giovedì 29 gennaio 2015

Hadjadj: ho scoperto Dio. E al fratello ateo ora dico…



Fabrice Hadjadj

 CHI È
È considerato l’intellettuale cristiano francese d’avanguardia. Conteso da diversi editori (sia in patria che all’estero), Fabrice Hadjadj, nonostante la giovane età (è nato nel 1971: sposato, in attesa del sesto figlio), ha scelto il “basso profilo” di Toulon, e non la notorietà di Parigi, per la sua carriera di filosofo: qui insegna filosofia in un liceo e nel seminario diocesano. La sua vera aspirazione era diventare romanziere (all’attivo ha alcuni lavori con lo scrittore nichilista Michel Houellebecq); in seguito si è scoperto filosofo, autore teatrale (a Milano è in corso di rappresentazione il suo Giobbe) ed esperto d’arte. Convertito al cristianesimo in età adulta (provene da una famiglia atea di sinistra, di origine ebraica), Hadjadj ha pubblicato diversi saggi decisamente controcorrente in cui coniuga la sua profonda conoscenza filosofica con l’esperienza e la riflessione cristiana. Vanno ricordati Farcela con la morte (Cittadella), La fede dei demoni (Marietti), La mistica della carne (Medusa), La terra strada del cielo (Lindau). Nel 2010 ha conseguito il prestigioso “Grand Prix de la littérature religiouse” di Francia per il suo testo sull’ateismo, mentre nel 2006 era stata la volta del “Grand Prix catholique de littérature” per quello dedicato alla morte.

Nessuna posizione al mondo è più unitaria di quella della Chiesa”

La morale della Chiesa non è contro il sesso, è la liberazione sessuale che è contro il sesso, perché lo riduce a un atto di consumo. La Chiesa è per la pienezza della sessualità.
La Chiesa insiste sull’unità di carne e spirito, di anima e corpo. Nessuna posizione al mondo è più unitaria di quella della Chiesa. Essa dice: siete liberi di fare quel che volete, ma vi ricordiamo soltanto che se andate in quella direzione, vi sarà una rottura della vostra unità personale, questa rottura noi la chiamiamo peccato”.





Alcuni rimpiangono la prima volta che hanno abbracciato una ragazza, senza conoscere l’emozione di abbracciare per l’ennesima volta la propria moglie”.
Prima della mia conversione, devo confessarlo, odiavo questa parola. Quando qualcuno diceva «Dio», mi sembrava che mettesse fine a qualsiasi discussione. Aveva introdotto con l’imbroglio un altro jolly nel mazzo di carte.
Era un abracadabra, una formula magica e mi verrebbe da dire addirittura una «soluzione finale», con tutto ciò che può comportare di terrorizzante un’espressione del genere. Una soluzione finale all’interno di una discussione che, d’un tratto, veniva soffocata da questa parola grossa e massiccia. La mia conversione consistette dapprima in una conversione di vocabolario.
All’epoca del mio ateismo ero obbligato a confessare un mistero dell’esistenza. Pensavo tuttavia che la parola «Dio» non avesse nulla a che vedere con tale mistero, che fosse addirittura un modo per evitarlo.
Avevo la pretesa di spiegarne l’esistenza nel lessico, sforzandomi di svicolare così: negazione della morte, volontà di potenza, fuga nell’aldilà, sublimazione nevrotica del «papà/ mamma, aiuto!»…
Cos’è accaduto oggi? Sono stato corretto riguardo a tale controsenso. Questa parola non suona più ai miei orecchi come un “tappabuchi”, ma come un “apri-abisso”. È probabile che alcuni la usino come “tappabuchi” (credenti o meno, d’altronde). Non la capiscono affatto, allora. Non ne sentono, per così dire, la musica. Perché il significante «Dio» non discende da un desiderio di soluzione finale: viene dal riconoscimento di un’assenza irrecuperabile. Non sorge tanto come risposta quanto come chiamata. Dà il nome all’evidenza di ciò che mi sfugge, all’esigenza di ciò che mi supera.
Lo ricordo spesso ai seminaristi: «Quando siete in missione di evangelizzazione e una persona vi dichiara: “Io non credo in Dio”, state attenti, non saltategli addosso dicendo: “Ma sì, bisogna credere in Dio!”, perché magari non ci credete neppure voi al “Dio” di cui sta parlando lui! Chiedetegli prima cosa intende con quella parola. E chiedetevi se vi siete mai accorti della vertigine che porta con sé». (…)
Non si tratta di parlare di Dio amando il proprio prossimo, come se potessimo in verità separare l’uno dall’altro (separare la parola dall’amore e Dio dal prossimo). Parlare di Dio vuol dire anche amare, in maniera indissociabile, colui a cui ne parliamo, perché vuol dire riverberare su di lui la Parola che gli dà l’esistenza e che quindi desidera infinitamente che lui esista. Capite la difficoltà? Sono missionario e un bel giorno mi trovo davanti a qualcuno che mi è ostile. Vengo ad annunciargli la Parola di Dio, ma visto che tale Parola mi dice che Dio è provvidenza, mi tocca ammettere che, questo tipaccio, me lo piazza in mezzo alla strada Dio stesso. Di conseguenza, devo innanzi tutto onorarlo questo tipaccio, devo riconoscere che, anche se mi sta parecchio antipatico, anche se è tremendamente contrario ai cristiani, come persona è eternamente voluto dall’alto e ha sempre qualcosa da insegnarmi.
Basta adottare questa giusta prospettiva e ogni fanfarone si rivela essere parola di Dio. Certo, non tanto per via delle intenzioni ostili, quanto per la sua presenza. È la Parola di Dio a conferirgli l’essere. È l’amore di Dio che lo trae fuori dal nulla. Magari l’ignora, ma se sono un apostolo del Creatore, io non posso ignorarlo. Devo andare oltre l’antipatia. Meravigliarmi prima di tutto del fatto che esiste. E non è una strategia di comunicazione, in questo caso: non mi sforzo di essere gentile, di rendermi affabile, di far finta di stare attento per rivendere la mia mercanzia.
In gioco qui c’è la verità della mia identità cristiana. Se non sono capace di meravigliarmi sinceramente, di fronte all’esistenza, per esempio di Michel Onfray (prendo un ateo in Francia, ma avrei potuto scegliere allo stesso modo un fondamentalista in Iran), non sono cristiano, perché Michel Onfray, anche se con la bocca pronuncia idiozie sulla Bibbia, con il suo essere rimane ugualmente una parola di Dio, certo imbavagliata, ma comunque divina nella sua apparizione: «Ben Zoma diceva: “Chi è il sapiente?”. Colui che trova qualcosa da imparare da ogni uomo».
Dio perciò è già presente nel più anticristiano degli uomini, forse non con la presenza di grazia, ma per lo meno con la presenza di creazione, con la presenza d’immensità, tanto che, nel momento in cui parlo di Dio con il mio nemico, devo aver coscienza che Dio è impegnato interamente a creare il mio nemico con amore. Una posizione decisamente destabilizzante, devo dire: mi tocca parlargli di Dio lasciandomi prima interpellare da lui, rifiutarne l’ignoranza accogliendone la presenza, contestarne l’inimicizia attestandone la bontà originaria. Ed è proprio lo stupore davanti alla sua bontà originaria, al di là della nostra antipatia iniziale, che può permettermi di dominare fino al cuore del nemico.

Fabrice Hadjadj
[Fonte: Avvenire, 3.05.13]

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