mercoledì 5 febbraio 2014

“Immaginare” di nuovo la fede

di P. Aldino CAZZAGO ocd
Un pomeriggio a San Marco
Ogni volta che mi trovo a sostare nella Basilica di San Marco a Venezia, com’è stato domenica scorsa in occasione dell’incontro dei religiosi con il Patriarca, si fa sempre più evidente in me una sensazione: noi oggi non sappiamo più “immaginare” nelle forme della bellezza la fede e la storia della salvezza da cui essa trae origine. Più in generale mi pare che i legami tra la realtà della fede e le sue immagini, nell’arte come nella vita, si vadano sempre più rarefacendo.

Chi conosce appena un po’ la Basilica di San Marco, sa che si tratta di un tempio magnificamente ricoperto di mosaici di varie epoche, i primi dei quali risalgono alla fine del XI secolo. Lungo una superficie di oltre 4.240 metri sono illustrati, oltre alla vita dell’evangelista Marco e al ritrovamento e trasporto del suo corpo da Alessandria d’Egitto a Venezia, anche le principali tappe della storia della Salvezza narrate dalla Bibbia. Il tutto disposto secondo un disegno e una logica che anche oggi non cessano di suscitare ammirazione: dalle scene della Creazione, passando per le storie dei Patriarchi, con Abramo che anche nei gesti prefigura Cristo, fino alle scene della vita di Maria e di Cristo che come Pantocrator (creatore di tutto) campeggia nel catino dell’abside centrale attorniato dalla seguente scritta: «Sono il re di tutti, fatto uomo per amore dei peccatori. Non disperate del perdono, finché avete tempo».

Quando si ha modo di conoscere e di apprezzare sempre meglio come i mosaicisti di San Marco hanno saputo “immaginare” per il loro tempo la storia della salvezza, si conviene una volta di più con le parole del Cardinale Henry Newman quando afferma che «di solito il cuore non è raggiunto attraverso la ragione, ma attraverso l’immagine» e si ha voglia di fare quello che consigliava San Giovani Damasceno, padre della Chiesa d’Oriente: «Se un pagano viene a trovarti e ti chiede: mostrami la tua fede … portalo in chiesa e mettilo davanti alle diverse immagini sacre».
In definitiva cos’è l’arte sacra se non il modo con cui, nelle forme della bellezza, uomini di secoli diversi hanno saputo “immaginare” quella storia che è creduta essere il fondamento e la verità di tutte le storie umane? Paul Klee l’ha detto molto bene: «Compito dell’arte non è riprodurre il visibile ma rendere visibile l’invisibile». E a quelli che dicono che l’arte è fine a se stessa e non deve farsi portatrice di dottrine si può sempre rispondere con le parole di Jorge Borges: «Chi dice che l’arte non deve propagandare dottrine si riferisce di solito a dottrine contrarie alle sue».
“Immaginare” la fede, “immaginare” la vita

Di fronte a questo modo di “immaginare” la vita e la fede, appare, di schianto, quanto povero sia il nostro, concesso che se ne abbia ancora uno dignitoso e affascinante. Strano paradosso quello che stiamo vivendo: nell’epoca in cui la realtà sembra raccontarsi quasi solo per immagini, quando addirittura queste non pretendono di conferire consistenza a realtà solamente virtuali, noi cristiani facciamo fatica a “immaginare” una vita a partire dal dato di fede e rischiamo ogni giorno di più di relegare nel mondo del virtuale, dell’immateriale e alla fine dell’inesistente la stessa Rivelazione cristiana. “Immaginare” qui non è sinonimo di fantasia, di astrazione, di visione teorica. “Immaginare” significa capacità di dar forma e concretezza, cioè possibilità di farsi esperienza, a realtà seppur invisibili agli occhi fisici ma non a quelli del cuore e nelle quali è racchiuso il senso dell’esistenza. 
“Immaginare”, prima che una necessità di chi fa arte, è un’esigenza della vita, compresa quella che nasce dalla fede. Una vita e una fede che non sappiano più “immaginare” e, a partire dal presente, legare insieme, passato e futuro, sono destinate alla morte, fisica la prima e spirituale la seconda. Le parole del gesuita Michael Paul Gallagher sono un’ottima chiave di lettura di molti degli abbandoni della fede cristiana: «La maggior parte delle persone che hanno abbandonato il regolare contatto con la chiesa non l’hanno fatto per qualche argomento intellettuale contro la fede. Si sono allontanati perché la loro immaginazione non è stata toccata e le loro speranze non sono state risvegliate dalla loro esperienza di Chiesa».

Le vie di una «nuova evangelizzazione» tanto auspicata dagli ultimi pontefici passano anche per questa nuova volontà di “immaginare” la fede come fattore capace di dar forma all’esistere non meno che all’arte. Forse ciò che ci manca è solo il coraggio di rischiare. Le seguenti parole di Giovanni Paolo II sono un potente incoraggiamento per tutti coloro che desiderano avviarsi sulla strada di questa nuova stagione dell’“immaginazione” delle fede: «Oggi, scriveva in Alzatevi e andiamo!, occorre molta immaginazione per imparare a dialogare sulla fede e sulle questioni fondamentali per l’uomo. C’è bisogno, cioè, di persone che amino e che pensino, perché l’immaginazione vive d’amore e di pensiero, ed è essa ad alimentare il nostro pensiero e ad accendere il nostro amore».
Tornando a casa dopo la liturgia e ripensando alle bellezza dei mosaici al cui cospetto ero rimasto per un’ora e mezzo, sotto la pioggia mi tornavano alla mente le parole con le quali nel 988 gli inviati del principe Vladimir, non ancora cristiani, raccontarono una volta tornati a Kiev da Costantinopoli, il loro primo incontro con la fede cristiana durante una liturgia bizantina nella sfolgorante cornice dei mosaici di Santa Sofia: «... e non sapevamo se in cielo ci trovavamo oppure sulla terra: non v’è sulla terra uno spettacolo di tale bellezza, e non riusciamo a descriverlo; solo sappiamo questo: che là Dio con l’uomo coesiste».

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