender parte alla sua vita divina e umana. La natura umana da lui assunta gi diede la possibilità di soffrire e morire. La natura divina, da lui posseduta dall’eternità, conferì alla sua passione e morte un valore infinito e la capacità di compiere la redenzione.
La passione e la morte di Cristo continuano nel suo corpo mistico e in ognuna delle sue membra. Ogni uomo deve soffrire e morire. Ma se egli è un membro vivo del corpo di Cristo, la sua sofferenza e la sua morte diventano, grazie alla divinità del capo, redentrici.
Questo è il motivo oggettivo, per cui tutti i santi hanno aspirato a soffrire. Non si tratta di un desiderio malsano. Gli occhi della mente naturale lo vedono come una perversione. Ma alla luce del mistero della redenzione esso appare come estremamente ragionevole. E così colui che è unito a Cristo persevera incrollabile anche nella notte oscura della lontananza soggettiva da Dio; forse la provvidenza divina gli impone questo tormento per liberare una persona oggettivamente incatenata. Diciamo pertanto: "Sia fatta la tua volontà!" anche e proprio per questo, nella notte più oscura.
Mezzi di salvezza
Ma possiamo ancora pronunciare questo "sia fatta la tua volontà" , quando non sappiamo più con certezza che cosa la volontà di Dio esige da noi? Esistono mezzi così potenti che uno sbandamento, per quanto in linea di principio possibile, diventa in realtà infinitamente inverosimile. Dio è infatti venuto per redimerci, per unirci a sé, per rendere la nostra volontà conforme alla sua. Conosce la nostra natura. Ne tiene conto e ci ha quindi fatto dono di tutto ciò che può aiutarci a raggiungere il traguardo.
Il Bambino divino è diventato il Maestro e ci ha detto che cosa dobbiamo fare. Per permeare tutta una vita umana di vita divina non basta inginocchiarsi una volta all’anno davanti alla mangiatoia e lasciarsi prendere dall’incanto della notte santa. A questo scopo bisogna stare quotidianamente in contatto con Dio per tutta la vita, ascoltare le parole che egli ha pronunciato e che ci sono state tramandate, e metterle in pratica. Prima di tutto bisogna pregare, così come il Salvatore ci ha insegnato a fare e ha continuamente e pressantemente raccomandato. "Chiedete e vi sarà dato". E’ una sicura promessa di esaudimento. E chi recita quotidianamente di cuore il suo "Signore, sia fatta la tua volontà", può confidare di non tradire la volontà divina anche quando non ne ha più alcuna certezza soggettiva.
Inoltre: Cristo non ci ha lasciati orfani. Ha inviato il suo Spirito, che insegna a tutti noi la verità. Ha fondato la Chiesa, che è guidata dal suo Spirito, e ha istituito in essa i suoi rappresentanti, dalla cui bocca il suo Spirito ci parla in parole umane. In essa egli ha unito i fedeli in una comunità e vuole che ognuno sia responsabile di ogni altro. Pertanto non siamo soli, e dove viene meno la fiducia nel proprio giudizio e anche nella propria preghiera siamo soccorsi dalla forza dell’obbedienza e dellaforza dell’intercessione.
"E il Verbo si fece carne". Ciò è divenuto verità nella stalla di Betlemme. Ma si è adempiuto anche in altra forma. "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna". Il Salvatore, ben sapendo che siamo uomini quotidianamente alle prese con le nostre debolezze, viene in aiuto della nostra umanità in maniera veramente divina. Come il corpo terreno ha bisogno del pane quotidiano, così anche la vita divina aspira in noi ad essere continuamente alimentata. "Questo è il pane vivo, che è disceso dal cielo". Per chi ne fa veramente il suo pane quotidiano, in lui si compie quotidianamente il mistero del Natale, l’incarnazione del Verbo. E questa è indubbiamente la via più sicura per conservare ininterrottamente l’unione con Dio e radicarsi ogni giorno sempre più saldamente e profondamente nel corpo mistico di Cristo.
So bene che ciò apparirà a molti un’esigenza troppo radicale. In pratica essa comporta, per la maggior parte di coloro che cominciano a soddisfarla, un rivoluzionamento di tutta la loro vita, interiore ed esteriore. Ma appunto così dobbiamo fare! Nella nostra vita dobbiamo far spazio al Salvatore eucaristicoaffinché possa trasformare la nostra vita nella sua.
