sabato 31 gennaio 2015

Un pastore che non teme i lupi

Il testimone | Padre Alejandro Solalinde

Padre Alejandro Solalinde difende il suo gregge: i migranti che tentano di passare la frontiera tra Messico e Stati Uniti. E che a migliaia muoiono o vengono rapiti dai criminali del narcotraffico.

da | CREDERE



In foto: Padre Alejandro Solalinde con il suo impegno sfida il potere dei cartelli della droga e dei trafficanti di uomini
 In foto: Padre Alejandro Solalinde con il suo impegno sfida il potere dei cartelli della droga e dei trafficanti di uomini

Lo hanno picchiato, minacciato e organizzato attentati al suo rifugio per migranti di Ixtepec. In un’occasione le autorità municipali lo informarono che, se non chiudeva il centro entro 48 ore, lo avrebbero bruciato. Ma anche quando si scoprì che un killer era stato pagato per ammazzarlo, ha scelto di non tacere.
Padre Alejandro Solalinde, 69 anni, è una sentinella dei diritti umani che ha scelto di passare l’ultimo periodo della sua vita mostrando il volto samaritano della Chiesa in Messico, il Paese che detiene il triste primato del maggior numero di sacerdoti e religiosi uccisi lo scorso anno nel mondo, con quattro preti e un seminarista assassinati.
A 60 anni, dopo 30 di sacerdozio, padre Alejandro andò dal suo vescovo e gli chiese «di non finire dietro una scrivania, ma stare sotto la Croce», cioè accanto ai 400 mila migranti senza documenti che ogni anno partono dagli Stati centroamericani e attraversano il Messico per passare la frontiera con gli Usa. Inizialmente il vescovo gli ha ricordato le tre parrocchie vuote della diocesi, ma poi ha accettato la proposta. «Da parroco», racconta, «avevo già avuto una vita abbastanza pubblica; a quel punto, desideravo solo permettere ad altri di vivere meglio, senza riflettori». Che le cose non sarebbero andate esattamente così, l’ha capito presto: la prima notte che aprì il rifugio, chiesero un letto in 400. Da allora, quel flusso è rimasto costante, casomai in aumento. Subito non sono mancate le polemiche di chi vedeva nei più poveri una presenza fastidiosa, da allontanare da casa propria. Poi padre Alejandro ha scoperto «un vero sistema»: la connivenza tra le autorità, dalla polizia ai funzionari locali, e i gruppi che gestiscono i traffici di migranti, droga e organi. Difficile rimanere zitto e nell’ombra, fingendo di non vedere: «Una volta che mi accusavano di essere diventato una figura troppo pubblica, ho risposto: io sono una persona normale, è Gesù Cristo che è pubblico. Ho rinunciato alla vita tranquilla che sognavo grazie alla forza spirituale, vinco la paura delle minacce grazie al Vangelo di Giovanni che dice: “Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo”». Quando alla tua porta bussa una donna stuprata, un ragazzino nudo, derubato anche dei vestiti, o un uomo che non si regge in piedi perché stremato dal viaggio, un cristiano sa da che parte stare. Solalinde cita Gesù nel Vangelo di Matteo: «Ero straniero e mi avete accolto. Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».
Il suo rifugio, chiamato Hermanos en el Camino (Fratelli in cammino), fa parte di quella geografia di centri di religiosi dove i migranti possono fermarsi per qualche giorno, prima di ripartire. Nell’ultimo anno sono in aumento i bambini, che le madri vogliono portare lontano per proteggerli dalle bande giovanili che insanguinano le città d’origine con la violenza e la vendetta. «Qualche mese fa sono scesi dalla “Bestia” talmente tanti bambini che sembrava di stare all’uscita di scuola». La “Bestia” è il treno merci che passa da Ixpetec su cui viaggiano i migranti, appollaiati sui tetti dei vagoni; è chiamata anche Tren de la muerte, perché capita che qualcuno cada e finisca mutilato o cadavere.
Come il Mediterraneo, anche il Messico ha le sue morti per il “Grande viaggio”. Tante fosse comuni, dove sono sepolte persone spellate vive o con occhi cavati. Sono le vittime dei sequestri dei gruppi criminali. Racconta Padre Alejandro: «Rapiscono 20 mila persone l’anno, per un giro d’affari di 50 milioni di dollari; li torturano mentre li fanno chiamare i parenti per estorcere il riscatto». Denunciare tutto ciò può costare la vita: nel 2011, il cadavere di María Elizabeth Castro, trentanovenne del Movimento laico scalabriniano, è stato abbandonato in una strada di Nuevo Laredo orrendamente mutilato. Lavorava in un altro rifugio per migranti e scriveva sul giornale locale ciò che vedeva. Dal 1993, anno dell’assassinio del cardinale Posadas Ocampo, a oggi, sono stati assassinati 28 sacerdoti, 3 religiosi, un diacono e 4 sacrestani della Chiesa messicana. «Se me ne vado, tradisco», spiega il sacerdote. «Sono un pastore, non posso scappare se vedo arrivare il lupo». Era un concetto che ripeteva anche monsignor Romero, il vescovo di San Salvador ucciso nel 1980 per il suo impegno contro la violenza e a favore dei deboli.
Padre Alejandro ama la Chiesa povera, missionaria ed evangelizzatrice sognata da Francesco, il papa che vuole pastori con l’odore delle pecore: «A modello di Gesù, che parlò e amò tutti, ma mostrò una preferenza per gli esclusi». Sulla via che dal Centroamerica porta verso il sogno americano, «stare accanto alla Croce vuol dire asciugare molte lacrime». Ai piedi della Croce, piangono donne come Marta, salvadoregna, quando telefona a casa alla figlia di sei anni e le dice: «Sii obbediente, impara le preghiere per fare la Prima comunione», ma poi si accorge che dall’altro capo del filo la bambina è scoppiata in lacrime. Mentre racconta di aver provato a suicidarsi inghiottendo dei farmaci, piange Jazmin, nicaraguense, venduta a un bordello messicano, dove è rimasta bloccata e vive con la figlia di pochi anni. E la commozione segna anche i racconti di Irma, partita con il sogno di pagare un’operazione medica al padre, che della sua prigionia ricorda «un macellaio» che squartava i migranti per cui le famiglie non pagavano il riscatto: «Puzzava di benzina, perché li mettono nei barili e li bruciano». Piangono in silenzio le madri anziane che vengono in Messico a cercare i figli di cui non hanno più notizia: attaccano cartelli con le foto sui muri scalcinati, visitano fosse comuni con croci di ignoti, fanno scivolare dei cestini con candele sulle acque dei fiumi che potrebbero aver accolto i corpi dei loro ragazzi scomparsi lungo la strada.

Testo di Stefano Pasta

Nessun commento:

Posta un commento