E' questa una richiesta esagerata? Abbiamo tempo per tante cose inutili: per leggere ogni genere di libri, riviste e quotidiani futili, per bighellonare da un caffé all’altro e passare quarti d’ora e mezzore a chiacchierare per strada, tutte ‘distrazioni’ in cui sprechiamo e disperdiamo tempo e energie. Non ci è proprio possibile riservare ogni mattina un’ora, in cui non ci distraiamo, ma ci raccogliamo, in cui non ci logoriamo, ma accumuliamo energia per poi affrontare col Suo aiuto i nostri compiti quotidiani?
Ma naturalmente ci vuole più di una semplice ora del genere. Essa deve animare tutte le altre, sì da rendersi impossibile "lasciarci andare", fosse anche solo momentaneamente. Così succede nei rapporti quotidiani col Salvatore. Diventiamo sempre più sensibili nel discernere ciò che gli piace e gli dispiace. Se prima eravamo tutto sommato molto contenti di noi, ora le cose cambiano. Troveremo che molte cose sono cattive e nei limiti del possibile le cambieremo.
E scopriremo alcune cose che non possiamo ritenere belle e buone, e che pur risulta tanto difficile cambiare. Allora diventiamo a poco a poco molto piccoli e umili, pazienti e indulgenti verso le pagliuzze presenti negli occhi altrui, perché abbiamo da fare con la trave presente nei nostri; e infine, impariamo anche a sopportarci nella luce della presenza di Dio e ad affidarci alla sua misericordia, che può venire a capo di tutto ciò che si fa beffe delle nostre forze.
Edith Stein, nata a Breslavia il 12 ottobre 1891 e morta ad Auschwitz il 9 agosto 1942.
Lungo è il cammino per passare dall’autocompiacimento del "buon cattolico", che "compie i suoi doveri", ma per il resto fa come gli piace, ad una vita che si lascia guidare per mano da Dio ed è caratterizzata dalla semplicità del bambino e dall’umiltà del pubblicano. Chi però l’ha imboccata una volta, non la rifà più a ritroso.
La vita filiale in Dio significa perciò divenire piccoli e nel medesimo tempo divenire grandi. Vivere l'Eucaristia significa uscire spontaneamente dalla meschinità della propria vita e addentrarsi negli ampi spazi della vita di Cristo. Chi fa visita al Signore nella sua casa, non si occuperà più solo e sempre di sé e delle proprie faccende, ma comincerà ad interessarsi delle faccende del Signore.
La partecipazione al sacrificio quotidiano ci immerge, senza che ce ne accorgiamo, nella vita liturgica. Le preghiere e i riti dell’altare ripropongono continuamente davanti alla nostra anima, nel corso dell’anno liturgico, la storia della salvezza e ce ne fanno penetrare sempre più profondamente il senso. E l’azione sacrificale ci impregna instancabilmente del mistero centrale della nostra fede, cardine della storia del mondo: del mistero dell’incarnazione e della redenzione. Chi può assistere con spirito e cuore aperto al sacrificio eucaristico senza entrare a sua volta nel suo dinamismo, senza essere preso dal desiderio di inserire se stesso e la propria piccola vita personale nella grande opera del Redentore?
I misteri del cristianesimo sono un tutto indivisibile. Chi ne approfondisce uno, finisce per toccare tutti gli altri. Così la vita che si diparte da Betlemme procede inarrestabilmente verso il Golgota, va dalla mangiatoia alla Croce. Quando la santissima Vergine presentò il Bambino al tempio, le fu predetto che la sua anima sarebbe stata trafitta da una spada, che quel bambino era posto per la caduta e la risurrezione di molti e come segno di contraddizione.
Nella notte del peccato brilla la stella di Betlemme. Sullo splendore luminoso che irradia dalla mangiatoia cade l’ombra della croce. La luce si spegne nell’oscurità del venerdì santo, ma torna a brillare più luminosa, sole di misericordia, la mattina della risurrezione. Il Figlio incarnato di Dio pervenne attraverso la croce e la passione alla gloria della risurrezioneOgnuno di noi, tutta l’umanità. perverrà col Figlio dell’uomo, attraverso la sofferenza e la morte, alla medesima gloria.

[Nota: questo scritto di Edith Stein, qui riportato quasi integralmente, è stato pubblicato postumo, a Colonia, nel 1950.]

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